Come si calcola il rischio reale per il tumore al seno
No non e' una bufala anzi mi sto tenendo a galla cosi' . certo bisogna trovare anche qualcuno di molto paziente comr lei. ora vorrei chiederle alcune. cose sulla mia condizione. io ho scoperto questa male perche' avevo forti dolori. ora si sono un po' attenuati ma comunque ogni tanto li sento e sento anchr un calore questo mi succede anche all'altro seno e in basso dove sono stata operata. vorrei sapere se un nodulo puo' evolversi in infiammatorio e da quando la chemio comincia ad agire. Ho paura che si ingrossi e quindi possa diventare non piu' operabile a me faranno asportazione totale. c' e' questo rischio? grazie sncore
Non sono io, che sostengo esattamente il contrario con dati oggettivi, ma uno psicologo che sostiene che si tratti di una bufala. E Lei l'ha appena confermato, ma non è l'unica perchè in uno studio da me condotto sono ben il 10% delle pazienti che arricchiscono i dati del Rating con il termine EMPATICO per definire il consulto-online cui hanno partecipato. https://www.medicitalia.it/salute/senologia/6-consulti-online-in-senologia.html Se Lei lo conferma, come ha appena fatto e come comincia ad essere confermato letteratura recente, evidentemente si può parlare di EMPATIA,anche se io non l'ho mai conosciuta se non virtualmente attraverso un numero di codice (più alcune mail dove si è firmata con nome e cognome) e solo su questo sito. Si può quindi parlare di EMPATIA pur in assenza di * contatto corporeo [(mi riferisco alla "stretta di mano" se no suo marito, che sarebbe benvenuto su questa discussione e che intanto ci legge, mi ucciderebbe con in pugno molte buone ragioni ^__^)] * contatto visivo * spazio corporeo * postura * gestualità * voce * abilità verbali * ecc Riguardo alla sintomatologia che descrive mi sento autorizzato a rassicurarla senz'altro, anche se una confertma si può avere solo attraverso una visita. Ne parli con il suo oncologo che la tranquillizzerà senza dubbi.
L'EMPATIA VIRTUALE E' UNA BALLA COLOSSALE. Sic ! Ecco un bellissimo esempio di Medicitalia che dimostra il contrario nel quale mi sono imbattuto casualmente pochi minuti fa. https://www.medicitalia.it/consulti/oncologia-medica/331955-morte-da-carcinoma-polmonare.html Non potevo fare a meno di allegare il link. Sempre più convinto che l'empatia uno ce l'ha o non ce l'ha ed in tal caso nemmeno la vede !
Grazie collega per avermi citato. Io non so come e quando qualcuno abbia scritto che l'empatia virtuale non esista. Non sono una psicologa, ma ho studiato un po' l'argomento anche con qualche corso organizazto da psichiatri/psicologi. Per quel che delle emozioni altrui. Una volta che uno è partecipe deve comunicare tale partecipazione al malato. Sicuramente il linguaggio non verbale aiuta tantissimo: una stretta di mano, una carezza sulla fronte, talvolta un abbraccio, lasciare che le lacrime ti salgano agli occhi sicuramente sono cose che hanno un effetto comunicativo eccezionale, e spesso dicono più di mille parole. E le parole dette guardando il paziente dritto negli occhi hanno sicuramente molto più valore delle stesse cose dette guardando altrove. Ma anche le parole scritte possono essere potenti. L'importante è che siano le parole giuste e che si riesca a far capire che non sono parole di circostanza. Qualche anno fa ho ricevuto via mail una richiesta di consiglio per un ragazzo che aveva un tumore maligno cardiaco, già operato e recidivato. Ho indicato alla madre che mi scriveva il nome di un chirurgo molto bravo, che lavora all'estero ma è italiano e che conosco bene, e ho fatto da tramite. Purtroppo il ragazzo è risultato inoperabile, quindi si sono dovutio rasesgnare all'inevitabile esito infausto, avvenuto dopo alcuni mesi. All'inizio io le mamma ci sioamo scritte per le cose tecniche (contatti con il chirurgo, esami, ricerca di terapie di supporto). Ma il caso umano mi aveva preso, per cui ho cominciato ogni tanto a scriverle la sera un mail per sapere come andava. Lei mi ha mandato una foto del figlio; io ne ho uno di poco più giovane e mi sono chiesta "Che cosa farei io al posto suo? Come starei?". A un certo punto lo scambio di mail serali è divenuto un' abitudine; il ragazzo e motro da tre anni, e siamo ancora in contatto via Facebook, abbiamo scoperto alcune passioni in comune, ormai ci diamo del tu e siamo diventate amiche... e non ci siamo mai viste se non in foto. Il segnero è che mi sono spogliata del mio ruolo iniziale di medico e mi sono mostrata come persona. Se lei vivesse in una rgione più vicina, se ci fossimo incontrate di persona, probabilmente nel giro di un'ora sarei riuscita a derle le stesse cose che hanno richiesto invece tante ore e tante parole affidate a una mail, e pesate per evitare di scrivere cose sbagliate (nel colloquio diretto il vantaggio è che ti accorgi subito di aver detto qualcosa che non va e puoi spiegare o rettificare subito). Insomma, l'empatia virtuale secondo me esiste, è solo molto più difficile da praticare che con il contatto diretto.
