Come si calcola il rischio reale per il tumore al seno
Daniela Sicilia
Martuccia
Un abbraccio
Un abbraccio
Daniela Sicilia
Martuccia
Scusa l'invadenza ma tu di dove sei esattamente
Scusa l'invadenza ma tu di dove sei esattamente
- Modificato da Daniela Sicilia
Annie.
Buonanotte blog
Annie.
io ci sono
salvocataniaMedico Chirurgo
Daniela Sicilia:
Martuccia
Scusa l'invadenza ma tu di dove sei esattamente
L'ha scritto più volte : Parma
salvocataniaMedico Chirurgo
Daniela Sicilia:
Fatemi sapere la data che se riesco vengo volentieri e vediamo come incastrare i turni.
Bnotte
Che bello !
Se ci va anche lei invece di chiamarlo IV raduno del Nord-Est lo chiameremo
I° Raduno dalle Alpi alle Piramidi
- Modificato da salvocatania
salvocataniaMedico Chirurgo
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 1
Riassumo gli scopi e obiettivi del blog attraverso i dati di uno studio personale, che non ha la pretesa di avere una dignità scientifica perché è solo uno studio osservazionale, che ha registrato, in 40 anni di osservazione, le “schede” di oltre 15.000 pazienti seguiti per almeno 20 anni, con il fine di standardizzare i principali fattori prognostici (oltre a quelli classici sui quali c'è poco da dire perché immodificabili dal medico e dal paziente).
Cercherò di mostrare tutti i passaggi storici a partire dagli anni ‘80, per dare evidenza al fatto che oggi il paziente non è solo un recettore passivo, come accadeva ai tempi della medicina paternalistica, ma è un protagonista attivo del suo destino.
Fattori prognostici
Possiamo distinguere i fattori prognostici in:
1) FATTORI PROGNOSTICI GENETICI IMMODIFICABILI (es. mutazioni genetiche)
2) FATTORI PROGNOSTICI CLASSICI IMMODIFICABILI (es. istologico)
3) FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI DAL MEDICO tra cui, il più importante, il placebo che deriva dalla capacità del medico di trasferire al paziente la FEDE nelle terapie e soprattutto la Speranza.
È un tema molto complesso, che rimando agli approfondimenti successivi, per farvi comprendere che il compito premeditato e non casuale del sottoscritto è stato ed è nel blog quello di somministrare sempre placebo per incrementare l'efficacia delle terapie, ridurre gli effetti collaterali delle stesse e alimentare SEMPRE la speranza.
Lo scrivo per la prima volta al tredicesimo anno di vita del blog perché l'effetto del placebo è molto più efficace se il paziente non è consapevole che lo sta assumendo.
Poi c'è una ragione più pratica, avrete verificato che 9 volte/10 Salvo Catania ci ha sempre azzeccato sui vostri criceti scatenati che chiedevano lumi a seguito di un sintomo o di un referto strumentale dubbio.
Perché secondo voi?
Perché Salvo Catania ha la sfera magica?
Perché è bravo?
Ma quando mai!
Perché, per esperienza, ho verificato che in 9/10 dei casi siamo di fronte a un
Parlo di acquisizioni scientifiche, che approfondiremo e ne leggerete delle belle, compresi i risultati dello studio inedito che ho condotto per un quinquennio sulle RFS che hanno inviato le immagini in tempo reale mentre praticavano la chemioterapia da single o in coppia, includendo nelle immagini anche la temuta e famigerata “rossa”.
4) FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI DAL PAZIENTE
Parliamoci chiaro e attenzione agli equivoci e al significato delle parole.
Io scrivo per tutti, ma sono consapevole che molte RFS relativamente nuove sono ancora nella fase dei necessari meccanismi di difesa e vorrebbero sentirsi dire:
“sei guarita al 100%” o “la pratica è chiusa definitivamente”
Io preferisco dire la verità, che è poi la stessa se ci troviamo di fronte ad una persona che non ha avuto il cancro.
Sia ben chiaro che Salvo Catania non ha scoperto la cura del cancro, a quello ci pensa la Medicina ufficiale, ma ha studiato, anzi osservato e registrato il motivo per cui pazienti con prognosi molto severe vivano a lungo una vita normale, uscendo dalle previsioni prognostiche e dalle casistiche, mentre altre pazienti presentano eventi avversi pur partendo da fattori prognostici molto favorevoli.
E vi assicuro, vero Francesca? Vero Giovanna? Vero Dada?... che quando dobbiamo verificare che “ci risiamo” è sempre peggio della prima volta, proprio perché l'aspettativa legittima di tutti è quella di avere già dato, per poterne sopportare un'altra nuova, non avendo ancora elaborato del tutto
della prima volta !
Caso clamoroso quello della nostra Christina, Triplo negativo, Sla e pregresso infarto, ma resiliente, proattiva ed empatica che è stata chiamata ad assistere in fase terminale in un Hospice la sorella Er, affetta da un Tontolone con Ki67 dell'8% e che dopo le terapie pensava di avere "chiusa la pratica" definitivamente.
Leggete questo vecchissimo approfondimento sulla VARIANZA
Il mio studio è stato esteso a circa 15.000 pazienti che ho potuto seguire con vari strumenti di contatto per almeno 20 anni, ma essendo uno studio privato è legittimo non fidarsi e sospettare che il narciso Salvo Catania si sia inventato tutto perché i dati non sono controllabili.
Allora il blog è diventato un laboratorio di ricerca dove i dati sono verificabili da tutti attraverso quelli da me raccolti e anche quelli ricavati da ben cinque tesi di psicologia che hanno rivoltato il blog come un calzino, tra cui quella che vi ha coinvolto direttamente di cui vi ricorderete senza dubbio:
Raccontare la malattia: un forum dedicato al tumore al seno
Da questa montagna di dati è nato e cresciuto il blog e le raccomandazioni per incitare alla "responsabilità" come sinonimo di consapevolezza e non certo per fare emergere sensi di colpa che non hanno ragione di esistere.
Quando si parla di “responsabilità” non si fa mai riferimento alle cause che non conosciamo, ma alla consapevolezza sui fattori di rischio che dovrebbero conoscere anche coloro che non hanno mai avuto il cancro.
Il blog è nato per fare da guida e palestra di allenamento con una metafora, in un difficile percorso che, attraverso l'esercizio della resilienza, porta dalla condizione di "coniglietta" a quello di "marmotta".
Ho già fatto cenno a quali siano i fattori prognostici molto favorevoli che abbiamo ad uno ad uno approfondito nel blog. Non sono paragonabili alle terapie per la cura del cancro ma, dai dati registrati, sono fattori che rendono la vita difficile al bastardello.
E la somma dei singoli fa il totale.
Questi, a mio parere, sono i FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI dal paziente.
a) Elevato quoziente resiliente, quoziente proattivo.
Non serve il coraggio o come si suol dire...... "sii forte, fatti coraggio".
Non serve la forza, ma la flessibilità, elasticità.
E una strategia da copiare: “calati juncu ca passa la chìna”
Perché la mafia è invincibile?
Perché quando arriva la piena come fa lo "Juncu" si abbassa (non spara più, non esercita più la violenza) e sparisce per riemergere solo quando la piena è passata.
b) Elevato quoziente critico che spesso si accompagna ad un elevato quoziente intellettivo.
I livelli dei due quozienti von sempre coincidono e comunque il quoziente intellettivo non ha valore come fattore prognostico, ma quello critico sicuramente sì.
Faccio un esempio clamoroso e facilmente comprensibile:
non c'è dubbio che Sgarbi manifesti un elevato quoziente intellettivo, ma quando spiritato insegue il malcapitato antagonista al grido di "capra capra", mostra un quoziente critico veramente basso.
Ed è singolare che la sua notorietà derivi dall'essere un rinomato critico d'arte.
Tra i fattori prognostici modificabili dal paziente un quoziente critico (Critical Thinking) elevato, associato ad un quoziente empatico elevato, ha sicuramente significato favorevole.
Spesso lo si confonde con il quoziente intellettivo (Q.I.) al quale frequentemente si associa, ma ci sono molte eccezioni riscontrate persino in diversi premi Nobel.
La differenza principale tra le tante è che l'intelligenza si basa sul ragionamento, mentre il pensiero critico coinvolge un aspetto psicologico.
Il pensiero critico è uno stato d’animo, quasi un tratto della personalità, che racchiude il desiderio della verità, il bisogno di prove, la tendenza a immaginare varie possibili spiegazioni e una certa apertura a idee contrarie.
Quello che il ricercatore Kurt Taube chiama "fattore disposizione".
Chi ha un quoziente critico elevato mostra in particolare: curiosità e desiderio di trovare la verità.
Un quoziente critico elevato, spesso associato ad un quoziente empatico elevato, cerca sempre di chiarire in caso di incomprensioni o fraintendimenti in qualsiasi tipo di relazione.
c) Elevato quoziente empatico
Molti pensano di essere empatici solo perché si circondano di amicizie e simpatie. Su questo concetto abbiamo fatto qui decine di approfondimenti, e chiarimenti e anche discussioni agitate, perché non si può essere empatici solo con chi ci piace.
Di fatto un quoziente empatico uguale o> a 3-4 è veramente raro!
Nel blog, comunque, ne abbiamo tanti esempi.
d) Stile di vita salutare (alimentazione + attività fisica)
E qui chiamatela come volete ma il senso di responsabilità non conosce sinonimi.