Mi accorgo ora che il testo pubblicato ha perso dei pezzi qui e là, e diventa incomprensibile. >>Per quel che delle emozioni altrui.>> era in origine: >>Per quel che ne so, l'empatia è la capacità di farsi partcipi delle emozioni altrui.>Il segnero è che mi sono spogliata del mio ruolo iniziale di medico e mi sono mostrata come persona.>> era >>Il segreto è che mi sono spogliata del mio ruolo iniziale di medico e mi sono mostrata come persona.>Se lei vivesse in una rgione più vicina, se ci fossimo incontrate di persona, probabilmente nel giro di un'ora sarei riuscita a derle le stesse cose...>Se lei vivesse in una regione più vicina, se ci fossimo incontrate di persona, probabilmente nel giro di un'ora sarei riuscita a darle le stesse cose...
Cara amica come va?e il tuo piccolo angioletto? anche se non ci conosciamo ti sento molto vicina e ti penso molto,tieni duro, procedi giorno per giorno, un passo alla volta, vedrai che scoprirai dentro di te una forza che non pensavi neanche d'avere! Due anni fa a quest'ora ero in sala operatoria, sono stati giorni difficili sia quelli che hanno preceduto l'intervento, che quelli successivi..però oggi a due anni di distanza credo che tutta questa vicenda, che sicuramente mi ha sconvolta e provata mi ha dato anche la possibilità di rivedere e rivalutare la mia vita..."quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e ad uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato." Haruki Murakami. anch'io non mi sento più di essere la stessa persona di prima, mi sento maturata,più forte, consapevole e pronta ad apprezzare ogni piccola cosa,ogni nuovo giorno,.. Sono sicura che la tua famiglia ti sta aiutando molto, sei fortunata ad averli vicini.Anche noi, per quel che possiamo fare virtualmente, ti siamo vicine, e ti teniamo stretta, non temere di cadere nel vuoto! un grande abbraccio
>>L’EMPATIA VIRTUALE E’ UNA BUFALA COLOSSALE>> Chiara, accantoniamo definitivamente questo tema e se qualcuno continuerà a sostenerlo….glielo lasciamo dire …..perché ormai c’è tanta e tale letteratura che tornarci su ci porterebbe solo a inutile perdita di tempo. Ho avuto modo di approfondire questo tema su cui, ripeto ormai c’è tanta letteratura (a partire da “E-mail and Ethics” di E.R.) non solo in Italia avendolo trattato nel 2012 in alcune manifestazioni pubbliche nel contesto di relazioni, su specifico invito, sulla “comunicazione non convenzionale” tra medico e paziente, in cui Internet rientrava tra i tanti strumenti della comunicazione. Forse in chiave rigorosamente scientifica quello che chiarisce meglio la definizione di empatia sia reale che virtuale è il bellissimo libro di Simon-Baron Cohen .“THE SCIENCE OF EVIL”, nel quale questo concetto è rivisitato rispetto alla letteratura corrente con studi rigorosissimi centrati soprattutto sugli individui che non ce l’hanno l’empatia come i medici nazisti che facevano esperimenti sugli ebrei nei campi di sterminio ed erano in assoluta "buona fede" ( esperimenti scientifici al servizio-sic- dell'umanità). Questi studi sono stati condotti grazie alla Risonanza Magnetica funzionale che visualizza le aree cerebrali che entrano in gioco quando si entra in empatia. Cioè è dimostrata l'esistenza, scomodando anche ragioni genetiche, proprio di un circuito cerebrale dell’empatizzazione con una decina di aree cerebrali coinvolte . Ciò ha permesso addirittura di creare un Quoziente di Empatia per misurare l’empatia degli adulti e dei bambini. In altre parole, se l’applichiamo alla comunicazione a distanza tramite il web, e non considerando quella parte di empatia che si acquisisce con l’esperienza della vita, si può schematizzare per semplificare la presenza o l'assenza di empatia in >> C’è empatia quando smettiamo di focalizzare la nostra attenzione in modo univoco ( single-minded) , per adottare invece un tipo di attenzione «doppia» (double-minded). >> Uno ce l’ha o non ce l’ha ….come il coraggio per il Don Abbondio del Manzoni, sia nella relazione vis-a vis, che a distanza tramite lo strumento virtuale. Non c'è differenza, tant'è che nella vita reale gli individui che non ce l'hanno l'empatia sono non certo rari. Io ci sono arrivato a condividere tutto ciò anche nella pratica professionale e casualmente a seguito di alcune esperienze per me clamorose. Ad esempio dopo avere formulato a distanza diagnosi di tumore maligno, negate da altri colleghi nella vita reale, tramite Internet (relazione virtuale ) ho avuto modo di conoscere poi “vis a vis” alcune di queste pazienti che sono venute a Milano per ringraziarmi di persona….."per averla scampata bella". Quello che mi ha colpito di più in alcuni di questi casi è che l’incontro vis a vis (quindi con tutto il corollario di strumenti verbali e non verbali che la relazione reale dovrebbe comportare) non ha arricchito affatto la relazione iniziata invece alla grande virtualmente. Come se, contro ogni aspettativa, avesse l’incontro reale mascherato e paradossalmente impoverito gran parte della “spontaneità e sincerità” sgorgata casualmente nel corso della precedente relazione virtuale. Per quanto possa sembrare strano il successivo incontro reale in alcuni di questii casi ha “spento” parte del colpo di fulmine virtuale scatenato proprio in pieno anonimato.. tant’è che in alcuni casi la relazione è stata rinfocolata solo quando poi è tornata nella sua dimensione virtuale. Sto descrivendo solo sensazioni e spero di essere riuscito ad esprimerle chiaramente. In altre parole ora sono convinto dopo una decina di queste esperienze che il grado di empatizzazione virtuale possa addirittura essere favorito dall’anonimato di uno dei due e frenato poi quando passa alla verifica reale proprio dal contesto (contatto corporeo, contatto visivo, postura, voce ecc. ecc ) che dovrebbe secondo le aspettative favorirlo. Ho incontrato ad esempio alcune persone, con cui per ragioni professionali avevo relazionato virtualmente spesso anche tramite mail , raggiungendo un certo livello soddisfacente di empatizzazione, ma poi quando le ho conosciute realmente, la relazione è diventata più formale e meno spontanea , come se la perdita dell’anonimato avesse frenato piuttosto che incoraggiato il livello di empatizzazione. In questi casi mi sono chiesto se la causa fosse da ricercare in a)Salvo Catania è più empatico virtualmente che realmente ? Possibile ! b) L’utente XY è più “spontaneo/a” e disponibile nella relazione virtuale , mentre lo è MENO in quella reale ? Possibile !
Utente 198166. Intanto grazie del contributo e...la frego subito (^____^) perchè Lei mi ha scritto anche altro che non osava riportare su questo blog...perchè poco interessante. Io invece lo reputo interessante e lo copio-incollo. Mi ha colpito molto il fatto che GIOVANE e con un bambino piccolissimo come la nostra amica, in questa esperienza CI HA RIMESSO UN SENO (accadrà probabilmente anche alla nostra amica....ma non è detto)...e ci tiene a far sapere di RITENERSI FORTUNATA. Le sembra poco interessante ? >>Se può essere utile a qualcuno,ben venga..anche se mi sono sempre ritenuta molto fortunata rispetto ad altre donne, perchè non ho dovuto fare la chemioterapia.Sono riuscita a tener duro a non crollare anche dopo l'operazione, a farmi vedere forte, dalla mia famiglia che era distrutta dal dolore e dalla preoccupazione,anche quando mi sono guardata per la prima volta nello specchio e mi sono sentita le gambe cedere e le lacrime scendere sul viso, ma se avessi dovuto fare la chemio credo sarei crollata..mi ha sempre molto spaventato..ecco quindi a volte ho come l'impressione di non avere molto da raccontare perchè la mia esperienza si è "conclusa " abbastanza velocemente. Dalla scoperta della malattia all'operazione e al risultato dell'esame istologico sono passati 2 mesi in tutto..poi ho avuto l'attesa per la ricostruzione, i gonfiaggi dell'espansore ma dopo 9 mesi ho fatto anche l'operazione di sostituzione(anche se per me è stato un tempo interminabile).. Ma se lo ritiene utile, puo usare i miei messaggi e riportarli sul blog.. >>
Cara amica, la paura di morire annichilisce sempre e tutti, soprattutto se si hanno come è accaduto anche a me bambini piccolissimi alla scoperta della malattia. Poi piano piano proprio da loro si ricavano tutte le energie per sopravvivere all'inizio e per vivere meglio di prima quando è scampato il pericolo.