Tanto più che le trasgressioni sono concesse, anzi talvolta necessarie per rispetto dell'umore.
Ecco perché parliamo sempre di stile di vita e non di alimenti concessi o proibiti.
Da questi dati emerge che, anche se i fattori prognostici di partenza sono favorevolissimi, recidive o secondi tumori o eventi avversi sono più frequenti in modo significativo in quei pazienti che per semplificazione definisco (e incoraggio provocandoli)
Pacco Postale!
E chiedo scusa per la definizione che può sembrare offensiva.
Questa locuzione l'ho usata un paio di volte con persone, con cui ormai avevo una certa confidenza, per provocare e spronare e fare intendere di trovarci su un percorso sbagliato.
"Lo sa che lei rassomiglia ad un pacco postale?"
Caratteristiche del pacco postale:
Mi intenerisce sempre da una parte questa figura, ma allo stesso tempo non posso fare a meno di non pensare ad un pacco postale che passivamente e acriticamente si fa mettere, con scarso senso critico, il timbro quando scorre sul nastro postale, della chirurgia, della radioterapia, della chemioterapia, immunoterapia e della ormonoterapia.
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 2
Già al terzo anno di Medicina, iniziando a frequentare i reparti ospedalieri, ero consapevole che al mio desiderio naturale di aiutare gli altri, la facoltà di Medicina aveva contrapposto l'insegnamento a mantenere la distanza dal paziente, piuttosto che fornirmi indicazioni sul modo migliore per comunicare con una persona malata.
L'empatia, inesistente nella mia formazione scolastica, i sentimenti, le idee, le aspettative e il contesto sociale del malato non venivano presi in considerazione come se non avessero nulla a che fare col quadro clinico di cui ci si stava occupando.
La medicina, tutto sommato, quando mi sono laureato era una cosa abbastanza semplice: la diagnosi si basava principalmente sull’ esperienza, sull'anamnesi e sulla abilità manuale nelle manovre dell'esame obiettivo. I test di laboratorio erano veramente scarsi.
Si presumeva che ogni malattia avesse una causa specifica, secondo il modello delle malattie infettive e quindi il modello scientifico di base era comunque quello meccanicistico, newtoniano o cartesiano, cioè una lunga catena di cause ed effetti ordinatamente collegati.
Per la verità io potevo considerarmi uno studente di medicina “fortunato” (sic!) perché, proprio nella fase di formazione professionale, avevo avuto modo di toccare con mano la paura, il senso di disagio, l'isolamento e la perdita di controllo che sperimentano i pazienti con i loro familiari quando sono consapevoli di essere stati colpiti dal cancro.
A me e non a mia madre direttamente, venne comunicata la sentenza di morte per un cancro, allora considerato, e lo era nella maggioranza dei casi, incurabile.
Mia madre, che in realtà morì 45 anni dopo e non di cancro, ebbe quella sentenza come “verità assoluta” da un giovane e preparato medico sempre sorridente e sempre pronto a dire un niente affatto tranquillizzante “non si preoccupi signora”.
Senza dubbio era molto garbato e gentile, ma con il pretesto di avere “tanto da fare a curare le malattie” in realtà, atterrito, sfuggiva il mio sguardo che lo inseguiva per i corridoi dell'ospedale.
In tale circostanza ebbi la netta percezione che quando un medico parla di verità e si pone il problema se dirla o no, si tratta quasi sempre di cattive notizie, o comunque di qualcosa verificato con una indagine cito-istologica, con gli ultrasuoni o con i Raggi X.
Anche se queste verità sono esatte, il che non sempre si verifica, sono solo una parte di ciò che il paziente o familiare percepisce rispetto al cancro.
Per la prima volta scoprii, casualmente, che la verità per avere lo stesso significato debba essere condivisa CON il malato e non somministrata AD un recettore passivo.
In tale circostanza sperimentai, nella veste di familiare-parafulmine della mamma, il senso di isolamento quasi di abbandono totale dei pazienti e dei suoi familiari, perché dei pesantissimi effetti collaterali delle terapie (anemia grave) me ne sono dovuto occupare da solo, pur non essendo un medico, ma solo uno studente di medicina al terzo anno. Fui costretto infatti a elemosinare quasi a giorni alterni le sacche di sangue in ospedale e, non so quanto legale, mi occupavo io di fare le trasfusioni di sangue a casa a mia madre tra un ciclo e l'altro di terapia.
In quella occasione sperimentai anche, con il mio primo paziente, mia madre, altre forme di comunicazione non verbale trovando naturale il contatto fisico come la forma più elementare di comunicazione.
Ma soprattutto, fantasticando e rimuginando sulla sua imminente perdita e persino sui suoi funerali, cominciai ad avere una maggiore consapevolezza di me, delle mie paure e delle mie sensazioni: oltre ad elaborare la morte di mia madre fu inevitabile accettare che “allora anche io potevo morire“. Solo anni dopo mi sarei reso conto di tale acquisizione.
Anche perché quando mi sono trasferito a Milano nel 1975 sono stato costretto a confrontarmi con la Morte, non solo ho cominciato ad occuparmi come chirurgo di una malattia quasi incurabile, ma, dopo una severa selezione, ero stato nominato Coadiutore didattico addetto alle esercitazioni per gli studenti di Medicina alla Facoltà di Anatomia Umana di Milano. Il mio compito era quello di spiegare ad un gruppo di studenti l'anatomia ...su un cadavere!
Io avevo scelto l'arto superiore a partire dall'ascella, che sarebbe diventata la mia seconda residenza dove avrei trascorso parte della mia vita (30.000 interventi circa), anche perché allora si eseguiva a tutti i pazienti uno svuotamento ascellare anche per tumori di pochi mm.
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 3
La mia professione di chirurgo oncologo dopo un periodo in Chirurgia d’Urgenza ebbe inizio in un Ospedale di Milano dove da assistente, poi aiuto, mi portò giovanissimo ad avere un incarico di Responsabile Primario di Chirurgia.
Malgrado questo impegno di responsabilità il mio destino si incrociò fortunatamente con due personaggi che sono stati il punto di riferimento per la mia formazione.
Iniziai a frequentare l'Istituto dei Tumori di Milano con un mandato di 6 mesi, ma poi ci restai per più di un decennio.
Di Umberto Veronesi uomo e non dello scienziato ne parleremo più avanti.
Del medico somministratore di placebo intendo dire.
Poiché le attese per un ricovero presso l'Istituto dei Tumori di Milano erano vicine ai 60-90 giorni, quasi ogni settimana ricevevo una telefonata della segretaria di Umberto Veronesi, donna empatica e collaboratrice straordinaria:
"Dottore scusi se la disturbo ma la cercherà questa nostra paziente per essere operata da lei. Ha con sé una lettera del professore"
Conservo gelosamente quelle lettere di "raccomandazione", uniche e personalizzate per ogni paziente:
a) c'era sempre una nota riferita alla Fede e alla Speranza
b) c'era sempre una bugia - placebo per la paziente che si presentava da me:
prima stupita di essere stata indirizzata ad un "giovanissimo dottore, sempre abbronzato (per via delle mie gare nei deserti) ed in jeans", ma subito mi raccontavano evidentemente più fiduciose perché "il Professore ci ha spiegato che ci avrebbe indirizzato da uno dei suoi migliori allievi"( IO?). Ovviamente era una pietosa e necessaria bugia-placebo.
Ma sufficiente a superare il primo impatto con l'allievo giovane-abbronzato- in jeans e con i capelli lunghi.
c) Poi mi raccontavano che il Professore le aveva salutate con una frase magistrale che copiai immediatamente
"lei ha le stesse probabilità di venire ai miei funerali che io ai suoi ".
Frasi come quest'ultima, in cui non solo non viene rimosso il concetto di morte della paziente, ma ad esso viene anteposto addirittura quello del medico, ristabiliscono rapidamente una condizione nella quale la "sgradevole verità" assume lo stesso significato per entrambe le parti.
Molti colleghi non si rendono conto quanto distacco di chi se ne lava le mani ci sia in un facile "non si preoccupi signora", mentre il non rimuovere il concetto di morte, che la paziente ha ben presente, crea le basi per una vera alleanza terapeutica.
Nessuna leale alleanza può partire da una bugia in qualsiasi tipo di relazione.
Ada Burrone, Veronesi, Catania, dietro Schitulli. Veronesi con il mio libro in mano [Carcinoma mammario dalla parte della paziente].
All'Istituto dei Tumori incontrai Ada Burrone che aveva fondato l'Associazione Attivecomeprima, e quando nel 1976 varcai la soglia dell'associazione, sapevo già cosa cercare.
Non immaginavo che avrei collaborato con Ada per quasi 40 anni.
Ada per prima cosa mi ha insegnato che il cancro non è solo una guerra contro un nemico da affamare, bombardare e distruggere.
Ma non solo Ada ha dato una svolta alla mia formazione.
Non conoscevo questi “esseri”, che, in un'epoca in cui il cancro era qualcosa di cui ci si doveva vergognare, chiamavano a raccolta altre donne di pari condizioni.