e mi ha fregata..:)ecco la mia esperienza..io abito in un piccolo paesino..e si sa la gente mormora, tutti conoscono tutti, è difficile farla franca..così quando è arrvita la notizia della malattia tutti mi guardavano come se fossi già arrivata al capolinea..per me che non ho mai voluto farmi compatire, quegli sguardi e le parole bisbigliate nell'orecchio dell'altro, mi ferivano, ero già etichettata per quella malata, poverina così giovane, e quel povero bambino..di certo non avevo bisogno di quello, anzi avevo bisogno di qualcuno che mi desse una parola di fiducia, che mi spronasse..si sa che dai tuoi cari non ti puoi aspettare l'impossibile,già devono essere forti per non farti vedere il loro dolore,gli amici, si ci sono stati ma anche loro non sanno bene come comportarsi, per fortuna ho trovato la persona che cercavo e che mi ha aiutato moltissimo, in un'associazione di donne operate al seno..una giovane donna che alla mia stessa età e con una bimba della stessa età del mio, un pò di anni prima,aveva subito una mastectomia radicale e aveva fatto vari cicli di chemio. Ci siamo incontrate e abbiamo parlato a lungo.. mi raccontò la sua storia con molta semplicità e naturalezza, senza sminuirla o rednderla tragica..anche lei aveva provato quello che provavo io,mi spronò a raccogliere tutte le forze e ad intraprendere la mia lotta personale contro quel nemico, avanzando lentamente giorno dopo giorno, gioendo dei risultati ottenuti e dei giorni felici e tirando fuori le unghie nei giorni bui..mi è stata vicina lungo tutto il mio percorso, e ci sentiamo ancora oggi. cmq poi quando tutto si è risolto è sorto il problema della mutilazione fisica..quando all'inizio il chirurgo che mi ha operata mi spiegava che avrebbe dovuto asportare tutta la ghiandola mammaria e anche il complesso areola capezzolo, ma che poi ci sarebbe stata la ricostruzione,le sue mi sembravano cose dette in più, cioè il mio più grande desiderio in quel momento era che togliessero quell'intruso dal mio corpo, del resto non mi interessava.Poi invece quando realizzi che tutto è andato per il meglio e la paura di morire si attenua, devi fare i conti con il tuo corpo, che non è più lo stesso, anzi, manca di una parte che è per eccellenza il sinonimo della femminilità. e quando ti guardi allo specchio, perchè prima o poi devi farlo, scopri che in realtà la cicatrice che fa più male non è quella che è visibile ai tuoi occhi, è ben più profonda,e sei arrabbiata con il mondo intero ti chiedi perchè è capitato proprio a me? E' capitato e basta, non c'è un vero perchè e non c'è una vera risposta alla domanda che ti poni, però tu ci sei ancora, sei viva e nuova, e forte e combattiva e consapevole, hai una marcia in più perchè sai quanto sia stata difficile quella lotta che hai affrontato e che hai vinto,e hai questa nuova possibilità che ti viene data,e questa non può che essere una fortuna! si mi riteengo fortunata nella mia sfortuna!