Allego alcuni link riassuntivi su Ada e che abbiamo commentati sul nostro blog:
https://www.medicitalia.it/spazioutenti/forum-rfs-100/come-si-calcola-il-rischio-reale-per-il-tumore-al-seno-44-30831.html
[post 462.455 e 462.458]
Altri riferimenti per chi volesse approfondire:
Tumore del seno:lo spazio umano tra malato e medico
Dottore, si spogli...
In Associazione ho conosciuto tante donne straordinarie, tra cui Rita, bionda, giovane carina, ma anche inflessibile. Sorrideva sempre e seduta in un angolo registrava i miei incontri del quarto venerdì del mese “Dottore si spogli” con le donne che provenivano da diverse regioni d'Italia, e dopo tre-quattro giorni mi faceva pervenire un plico di cartelle dattiloscritte, con le infuocate osservazioni sulle cose dette da me e che l'avevano spaventata.
Dopo qualche anno, quando ormai scoraggiato avevo deciso di occuparmi d'altro, Rita mi aiutò ad uscire dalla crisi riducendo le cartelle dattiloscritte a pochi fogli, restituendomi la consapevolezza di avere imparato molto sulla vera natura della professione medica e sulle regole-base della comunicazione oncologica.
Poi Anna, da me operata e relegata inconsciamente dal mio modo di allora di concepire il cancro tra le donne destinate a morire in breve tempo, presentava una prognosi particolarmente infausta: questa però era solo la “mia” verità assoluta, quella biologica, che veniva desunta da un certo numero di elementi che erano studiati statisticamente, anche se ve ne erano, come vedremo, tanti altri ugualmente importanti, neanche oggi sufficientemente conosciuti.
Vedi approfondimento: Mai perdere la speranza
Questa lunga e noiosa premessa si è resa necessaria per far comprendere come si sia sviluppata la necessità di schedare tutte le pazienti per avere dati a supporto della Speranza in una epoca in cui la malattia era quasi incurabile.
In questo contesto sono partiti diversi studi osservazionali, che esamineremo in dettaglio a partire dal PLACEBO, sotto la pressione delle stesse pazienti, che mi incalzavano con domande cui non ero preparato a rispondere.
Io mi sentivo preparatissimo a rispondere a tutte le domande sulla chirurgia e restanti terapie. Non comprendevo perché invece le donne volevano sapere il...”resto”, e in modo particolare sulla possibilità di difendersi dal cancro … a prescindere dalle terapie!
E la cosa più sorprendente è che negli anni 80 ancora non si parlava di comunicazione perché era molto difficile informare, figuriamoci comunicare.
In Italia ben il 90 % dei medici riteneva di non riferire la verità ai pazienti oncologici, anzi venivano pubblicati (io ce l'ho!) dei testi che riportavano delle strategie per evadere o deviare appositamente il discorso nei casi sporadici di pazienti che richiedevano di voler saperne di più.
Questo atteggiamento, interpretato oggi come disumano, era fondato in realtà sulla credenza che la verità avrebbe potuto danneggiare il paziente (intenti suicidari) e che la conoscenza della situazione avrebbe potuto annullare le sue speranze e le residue motivazioni.
Riassumo gli scopi e obiettivi del blog attraverso i dati di uno studio personale, che non ha la pretesa di avere una dignità scientifica perché è solo uno studio osservazionale, che ha registrato, in 40 anni di osservazione, le “schede” di oltre 15.000 pazienti seguiti per almeno 20 anni, con il fine di standardizzare i principali fattori prognostici (oltre a quelli classici sui quali c'è poco da dire perché immodificabili dal medico e dal paziente).
Cercherò di mostrare tutti i passaggi storici a partire dagli anni ‘80, per dare evidenza al fatto che oggi il paziente non è solo un recettore passivo, come accadeva ai tempi della medicina paternalistica, ma è un protagonista attivo del suo destino.
Fattori prognostici
Possiamo distinguere i fattori prognostici in:
1) FATTORI PROGNOSTICI GENETICI IMMODIFICABILI (es. mutazioni genetiche)
2) FATTORI PROGNOSTICI CLASSICI IMMODIFICABILI (es. istologico)
3) FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI DAL MEDICO tra cui, il più importante, il placebo che deriva dalla capacità del medico di trasferire al paziente la FEDE nelle terapie e soprattutto la Speranza.
È un tema molto complesso, che rimando agli approfondimenti successivi, per farvi comprendere che il compito premeditato e non casuale del sottoscritto è stato ed è nel blog quello di somministrare sempre placebo per incrementare l'efficacia delle terapie, ridurre gli effetti collaterali delle stesse e alimentare SEMPRE la speranza.
Lo scrivo per la prima volta al tredicesimo anno di vita del blog perché l'effetto del placebo è molto più efficace se il paziente non è consapevole che lo sta assumendo.
Poi c'è una ragione più pratica, avrete verificato che 9 volte/10 Salvo Catania ci ha sempre azzeccato sui vostri criceti scatenati che chiedevano lumi a seguito di un sintomo o di un referto strumentale dubbio.
Perché secondo voi?
Perché Salvo Catania ha la sfera magica?
Perché è bravo?
Ma quando mai!
Perché, per esperienza, ho verificato che in 9/10 dei casi siamo di fronte a un
Parlo di acquisizioni scientifiche, che approfondiremo e ne leggerete delle belle, compresi i risultati dello studio inedito che ho condotto per un quinquennio sulle RFS che hanno inviato le immagini in tempo reale mentre praticavano la chemioterapia da single o in coppia, includendo nelle immagini anche la temuta e famigerata “rossa”.
4) FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI DAL PAZIENTE
Parliamoci chiaro e attenzione agli equivoci e al significato delle parole.
Io scrivo per tutti, ma sono consapevole che molte RFS relativamente nuove sono ancora nella fase dei necessari meccanismi di difesa e vorrebbero sentirsi dire:
“sei guarita al 100%” o “la pratica è chiusa definitivamente”
Io preferisco dire la verità, che è poi la stessa se ci troviamo di fronte ad una persona che non ha avuto il cancro.
Sia ben chiaro che Salvo Catania non ha scoperto la cura del cancro, a quello ci pensa la Medicina ufficiale, ma ha studiato, anzi osservato e registrato il motivo per cui pazienti con prognosi molto severe vivano a lungo una vita normale, uscendo dalle previsioni prognostiche e dalle casistiche, mentre altre pazienti presentano eventi avversi pur partendo da fattori prognostici molto favorevoli.
E vi assicuro, vero Francesca? Vero Giovanna? Vero Dada?... che quando dobbiamo verificare che “ci risiamo” è sempre peggio della prima volta, proprio perché l'aspettativa legittima di tutti è quella di avere già dato, per poterne sopportare un'altra nuova, non avendo ancora elaborato del tutto
della prima volta !
Caso clamoroso quello della nostra Christina, Triplo negativo, Sla e pregresso infarto, ma resiliente, proattiva ed empatica che è stata chiamata ad assistere in fase terminale in un Hospice la sorella Er, affetta da un Tontolone con Ki67 dell'8% e che dopo le terapie pensava di avere "chiusa la pratica" definitivamente.
Leggete questo vecchissimo approfondimento sulla VARIANZA
Il mio studio è stato esteso a circa 15.000 pazienti che ho potuto seguire con vari strumenti di contatto per almeno 20 anni, ma essendo uno studio privato è legittimo non fidarsi e sospettare che il narciso Salvo Catania si sia inventato tutto perché i dati non sono controllabili.
Allora il blog è diventato un laboratorio di ricerca dove i dati sono verificabili da tutti attraverso quelli da me raccolti e anche quelli ricavati da ben cinque tesi di psicologia che hanno rivoltato il blog come un calzino, tra cui quella che vi ha coinvolto direttamente di cui vi ricorderete senza dubbio:
Raccontare la malattia: un forum dedicato al tumore al seno
Da questa montagna di dati è nato e cresciuto il blog e le raccomandazioni per incitare alla "responsabilità" come sinonimo di consapevolezza e non certo per fare emergere sensi di colpa che non hanno ragione di esistere.
Quando si parla di “responsabilità” non si fa mai riferimento alle cause che non conosciamo, ma alla consapevolezza sui fattori di rischio che dovrebbero conoscere anche coloro che non hanno mai avuto il cancro.
Il blog è nato per fare da guida e palestra di allenamento con una metafora, in un difficile percorso che, attraverso l'esercizio della resilienza, porta dalla condizione di "coniglietta" a quello di "marmotta".
Ho già fatto cenno a quali siano i fattori prognostici molto favorevoli che abbiamo ad uno ad uno approfondito nel blog. Non sono paragonabili alle terapie per la cura del cancro ma, dai dati registrati, sono fattori che rendono la vita difficile al bastardello.
E la somma dei singoli fa il totale.
Questi, a mio parere, sono i FATTORI PROGNOSTICI MODIFICABILI dal paziente.
a) Elevato quoziente resiliente, quoziente proattivo.
Non serve il coraggio o come si suol dire...... "sii forte, fatti coraggio".
Non serve la forza, ma la flessibilità, elasticità.
E una strategia da copiare: “calati juncu ca passa la chìna”
Perché la mafia è invincibile?
Perché quando arriva la piena come fa lo "Juncu" si abbassa (non spara più, non esercita più la violenza) e sparisce per riemergere solo quando la piena è passata.
b) Elevato quoziente critico che spesso si accompagna ad un elevato quoziente intellettivo.
I livelli dei due quozienti von sempre coincidono e comunque il quoziente intellettivo non ha valore come fattore prognostico, ma quello critico sicuramente sì.
Faccio un esempio clamoroso e facilmente comprensibile:
non c'è dubbio che Sgarbi manifesti un elevato quoziente intellettivo, ma quando spiritato insegue il malcapitato antagonista al grido di "capra capra", mostra un quoziente critico veramente basso.
Ed è singolare che la sua notorietà derivi dall'essere un rinomato critico d'arte.
Tra i fattori prognostici modificabili dal paziente un quoziente critico (Critical Thinking) elevato, associato ad un quoziente empatico elevato, ha sicuramente significato favorevole.
Spesso lo si confonde con il quoziente intellettivo (Q.I.) al quale frequentemente si associa, ma ci sono molte eccezioni riscontrate persino in diversi premi Nobel.
La differenza principale tra le tante è che l'intelligenza si basa sul ragionamento, mentre il pensiero critico coinvolge un aspetto psicologico.
Il pensiero critico è uno stato d’animo, quasi un tratto della personalità, che racchiude il desiderio della verità, il bisogno di prove, la tendenza a immaginare varie possibili spiegazioni e una certa apertura a idee contrarie.
Quello che il ricercatore Kurt Taube chiama "fattore disposizione".
Chi ha un quoziente critico elevato mostra in particolare: curiosità e desiderio di trovare la verità.
Un quoziente critico elevato, spesso associato ad un quoziente empatico elevato, cerca sempre di chiarire in caso di incomprensioni o fraintendimenti in qualsiasi tipo di relazione.
c) Elevato quoziente empatico
Molti pensano di essere empatici solo perché si circondano di amicizie e simpatie. Su questo concetto abbiamo fatto qui decine di approfondimenti, e chiarimenti e anche discussioni agitate, perché non si può essere empatici solo con chi ci piace.
Di fatto un quoziente empatico uguale o> a 3-4 è veramente raro!
Nel blog, comunque, ne abbiamo tanti esempi.
d) Stile di vita salutare (alimentazione + attività fisica)
E qui chiamatela come volete ma il senso di responsabilità non conosce sinonimi.
Tanto più che le trasgressioni sono concesse, anzi talvolta necessarie per rispetto dell'umore.
Ecco perché parliamo sempre di stile di vita e non di alimenti concessi o proibiti.
Da questi dati emerge che, anche se i fattori prognostici di partenza sono favorevolissimi, recidive o secondi tumori o eventi avversi sono più frequenti in modo significativo in quei pazienti che per semplificazione definisco (e incoraggio provocandoli)
Pacco Postale!
E chiedo scusa per la definizione che può sembrare offensiva.
Questa locuzione l'ho usata un paio di volte con persone, con cui ormai avevo una certa confidenza, per provocare e spronare e fare intendere di trovarci su un percorso sbagliato.
"Lo sa che lei rassomiglia ad un pacco postale?"
Caratteristiche del pacco postale:
- È una persona spesso molto intelligente.
- Il più delle volte figlia, moglie e mamma insostituibile.
- Madre esemplare agli occhi di tutti, che però per paura di non vedere crescere i propri figli, annulla totalmente sé stessa e cancella tutti i propri spazi per curare esclusivamente quelli della famiglia a partire dai figli spesso in tenera età. Finisce per non trovare più un minuto da dedicare a sé stessa. Una vera “martire” per amore dei figli. Come se volesse, vittima sacrificale, immolarsi per proteggere i figli e la famiglia.
- Lavoratrice instancabile e insostituibile anche per dimostrare sempre di non essere stata menomata dalla malattia.
Mi intenerisce sempre da una parte questa figura, ma allo stesso tempo non posso fare a meno di non pensare ad un pacco postale che passivamente e acriticamente si fa mettere, con scarso senso critico, il timbro quando scorre sul nastro postale, della chirurgia, della radioterapia, della chemioterapia, immunoterapia e della ormonoterapia.
- Un recettore totalmente passivo e acritico.
- Quoziente di proattività basso.
- Quoziente empatico, concentrata tutta sulle proprie paure di non vedere crescere i propri figli, mediamente basso.
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 2
Già al terzo anno di Medicina, iniziando a frequentare i reparti ospedalieri, ero consapevole che al mio desiderio naturale di aiutare gli altri, la facoltà di Medicina aveva contrapposto l'insegnamento a mantenere la distanza dal paziente, piuttosto che fornirmi indicazioni sul modo migliore per comunicare con una persona malata.
L'empatia, inesistente nella mia formazione scolastica, i sentimenti, le idee, le aspettative e il contesto sociale del malato non venivano presi in considerazione come se non avessero nulla a che fare col quadro clinico di cui ci si stava occupando.
La medicina, tutto sommato, quando mi sono laureato era una cosa abbastanza semplice: la diagnosi si basava principalmente sull’ esperienza, sull'anamnesi e sulla abilità manuale nelle manovre dell'esame obiettivo. I test di laboratorio erano veramente scarsi.
Si presumeva che ogni malattia avesse una causa specifica, secondo il modello delle malattie infettive e quindi il modello scientifico di base era comunque quello meccanicistico, newtoniano o cartesiano, cioè una lunga catena di cause ed effetti ordinatamente collegati.
Per la verità io potevo considerarmi uno studente di medicina “fortunato” (sic!) perché, proprio nella fase di formazione professionale, avevo avuto modo di toccare con mano la paura, il senso di disagio, l'isolamento e la perdita di controllo che sperimentano i pazienti con i loro familiari quando sono consapevoli di essere stati colpiti dal cancro.
A me e non a mia madre direttamente, venne comunicata la sentenza di morte per un cancro, allora considerato, e lo era nella maggioranza dei casi, incurabile.
Mia madre, che in realtà morì 45 anni dopo e non di cancro, ebbe quella sentenza come “verità assoluta” da un giovane e preparato medico sempre sorridente e sempre pronto a dire un niente affatto tranquillizzante “non si preoccupi signora”.
Senza dubbio era molto garbato e gentile, ma con il pretesto di avere “tanto da fare a curare le malattie” in realtà, atterrito, sfuggiva il mio sguardo che lo inseguiva per i corridoi dell'ospedale.
In tale circostanza ebbi la netta percezione che quando un medico parla di verità e si pone il problema se dirla o no, si tratta quasi sempre di cattive notizie, o comunque di qualcosa verificato con una indagine cito-istologica, con gli ultrasuoni o con i Raggi X.
Anche se queste verità sono esatte, il che non sempre si verifica, sono solo una parte di ciò che il paziente o familiare percepisce rispetto al cancro.
Per la prima volta scoprii, casualmente, che la verità per avere lo stesso significato debba essere condivisa CON il malato e non somministrata AD un recettore passivo.
In tale circostanza sperimentai, nella veste di familiare-parafulmine della mamma, il senso di isolamento quasi di abbandono totale dei pazienti e dei suoi familiari, perché dei pesantissimi effetti collaterali delle terapie (anemia grave) me ne sono dovuto occupare da solo, pur non essendo un medico, ma solo uno studente di medicina al terzo anno. Fui costretto infatti a elemosinare quasi a giorni alterni le sacche di sangue in ospedale e, non so quanto legale, mi occupavo io di fare le trasfusioni di sangue a casa a mia madre tra un ciclo e l'altro di terapia.
In quella occasione sperimentai anche, con il mio primo paziente, mia madre, altre forme di comunicazione non verbale trovando naturale il contatto fisico come la forma più elementare di comunicazione.
Ma soprattutto, fantasticando e rimuginando sulla sua imminente perdita e persino sui suoi funerali, cominciai ad avere una maggiore consapevolezza di me, delle mie paure e delle mie sensazioni: oltre ad elaborare la morte di mia madre fu inevitabile accettare che “allora anche io potevo morire“. Solo anni dopo mi sarei reso conto di tale acquisizione.
Anche perché quando mi sono trasferito a Milano nel 1975 sono stato costretto a confrontarmi con la Morte, non solo ho cominciato ad occuparmi come chirurgo di una malattia quasi incurabile, ma, dopo una severa selezione, ero stato nominato Coadiutore didattico addetto alle esercitazioni per gli studenti di Medicina alla Facoltà di Anatomia Umana di Milano. Il mio compito era quello di spiegare ad un gruppo di studenti l'anatomia ...su un cadavere!
Io avevo scelto l'arto superiore a partire dall'ascella, che sarebbe diventata la mia seconda residenza dove avrei trascorso parte della mia vita (30.000 interventi circa), anche perché allora si eseguiva a tutti i pazienti uno svuotamento ascellare anche per tumori di pochi mm.
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 3
La mia professione di chirurgo oncologo dopo un periodo in Chirurgia d’Urgenza ebbe inizio in un Ospedale di Milano dove da assistente, poi aiuto, mi portò giovanissimo ad avere un incarico di Responsabile Primario di Chirurgia.
Malgrado questo impegno di responsabilità il mio destino si incrociò fortunatamente con due personaggi che sono stati il punto di riferimento per la mia formazione.
Iniziai a frequentare l'Istituto dei Tumori di Milano con un mandato di 6 mesi, ma poi ci restai per più di un decennio.
Di Umberto Veronesi uomo e non dello scienziato ne parleremo più avanti.
Del medico somministratore di placebo intendo dire.