>>la paura di morire annichilisce sempre e tutti>>. Non tutti alla stessa maniera. Certamente confrontarsi con la paura di morire è un passo inevitabile, ma ciascuno di noi reagisce sulla base di UNA IDEA PROBABILISTICA DELLA MORTE che possediamo PRIMA della scoperta della malattia e che provo a sintetizzare qui secondo quanto sostiene negli incontri con le donne operate di Attivecomeprima il mio amico Stefano Gastaldi psicologo allievo del grandissimo Franco Fornari. IDEA PROBABILISTICA DELLA MORTE Se ci ammaliamo di cancro, sappiamo molto bene di avere una certa probabilità di morire, di guarire o, comunque, di sopravvivere per un determinato periodo. Anche al di là del cancro, questa sorta di "idea probabilistica" della morte non è, però, di per sé estranea alla psiche umana. Senza alcuna necessità di conoscere la statistica, abbiamo imparato precocemente ad avventurarci nella vita, accettando una certa dose di rischio connessa a ogni progresso, a ogni crescita e progressiva acquisizione dell'indipendenza e dell'autonomia. Possiamo dunque dire che l'idea probabilistica della morte ci appartiene, fa parte dei nostri processi psichici vitali ed è collegata alla nostra di capacità di accettare rischi proprio in nome della possibilità di vivere! Nel corso degli infiniti adattamenti che costellano la vita umana, tale idea appare venata da un ché di "naturale", che non la rende traumatica anche perché, almeno per il lungo periodo della crescita, l'assunzione di rischi è stata sorvegliata da potenti agenzie educative (la famiglia, la scuola...) che cercano di garantire che tali rischi siano adeguati alle nostre capacità di affrontarli. La conoscenza dell'ambiente, la capacità di utilizzare l' esperienza per compiere generalizzazioni e ipotesi sul futuro sono potenti strumenti che ci aiutano a sentirci abbastanza al sicuro nella vita quotidiana, anche se compiamo operazioni rischiose come andare in automobile, attività sportive, maneggiare apparecchiature elettriche, cambiare lavoro, ecc. Se invece ci ammaliamo di cancro, il rischio di morte, confinato sino ad allora in una zona "di contesto" della mente (fuso cioè nelle abituali condizioni ambientali accettate e, come tale, tenuto sotto controllo e ricondotto ad una certa "naturalità" del vivere) irrompe prepotentemente all'interno dell'orizzonte vitale e tende ad essere avvertito come un rischio "innaturale". Ciò deriva senz'altro dal noto ostracismo dato dalla nostra cultura alla malattia grave, quella per la quale si muore davvero. Quasi non fosse invece "naturale" che ci si possa ammalare e morire. In fin dei conti, nei nostri geni non è scritto che l' individuo debba sopravvivere indefinitamente; ciò non è scritto neppure nella psiche, tant'è che l' adattamento affettivo e mentale alla morte è una funzione dei processi di crescita e invecchiamento; la stessa per la quale, anche in modo del tutto inconsapevole, persone giovani possono pensare la loro vita su lunghi tempi e persone meno giovani su tempi più brevi. L'incontro con il cancro fa saltare i progetti, brevi o lunghi che siano, induce una sorta di senso disperato e desolato di rovina, poiché introduce direttamente nel campo vitale un "principio di incertezza" (vivrò? quanto ancora? come?) sino ad allora confinato in un'area psichica presidiata da difese o comunque accettato come condizione "sotto controllo" della vita. L'idea probabilistica della morte, permeata di incertezza, ci è ora suggerita da due potentissime fonti di conoscenza: A. I nostri sensi, e il senso comune: vediamo, ascoltiamo, tocchiamo con mano la vita. Quindi sappiamo che di cancro si muore. Sappiamo anche che si vive, ma questa informazione ha spesso un valore emotivo ridotto, meno pregnante, poiché non abbiamo alcuna garanzia circa le condizioni in cui "sicuramente" si può vivere dopo il cancro. B .la Medicina: dalla quale traiamo non solo speranza, ma anche informazioni. Esse ci consentono di sapere, ad esempio, che un cancro alla mammella e un cancro al polmone ci offrono, statisticamente, prospettive di sopravvivenza differenti; ci dicono "a priori" che probabilità di vita potremmo avere per ogni tipo di tumore conosciuto. Forse pochi sono a conoscenza delle informazioni (ed hanno quindi i relativi pregiudizi) di tipo "B". Tutti hanno conoscenze e pregiudizi di tipo "A". Può non essere vantaggioso aggiungere le conoscenze "B" a quelle "A", poiché ciò farebbe aumentare, con molta probabilità, l' incertezza, soprattutto per i tumori per i quali la probabilità di sopravvivenza non è molto elevata. Dal punto di vista psichico, questa incertezza è una potente cagione del malessere. Le nostre difese rischiano ora di naufragare, offrendo il panorama di una nuova e dolorosa nascita. Certamente le relazioni con i medici sono, perlomeno all'inizio, le più importanti. Si tratta di rapporti che lasciano sempre tracce profonde, nel bene e nel male, in ragione di come la persona sente accolte le necessità vitali che la spingono ad affrontare, per essere aiutata in momenti terribili e sacrali come la comunicazione della diagnosi, le decisioni sulle terapie appropriate, le comunicazioni circa le possibili prospettive della vita dopo le cure. Da un lato, l'istituzione medica è fatta apposta per accogliere il bisogno di cura e per fare tutto ciò che è in suo potere per soddisfarlo. D'altro lato essa stessa, nel curare, procura dolore: con la comunicazione della diagnosi il medico "mette la malattia nella coscienza" del paziente, sottraendola a quell'area confusa e impaurita in cui è però sempre possibile sperare che "non sia vero"; le cure, spesso invasive o dolorose, richiedono alla persona ammalata di essere in grado essa stessa di attivare le proprie risorse per affrontare eventi difficili quali il cambiamento del corpo e le paure per il futuro. Lo stesso rituale dei controlli periodici successivi alle terapie e il loro protrarsi a lungo nel tempo contribuisce per molti a rafforzare, nella prospettiva che stiamo considerando, l'idea che la malattia, mai dichiarata vinta, possa ripresentarsi.