Poiché le attese per un ricovero presso l'Istituto dei Tumori di Milano erano vicine ai 60-90 giorni, quasi ogni settimana ricevevo una telefonata della segretaria di Umberto Veronesi, donna empatica e collaboratrice straordinaria:
"Dottore scusi se la disturbo ma la cercherà questa nostra paziente per essere operata da lei. Ha con sé una lettera del professore"
Conservo gelosamente quelle lettere di "raccomandazione", uniche e personalizzate per ogni paziente:
a) c'era sempre una nota riferita alla Fede e alla Speranza
b) c'era sempre una bugia - placebo per la paziente che si presentava da me:
prima stupita di essere stata indirizzata ad un "giovanissimo dottore, sempre abbronzato (per via delle mie gare nei deserti) ed in jeans", ma subito mi raccontavano evidentemente più fiduciose perché "il Professore ci ha spiegato che ci avrebbe indirizzato da uno dei suoi migliori allievi"( IO?). Ovviamente era una pietosa e necessaria bugia-placebo.
Ma sufficiente a superare il primo impatto con l'allievo giovane-abbronzato- in jeans e con i capelli lunghi.
c) Poi mi raccontavano che il Professore le aveva salutate con una frase magistrale che copiai immediatamente
"lei ha le stesse probabilità di venire ai miei funerali che io ai suoi ".
Frasi come quest'ultima, in cui non solo non viene rimosso il concetto di morte della paziente, ma ad esso viene anteposto addirittura quello del medico, ristabiliscono rapidamente una condizione nella quale la "sgradevole verità" assume lo stesso significato per entrambe le parti.
Molti colleghi non si rendono conto quanto distacco di chi se ne lava le mani ci sia in un facile "non si preoccupi signora", mentre il non rimuovere il concetto di morte, che la paziente ha ben presente, crea le basi per una vera alleanza terapeutica.
Nessuna leale alleanza può partire da una bugia in qualsiasi tipo di relazione.
Ada Burrone, Veronesi, Catania, dietro Schitulli. Veronesi con il mio libro in mano [Carcinoma mammario dalla parte della paziente].
All'Istituto dei Tumori incontrai Ada Burrone che aveva fondato l'Associazione Attivecomeprima, e quando nel 1976 varcai la soglia dell'associazione, sapevo già cosa cercare.
Non immaginavo che avrei collaborato con Ada per quasi 40 anni.
Ada per prima cosa mi ha insegnato che il cancro non è solo una guerra contro un nemico da affamare, bombardare e distruggere.
Ma non solo Ada ha dato una svolta alla mia formazione.
Non conoscevo questi “esseri”, che, in un'epoca in cui il cancro era qualcosa di cui ci si doveva vergognare, chiamavano a raccolta altre donne di pari condizioni.
Allego alcuni link riassuntivi su Ada e che abbiamo commentati sul nostro blog:
https://www.medicitalia.it/spazioutenti/forum-rfs-100/come-si-calcola-il-rischio-reale-per-il-tumore-al-seno-44-30831.html
[post 462.455 e 462.458]
Altri riferimenti per chi volesse approfondire:
Tumore del seno:lo spazio umano tra malato e medico
Dottore, si spogli...
In Associazione ho conosciuto tante donne straordinarie, tra cui Rita, bionda, giovane carina, ma anche inflessibile. Sorrideva sempre e seduta in un angolo registrava i miei incontri del quarto venerdì del mese “Dottore si spogli” con le donne che provenivano da diverse regioni d'Italia, e dopo tre-quattro giorni mi faceva pervenire un plico di cartelle dattiloscritte, con le infuocate osservazioni sulle cose dette da me e che l'avevano spaventata.
Dopo qualche anno, quando ormai scoraggiato avevo deciso di occuparmi d'altro, Rita mi aiutò ad uscire dalla crisi riducendo le cartelle dattiloscritte a pochi fogli, restituendomi la consapevolezza di avere imparato molto sulla vera natura della professione medica e sulle regole-base della comunicazione oncologica.
Poi Anna, da me operata e relegata inconsciamente dal mio modo di allora di concepire il cancro tra le donne destinate a morire in breve tempo, presentava una prognosi particolarmente infausta: questa però era solo la “mia” verità assoluta, quella biologica, che veniva desunta da un certo numero di elementi che erano studiati statisticamente, anche se ve ne erano, come vedremo, tanti altri ugualmente importanti, neanche oggi sufficientemente conosciuti.
Vedi approfondimento: Mai perdere la speranza
Questa lunga e noiosa premessa si è resa necessaria per far comprendere come si sia sviluppata la necessità di schedare tutte le pazienti per avere dati a supporto della Speranza in una epoca in cui la malattia era quasi incurabile.
In questo contesto sono partiti diversi studi osservazionali, che esamineremo in dettaglio a partire dal PLACEBO, sotto la pressione delle stesse pazienti, che mi incalzavano con domande cui non ero preparato a rispondere.
Io mi sentivo preparatissimo a rispondere a tutte le domande sulla chirurgia e restanti terapie. Non comprendevo perché invece le donne volevano sapere il...”resto”, e in modo particolare sulla possibilità di difendersi dal cancro … a prescindere dalle terapie!
E la cosa più sorprendente è che negli anni 80 ancora non si parlava di comunicazione perché era molto difficile informare, figuriamoci comunicare.
In Italia ben il 90 % dei medici riteneva di non riferire la verità ai pazienti oncologici, anzi venivano pubblicati (io ce l'ho!) dei testi che riportavano delle strategie per evadere o deviare appositamente il discorso nei casi sporadici di pazienti che richiedevano di voler saperne di più.
Questo atteggiamento, interpretato oggi come disumano, era fondato in realtà sulla credenza che la verità avrebbe potuto danneggiare il paziente (intenti suicidari) e che la conoscenza della situazione avrebbe potuto annullare le sue speranze e le residue motivazioni.
salvocataniaMedico Chirurgo
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 4
Solo successivamente mi sono reso conto quanto fuori dal coro fosse il volume che avevo pubblicato nel 1989, con la prefazione di Umberto Veronesi, frutto di un immane lavoro di raccolta di esperienze, scritte su lettera, di donne che, ufficialmente nella maggioranza dei casi, non avrebbero dovuto conoscere la verità, mentre non era così, anche se alcune facevano finta di non conoscerla.
Tutto ciò accadeva mentre il tumore del seno subiva un radicale rinnovamento diagnostico e terapeutico.
Infatti, proprio nel 1973, anno di fondazione di AttiveComePrima, l'istituto dei Tumori di Milano presentava il Trial Milano I, che si concluderà nel 1980, e che confrontava un campione di pazienti trattate con mastectomia con un campione di pazienti trattate con quadrantectomia radioterapia.
Questo studio, che può essere considerato la pietra miliare della moderna chirurgia della mammella, fu fortemente voluto da U. Veronesi contro tutto e contro tutti.
Anche in campo diagnostico, grazie ad U. Veronesi, il sottoscritto diede un significativo contributo ideando un agoaspiratore automatico, che permise di poter effettuare non solo un esame citologico, ma addirittura una vera microbiopsia per esame istologico.
Questo volume con la prefazione di U. Veronesi e la collaborazione di uno dei più grandi radiologi dell'epoca, Stefano Ciatto, che morì anni dopo in un incidente d'auto, venne tradotto in diverse lingue.
In quel periodo storico c'era un grande fermento scientifico sullo studio di quanto gli eventi stressanti potessero impattare sull’ insorgenza del cancro e sulla sopravvivenza.
Diversi studi avevano analizzato se uno o più eventi, come ad esempio la morte di un figlio o del marito, una separazione o un divorzio, ma anche un nuovo matrimonio o una nuova convivenza, il brusco cambiamento delle condizioni di vita ed altri ancora potessero aumentare il rischio.
Tra gli studi con risultati negativi troviamo un grande studio prospettico norvegese (Kvikstad 1994, Kvikstad, Vatten 1996) che ha indagato la perdita del figlio o del partner e lo studio di Roberts (1996) che ha valutato, in 258 casi, l'associazione tra gli eventi stressanti nei 5 anni precedenti e il rischio di tumore della mammella.
Tra gli studi con esito positivo, uno studio finlandese (Forsen 1991) aveva confermato l’associazione delle perdite affettive nei 6 anni precedenti con un rischio 5 volte superiore.
L'ipotesi più accreditata fu che non sia tanto l'evento in sé a determinare un maggior rischio, quanto l'incapacità o l'impossibilità a fronteggiare l'evento (Coping).
Venne suggerita anche l'ipotesi della sensibilizzazione individuale (Anisman, Sklar 1982) cioè del rischio dipendente dall'essere stati sottoposti in età precoce a ripetute condizioni stressanti, che porterebbe in età adulta a sovrastimare l'evento e a sottostimare la capacità di adattamento.
Cruciale per il sottoscritto l'incontro e i vari studi allestiti e pubblicati in riviste impattanti con l'amico Marcello Tamburini, consulente scientifico di AttiveComePrima, uno dei tre fondatori della Società di Psiconcologia italiana e che all'Istituto dei Tumori, sotto la sua direzione, aveva intrapreso un intenso lavoro scientifico volto alla definizione di metodologie e strumenti per la valutazione della Qualità di Vita che ha consentito un accrescimento delle conoscenze relative all'esperienza psicologica della malattia oncologica e dei relativi trattamenti.
A quell'epoca ho iniziato a raccogliere le schede di tutte le pazienti che incrociavano il loro destino di paziente con il mio di chirurgo oncologo.
In realtà le prime schede e relativo follow up non avevano lo scopo di studiare i tassi di sopravvivenza delle pazienti, che erano sconfortanti, ma per studiare modelli di coping positivi.
Con Marcello Tamburini, che morirà nel 2007 per un tumore al polmone, ci siamo posti, ad esempio, un problema di Coping positivo per aiutare a fronteggiare lo shock delle donne, che sottoposte a terapie aggressive e mutilanti, non trovavano il coraggio di “guardarsi per la prima volta”. E la chirurgia ricostruttiva era praticamente inesistente.
Non è facile spiegare oggi il dramma di queste donne che subivano interventi molto invasivi perché l’operazione comportava l’asportazione dell’organo ghiandolare e lo svuotamento del cavo ascellare, con un prezzo deturpante altissimo conseguente alla asportazione di entrambi i muscoli pettorali, mettendo così a nudo la parete toracica.
Per approfondire: La comunicazione in Oncologia: dall'omertà all'infobesità
Quello studio però, insieme ad altri portati avanti con la preziosa consulenza di Marcello Tamburini, aprì una nuova strada di ricerca e di conoscenze, perché anche se ideato solo per definire un modello di coping positivo, man mano che passavano gli anni, il follow-up mostrava che i due campioni statisticamente presentavano dati sempre più divergenti.
Questo perché il campione che aveva usufruito durante l'anestesia locale del supporto del chirurgo (placebo?), non solo confermava una maggiore capacità di fronteggiare l'evento, ma inaspettatamente a 15 anni di osservazione presentava tassi di sopravvivenza significativamente più favorevoli rispetto al campione che non aveva avuto alcun supporto nel corso dell'intervento, a prescindere dai fattori prognostici classici.
Ricordo di avere trasmesso questi dati a Marcello, introverso e riservato, e di avergli strappato un largo sorriso.
Poi negli anni successivi Marcello ci ha lasciati per un tumore al polmone e coerentemente al suo generoso percorso (Responsabile delle cure Palliative dell'Istituto dei Tumori) scelse di morire non a casa sua, ma in un Hospice accanto ai “suoi” pazienti, che aveva seguito sino a poco tempo prima.
Io continuai su quella strada tracciata con lui arrivando persino ad accompagnare tutti i pazienti in sala operatoria con il supporto di psicologi che mi contattavano per studiare temi da svolgere per tesi specialistiche di psicologia. Con il compito di dare Fede e Speranza anche in sala operatoria.
Per approfondire: Supporto Psicologico in Sala Operatoria
IL SISTEMA IMMUNITARIO
Continuo ad astenermi dal formulare ipotesi, ma era troppo facile rivolgere il pensiero al sistema immunitario “distratto” in alcuni casi e attivato in altri anche solo dall'intervento di suggestioni effimere, generate dall'intervento del medico o dallo stesso paziente.
Negli anni 80-90 trovava molto credito l'ipotesi che una credenza, una fede, un forte convincimento, un fatto mentale, potesse indurre trasformazioni tali nella mente e nel corpo da attivare potenti ed efficaci difese contro una malattia considerata inguaribile.
Può il nostro organismo reagire all'aggressione di un tumore e sconfiggerlo?
Certo che sì.
Il nostro corpo ha le armi efficacissime per contrastare il cancro, solo che in determinate condizioni non riesce ad usarle. Il vero cambio di paradigma, la vera rivoluzione è riuscire a risvegliare il nostro sistema immunitario.
E, per fortuna, è ciò che le ricerche stanno cercando di ottenere.
Il problema è riconoscere le cellule tumorali, che spesso riescono a nascondersi, e non farsi individuare dal sistema immunitario con diversi stratagemmi. Tutte le cellule hanno sulla parte esterna, la membrana, dei segnali particolari, ossia delle molecole chiamate ANTIGENI.
Sono gli antigeni ad avvertire il sistema immunitario quando deve intervenire. Ma le cellule di un tumore che derivano da cellule sane del nostro organismo, non hanno sempre antigeni che le rendono riconoscibili come pericolose.
Per fortuna poco per volta la biologia molecolare è riuscita a capire quali di questi segnali (antigeni) siano caratteristici di alcuni tipi di cancro. Il passo successivo quello di creare in laboratorio anticorpi, chiamati anticorpi monoclonali, pronti a colpire le cellule che presentano l'antigene.
Gli anticorpi sono molecole normalmente prodotte dai nostri globuli bianchi, in particolare dai linfociti B, proprio per rispondere a una specifica aggressione, come quella di un batterio.
Quelli usati contro il tumore sono realizzati artificialmente, grazie a linfociti a cui è stato fatto riconoscere l'antigene del tumore.
In questo modo si possono creare infinite popolazioni di queste molecole, iniettandole a una persona ammalata del tumore che sono in grado di riconoscere, vanno a colpirlo.
Dopo una lunga fase di sperimentazioni cliniche ora il sistema funziona così bene che oggi un farmaco su due contro i tumori è un anticorpo monoclonale.
Con il tempo si è arrivati ad utilizzare anticorpi ancora più efficaci perché non solo sono in grado di distruggere il tumore riconoscendo gli antigeni, ma sono in grado di trasportare farmaci che mandano segnali di Alert ai Linfociti T, che sono globuli bianchi molto più aggressivi, per dire loro di aggredire e distruggere le cellule tumorali.
Il problema, ancora aperto, è che non si riesce, ma siamo sulla buona strada, a creare anticorpi monoclonali per tutti i tumori.
Mentre quelli del sangue sono più facili da raggiungere, i tumori “solidi” a volte sono “protetti” da una sorta di barriera che li rende impenetrabili ai farmaci e anticorpi monoclonali.
La vera rivoluzione è quindi quella di “risvegliare” il sistema immunitario.
Purtroppo, il problema è molto più complesso anche perché, come rilevato dall'italiano Mantovani già 30 anni fa, il tumore ha molti modi per ingannare il sistema immunitario. Non solo riesce a rendersi invisibile, ma spesso impedisce che le nostre difese si attivino come dovrebbero.
Infatti, il sistema immunitario è governato da un insieme di freni, che chiamiamo “checkpoint” e di acceleratori che insieme regolano il suo funzionamento.
Il tumore purtroppo è in grado di fare largo uso di questi freni per bloccarlo anche quando il sistema immunitario dovrebbe reagire.
E riesce persino a farsi aiutare da alcuni globuli bianchi, che si comportano come veri “poliziotti corrotti” che passano dalla parte del nemico.
E che lo aiutano a crescere e a nascondersi.
Insomma, le nostre difese sarebbero in grado di distruggere le cellule tumorali, ma non lo fanno perché il tumore sparge segnali ingannevoli attraverso molecole che si diffondono nell'organismo e i globuli bianchi vengono ingannati e finiscono per obbedire al tumore. Quelle molecole le produce il tumore.
Esempio eclatante quello del melanoma.
Prima che venisse sperimentato l'uso di una molecola in grado di bloccare il recettore ctla-4 dei linfociti T, niente sembrava efficace per aumentare la sopravvivenza dei pazienti con melanoma metastatico. È stato sufficiente riuscire a sbloccare il freno ctla-4 e le prospettive per i pazienti con melanoma metastatico sono cambiate drasticamente.
Solo successivamente mi sono reso conto quanto fuori dal coro fosse il volume che avevo pubblicato nel 1989, con la prefazione di Umberto Veronesi, frutto di un immane lavoro di raccolta di esperienze, scritte su lettera, di donne che, ufficialmente nella maggioranza dei casi, non avrebbero dovuto conoscere la verità, mentre non era così, anche se alcune facevano finta di non conoscerla.
Tutto ciò accadeva mentre il tumore del seno subiva un radicale rinnovamento diagnostico e terapeutico.
Infatti, proprio nel 1973, anno di fondazione di AttiveComePrima, l'istituto dei Tumori di Milano presentava il Trial Milano I, che si concluderà nel 1980, e che confrontava un campione di pazienti trattate con mastectomia con un campione di pazienti trattate con quadrantectomia radioterapia.
Questo studio, che può essere considerato la pietra miliare della moderna chirurgia della mammella, fu fortemente voluto da U. Veronesi contro tutto e contro tutti.
Anche in campo diagnostico, grazie ad U. Veronesi, il sottoscritto diede un significativo contributo ideando un agoaspiratore automatico, che permise di poter effettuare non solo un esame citologico, ma addirittura una vera microbiopsia per esame istologico.
Questo volume con la prefazione di U. Veronesi e la collaborazione di uno dei più grandi radiologi dell'epoca, Stefano Ciatto, che morì anni dopo in un incidente d'auto, venne tradotto in diverse lingue.
In quel periodo storico c'era un grande fermento scientifico sullo studio di quanto gli eventi stressanti potessero impattare sull’ insorgenza del cancro e sulla sopravvivenza.
Diversi studi avevano analizzato se uno o più eventi, come ad esempio la morte di un figlio o del marito, una separazione o un divorzio, ma anche un nuovo matrimonio o una nuova convivenza, il brusco cambiamento delle condizioni di vita ed altri ancora potessero aumentare il rischio.