Rieccomi! Intanto voglio ringraziare la ragazza che ha scritto in modo cosi sincero, naturale e comprensibile la sua esperienza e sono contenta che ora stia bene. e' vero sapere da chi è stato malato e ora sta bene da' molto coraggio. sull'empatia posso dire, per esperienza personale, io faccio l'insegnante, che o si è empatici o non lo si è, ma anche le diverse situazioni della vita ti portano a volte a non esserlo. io non ho aiutato un mio alunno che aveva subito la morte di una persona cara, perchè quello è stato da sempre il mio incubo e mi sono completamente bloccata sul piano emotivo, non sono stata empatica e quando ci penso mi rammarico sempre molto. sull' ultimo post, che dire alzo le mani , tutto vero e sto sperimentando sulla mia pelle.
Cara amica bentornata! Sono d'accordo che tutte noi sulla nostra pelle abbiamo sperimentato la paura di poter morire e non ci aiuta affatto che siano proprio molti medici a rimuovere il concetto della nostra morte, non avendo elaborato ancora la loro morte. Non metto in dubbio che lo scopo sia benevolo e protettivo nei nostri confronti, ma stride con il contesto drammatico e suona quasi sempre come una sottovalutazione delle nostre emozioni ("Non si preoccupi non è nulla !" NULLA ???)
Posso aggiungere che -da medico- evito di norma di raccontare bugie o fare false promesse ai pazienti, tipo "Lei guarirà, non si preoccupi!", visto che potrei essere smentita dai fatti e a quel punto il paziente avrebbe una grossa delusione e io perderei tutta la mia credibilità. Preferisco dire: "La situazione sembra gestibile con facilità" oppure "La situazione è grave, ma ci sono delle cose che possiamo fare". Posso aggiungere una nota personale: alcuni anni fa in seguito a una rovinosa caduta in bicicletta mi sono rotta molte ossa della faccia. Nonostante alcuni interventi, mi sono ritrovata con i connotati cambiati (il naso era spostato più in basso, e quindi era cambiata la forma degli occhi, della bocca), e la cosa mi ha destabilizzato molto. Tutti mi dicevano "Ma sei carina! Anche meglio di prima!". Il fatto è che quando mi guardavo allo specchio non mi riconoscevo. Non era una questione di estetica, ma di immagine di sè. E ho capito molto meglio la sensazione di certe donne che soffrono della mastectomia. Dopo due anni, verificato che ogni volta che qualcuno in compagnia tirava fuori una macchina fotografica io mi allontanavo dal gruppo perché non sopportavo la mia immagine, ho deciso (contro il parere di tutti tranne che del chirurgo maxillo-faciale che me lo aveva proposto) di fare un intervento (non era una bazzecola) per farmi staccare il naso e riattaccarlo più in su. Dopo, i miei amici e parenti (anche marito e figli, che non volevano che mi operassi di nuovo perché erano ancora traumatizzati dai precedenti interventi) hanno ammesso che avevo fatto bene, perché avevo ripreso delle fattezze più simili alle mie naturali. Continuo a sentirmi a disagio per essere passata da un naso aquilino a uno "piallato", ma almeno se mi guardo di fronte sono io, perché la forma degli occhi è di nuovo la mia. Quindi: ha perfettamente ragione l' Utente 286412: se una persona si sente a disagio, la rassicurazione generica e minimizzante suona veramente come una sottovalutazione del problema. E la percezione di un problema (anche estetico) è molto personale.