Tra gli studi con risultati negativi troviamo un grande studio prospettico norvegese (Kvikstad 1994, Kvikstad, Vatten 1996) che ha indagato la perdita del figlio o del partner e lo studio di Roberts (1996) che ha valutato, in 258 casi, l'associazione tra gli eventi stressanti nei 5 anni precedenti e il rischio di tumore della mammella.
Tra gli studi con esito positivo, uno studio finlandese (Forsen 1991) aveva confermato l’associazione delle perdite affettive nei 6 anni precedenti con un rischio 5 volte superiore.
L'ipotesi più accreditata fu che non sia tanto l'evento in sé a determinare un maggior rischio, quanto l'incapacità o l'impossibilità a fronteggiare l'evento (Coping).
Venne suggerita anche l'ipotesi della sensibilizzazione individuale (Anisman, Sklar 1982) cioè del rischio dipendente dall'essere stati sottoposti in età precoce a ripetute condizioni stressanti, che porterebbe in età adulta a sovrastimare l'evento e a sottostimare la capacità di adattamento.
Cruciale per il sottoscritto l'incontro e i vari studi allestiti e pubblicati in riviste impattanti con l'amico Marcello Tamburini, consulente scientifico di AttiveComePrima, uno dei tre fondatori della Società di Psiconcologia italiana e che all'Istituto dei Tumori, sotto la sua direzione, aveva intrapreso un intenso lavoro scientifico volto alla definizione di metodologie e strumenti per la valutazione della Qualità di Vita che ha consentito un accrescimento delle conoscenze relative all'esperienza psicologica della malattia oncologica e dei relativi trattamenti.
A quell'epoca ho iniziato a raccogliere le schede di tutte le pazienti che incrociavano il loro destino di paziente con il mio di chirurgo oncologo.
In realtà le prime schede e relativo follow up non avevano lo scopo di studiare i tassi di sopravvivenza delle pazienti, che erano sconfortanti, ma per studiare modelli di coping positivi.
Con Marcello Tamburini, che morirà nel 2007 per un tumore al polmone, ci siamo posti, ad esempio, un problema di Coping positivo per aiutare a fronteggiare lo shock delle donne, che sottoposte a terapie aggressive e mutilanti, non trovavano il coraggio di “guardarsi per la prima volta”. E la chirurgia ricostruttiva era praticamente inesistente.
Non è facile spiegare oggi il dramma di queste donne che subivano interventi molto invasivi perché l’operazione comportava l’asportazione dell’organo ghiandolare e lo svuotamento del cavo ascellare, con un prezzo deturpante altissimo conseguente alla asportazione di entrambi i muscoli pettorali, mettendo così a nudo la parete toracica.
Per approfondire: La comunicazione in Oncologia: dall'omertà all'infobesità
Quello studio però, insieme ad altri portati avanti con la preziosa consulenza di Marcello Tamburini, aprì una nuova strada di ricerca e di conoscenze, perché anche se ideato solo per definire un modello di coping positivo, man mano che passavano gli anni, il follow-up mostrava che i due campioni statisticamente presentavano dati sempre più divergenti.
Questo perché il campione che aveva usufruito durante l'anestesia locale del supporto del chirurgo (placebo?), non solo confermava una maggiore capacità di fronteggiare l'evento, ma inaspettatamente a 15 anni di osservazione presentava tassi di sopravvivenza significativamente più favorevoli rispetto al campione che non aveva avuto alcun supporto nel corso dell'intervento, a prescindere dai fattori prognostici classici.
Ricordo di avere trasmesso questi dati a Marcello, introverso e riservato, e di avergli strappato un largo sorriso.
Poi negli anni successivi Marcello ci ha lasciati per un tumore al polmone e coerentemente al suo generoso percorso (Responsabile delle cure Palliative dell'Istituto dei Tumori) scelse di morire non a casa sua, ma in un Hospice accanto ai “suoi” pazienti, che aveva seguito sino a poco tempo prima.
Io continuai su quella strada tracciata con lui arrivando persino ad accompagnare tutti i pazienti in sala operatoria con il supporto di psicologi che mi contattavano per studiare temi da svolgere per tesi specialistiche di psicologia. Con il compito di dare Fede e Speranza anche in sala operatoria.
Per approfondire: Supporto Psicologico in Sala Operatoria
IL SISTEMA IMMUNITARIO
Continuo ad astenermi dal formulare ipotesi, ma era troppo facile rivolgere il pensiero al sistema immunitario “distratto” in alcuni casi e attivato in altri anche solo dall'intervento di suggestioni effimere, generate dall'intervento del medico o dallo stesso paziente.
Negli anni 80-90 trovava molto credito l'ipotesi che una credenza, una fede, un forte convincimento, un fatto mentale, potesse indurre trasformazioni tali nella mente e nel corpo da attivare potenti ed efficaci difese contro una malattia considerata inguaribile.
Può il nostro organismo reagire all'aggressione di un tumore e sconfiggerlo?
Certo che sì.
Il nostro corpo ha le armi efficacissime per contrastare il cancro, solo che in determinate condizioni non riesce ad usarle. Il vero cambio di paradigma, la vera rivoluzione è riuscire a risvegliare il nostro sistema immunitario.
E, per fortuna, è ciò che le ricerche stanno cercando di ottenere.
Il problema è riconoscere le cellule tumorali, che spesso riescono a nascondersi, e non farsi individuare dal sistema immunitario con diversi stratagemmi. Tutte le cellule hanno sulla parte esterna, la membrana, dei segnali particolari, ossia delle molecole chiamate ANTIGENI.
Sono gli antigeni ad avvertire il sistema immunitario quando deve intervenire. Ma le cellule di un tumore che derivano da cellule sane del nostro organismo, non hanno sempre antigeni che le rendono riconoscibili come pericolose.
Per fortuna poco per volta la biologia molecolare è riuscita a capire quali di questi segnali (antigeni) siano caratteristici di alcuni tipi di cancro. Il passo successivo quello di creare in laboratorio anticorpi, chiamati anticorpi monoclonali, pronti a colpire le cellule che presentano l'antigene.
Gli anticorpi sono molecole normalmente prodotte dai nostri globuli bianchi, in particolare dai linfociti B, proprio per rispondere a una specifica aggressione, come quella di un batterio.
Quelli usati contro il tumore sono realizzati artificialmente, grazie a linfociti a cui è stato fatto riconoscere l'antigene del tumore.
In questo modo si possono creare infinite popolazioni di queste molecole, iniettandole a una persona ammalata del tumore che sono in grado di riconoscere, vanno a colpirlo.
Dopo una lunga fase di sperimentazioni cliniche ora il sistema funziona così bene che oggi un farmaco su due contro i tumori è un anticorpo monoclonale.
Con il tempo si è arrivati ad utilizzare anticorpi ancora più efficaci perché non solo sono in grado di distruggere il tumore riconoscendo gli antigeni, ma sono in grado di trasportare farmaci che mandano segnali di Alert ai Linfociti T, che sono globuli bianchi molto più aggressivi, per dire loro di aggredire e distruggere le cellule tumorali.
Il problema, ancora aperto, è che non si riesce, ma siamo sulla buona strada, a creare anticorpi monoclonali per tutti i tumori.
Mentre quelli del sangue sono più facili da raggiungere, i tumori “solidi” a volte sono “protetti” da una sorta di barriera che li rende impenetrabili ai farmaci e anticorpi monoclonali.
La vera rivoluzione è quindi quella di “risvegliare” il sistema immunitario.
Purtroppo, il problema è molto più complesso anche perché, come rilevato dall'italiano Mantovani già 30 anni fa, il tumore ha molti modi per ingannare il sistema immunitario. Non solo riesce a rendersi invisibile, ma spesso impedisce che le nostre difese si attivino come dovrebbero.
Infatti, il sistema immunitario è governato da un insieme di freni, che chiamiamo “checkpoint” e di acceleratori che insieme regolano il suo funzionamento.
Il tumore purtroppo è in grado di fare largo uso di questi freni per bloccarlo anche quando il sistema immunitario dovrebbe reagire.
E riesce persino a farsi aiutare da alcuni globuli bianchi, che si comportano come veri “poliziotti corrotti” che passano dalla parte del nemico.
E che lo aiutano a crescere e a nascondersi.
Insomma, le nostre difese sarebbero in grado di distruggere le cellule tumorali, ma non lo fanno perché il tumore sparge segnali ingannevoli attraverso molecole che si diffondono nell'organismo e i globuli bianchi vengono ingannati e finiscono per obbedire al tumore. Quelle molecole le produce il tumore.
Esempio eclatante quello del melanoma.
Prima che venisse sperimentato l'uso di una molecola in grado di bloccare il recettore ctla-4 dei linfociti T, niente sembrava efficace per aumentare la sopravvivenza dei pazienti con melanoma metastatico. È stato sufficiente riuscire a sbloccare il freno ctla-4 e le prospettive per i pazienti con melanoma metastatico sono cambiate drasticamente.
salvocataniaMedico Chirurgo
La nostra storia la scriviamo noi – Capitolo 5
Corretta osservazione perché la mia esperienza di sport estremo è stata strettamente correlata con quella professionale in quel difficile ventennio 1980-2000.
Lo sport estremo mi ha salvato dal burnout.
Il deserto mi ha trasmesso più conoscenze di quelle impartitemi dalla stessa Università, sia considerando il percorso della laurea in Medicina oltre alle due specializzazioni in Chirurgia e Oncologia Medica.
Da una parte eravamo tutti entusiasti e motivati ad accompagnare i progressi della medicina soprattutto in campo chirurgico perché proprio nel 1981 si concludeva il Trial Milano I che confrontava la mastectomia con la quadrantectomia+radioterapia.
Dall'altra parte, l'elevata mortalità e gli effetti devastanti delle cure mettevano il medico di fronte ad una lotta continua fra frustrazione ed entusiasmo, impegno imperativo di un aggiornamento costante e quello di una disponibilità ad oltranza, con il rischio molto concreto di un exitus energetico, non solo lavorativo, ma addirittura della persona con manifestazioni psicologiche e comportamentali: esaurimento emotivo e depersonalizzazione che caratterizzano la sindrome del burnout.
Le curve di sopravvivenza erano agghiaccianti nei casi con fattori prognostici sfavorevoli. Le statistiche erano scoraggianti.
Ricordo, tra le tante mie pazienti, Anna che ad ogni anniversario del suo intervento aveva l'abitudine di inviarmi una lettera con la sua curva di sopravvivenza.
Anna cercava la Speranza mentre la curva della sua sopravvivenza a 5 anni era solo del 5% e a 10 anni relegata a rarissimo Case Report.
A quell'epoca le pazienti cercavano la Speranza imbattendosi in medici di tradizionale formazione organicistica che si affidavano solo alle impietose statistiche e inevitabilmente molte di esse disperate (= speranza cancellata) si rivolgevano alle “dolci” Medicine alternative.
Incontravo frequentemente pazienti che rifiutavano le terapie tradizionali perché si era sparsa, tra i loro canali, la voce che Salvo Catania fosse un medico “buono”, che non le avrebbe mai colpevolizzate per le loro scelte anche se dissennate.
Invece, già al primo incontro, le smentivo immediatamente perché io non mi consideravo affatto un medico buono, ma un buon medico, che, oltre ad essere competente non esclude dal percorso clinico il paziente con i suoi sentimenti e le sue emozioni, la sua famiglia, i suoi interessi, il suo lavoro e le sue passioni.
E il buon medico si occupa della salute del suo paziente nella sua integrità e non dei suoi...pezzi.
Perché tutto questo influisce sul decorso della malattia!
Non colpevolizzavo queste pazienti perché, in fondo, avevano tutte le ragioni per diffidare della medicina ufficiale che prometteva curve di sopravvivenza in parte fallimentari e le poche guarigioni si registravano al prezzo di terapie aggressive e invalidanti. Del resto, non se ne conoscevano altre.
Sono riuscito:
a) a convincere tante pazienti a tornare indietro dalle loro iniziali decisioni
b) ad operare molte pazienti “pentite” anche se in fasi avanzate della malattia e che avevano praticato, nella fase iniziale della malattia, solo terapie alternative.
Non sono stato in grado di proporre argomentazioni sufficienti ad altre pazienti e queste le ho perse di vista.
Tutti questi dati, di quasi 30 anni di esperienza, li ho presentati come relatore al
1° Congresso nazionale Medicina e Pseudoscienza che si è tenuto a Roma il 7 e 8 aprile 2017.
"Questo primo congresso nazionale su medicina e pseudoscienza rappresenta una grande occasione di formazione e di incontro tra scienziati", così era stato annunciato e ha mantenuto tutte le premesse e le promesse che ho riassunto in questo articolo:
La Scienza, il Giornalismo e la Politica annunciano la perdita della verità
dove potete rendervi conto di quale fosse la portata del fenomeno che non è del tutto scomparso. Anzi …!
Nello stesso congresso non solo ho presentato per la prima volta una documentazione fotografica sugli orrori alternativi:
Ma, tra lo stupore generale, ho presentato i dati di un sondaggio condotto nel nostro blog nel 2015 dove le nostre utenti in numero significativo, pur avendo usufruito delle terapie classiche, non solo praticavano terapie alternative, ma si guardavano bene in molti casi dal comunicarlo all'oncologo curante.
“Perché secondo lei avrei dovuto comunicarglielo?”
Ho anche scritto, spesso dietro richiesta, diversi articoli divulgativi per spiegare il mio NO a terapie alternative, quelle più diffuse: Invenzioni folli e false medicine anticancro
Per la mia formazione tuttavia, studiando il versante alternativo, ho tratto anche degli insegnamenti importanti nel ventennio 1980-2000, alcuni dei quali li condivido ancora e che potrebbero farmi apparire come un medico alternativo, mentre è vero il contrario.
Ci vorrebbero diversi volumi per non saltare alcun passaggio che oggi mi fanno dire, sulla base dell’ultratrentennale osservazione, che il destino di ogni paziente lo decidono tanti fattori, alcuni immodificabili e altri modificabili dal medico, dalle terapie e dallo stesso paziente.
La Medicina tradizionale, di formazione organicistica, allontana molte pazienti perché spegne ogni speranza quando dà eccessivo valore alle statistiche, che ovviamente sono importantissime, ma a condizione che si tenga conto anche della varianza e del fenomeno degli Outliers, cioè degli individui che escono dalle statistiche e che sono più frequenti di quanto non si possa pensare.
Basta cercarli!
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10193022
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1025476
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10992730
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11824888
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12203070
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12745644
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15246199
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16292100
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2546879
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/7544955
Tra tutte le medicine alternative un discorso a sé merita il Metodo Simonton che mi aveva coinvolto in un confronto diretto con Ada Burrone e Marcello Tamburini.
Nel giugno del 2009 Oscar Carl Simonton moriva e veniva commemorato come l’oncologo pioniere degli studi sulla relazione mente corpo. Oggi, con una terminologia più scientifica, si potrebbe affermare che O. C. Simonton è stato un rappresentante di quella disciplina indicata con la sigla P.N.E.I. che sta ad indicare la Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia, quel settore della medicina che studia la particolare relazione tra i sistemi organici.
O. C. Simonton era un radioterapista e nel 1970 aveva fondato il Cancer Couseling and Research Centre di Fort Worth in Texas.
Nel 1978 veniva pubblicato un suo libro negli USA con il titolo Getting Well Again.
Il libro è scritto con la seconda moglie, Stephanie Matthews, che di mestiere fa la psicoterapeuta e con James Creighton che è un oncologo.
Attualmente in Italia questo libro lo si trova pubblicato con il titolo “Ritorno alla salute”. In copertina risulta che la prima edizione risale al 1996 ma in realtà questo testo inizia a girare nel nostro paese molto tempo prima.
Nel 1981, infatti, viene diffuso con il titolo “Star bene nuovamente”, il testo è curato da un sociologo, Simon Goldstein, e da una psicologa, Anna Condorelli. Propone e descrive, per la prima volta nella storia dell’oncologia, un programma a tappe di un particolare intervento psicologico/psicoterapeutico di sostegno alle terapie tradizionali (chirurgia, chemio e radioterapia).
In Italia l’accoglienza di questo testo è stata contrastante, da una parte quelli entusiasti e interessati, dall’altra quelli indifferenti se non apertamente scettici. Due schieramenti contrapposti che vedevano soprattutto malati e qualche psicologo clinico da una parte e il mondo medico ufficiale accademico dall’altra. Tra questi ultimi c’era anche Marcello Tamburini che, anche se di formazione filosofica, lavorava all’Istituto dei Tumori di Milano in qualità di psicologo e concepiva il lavoro dello psiconcologo perlopiù come figura di affiancamento del medico nell’aiutarlo a capire l’impatto dei farmaci sulla qualità di vita del malato stesso.
È anche vero, però, che alcune espressione presenti in Getting Well Again e tradotte come:
facevano sì che molti operatori sanitari percepissero questo libro come espressione di scarsa serietà scientifica.
La malattia oncologica è una patologia estremamente complessa e la parola guarigione, utilizzata in diverse pagine del libro, allontanava non solo i medici (di tradizionale formazione organicistica) ma anche molti psicologi che in quegli anni si avvicinavano all’oncologia.
Al contrario della posizione espressa dal Dott. M. Tamburini, di estrema prudenza, che poi era anche la mia, altre persone avevano accolto con interesse il libro.
Soprattutto chi aveva sperimentato la malattia sulla propria pelle aveva apprezzato la traduzione di questo testo e lo esprimeva apertamente.
Ada Burrone, fondatrice e presidente della prima associazione di donne operate al seno “Attive come prima” nell’introduzione al testo scriveva:
“Ho letto questo libro sentendolo mio, parola per parola: rappresenta la risposta alle richieste che mi hanno fatto migliaia di persone visitate come me dal cancro che cercavano la luce nel buio. È straordinario come al di là dell’oceano, al di là delle parole si possa sentire, pensare e agire all’unisono.
Gli autori hanno realizzato un sistema terapeutico, parte del quale ho da dodici anni personalmente sperimentato. Per questo so che gli impulsi che la mente e il corpo registrano, derivano dalla qualità delle sensazioni che l’individuo prova e coltiva.
Il contagio dei sentimenti buoni rafforza il coraggio, muove la volontà dinamica e quindi rinnova l’energia vitale attraverso quell’armonia che mantiene o procura la salute.”
Le parole di Ada destarono contrastanti reazioni e interminabili discussioni, anche perché Ada aveva invitato Goldestein a tenere dei corsi proprio ad AttiveComePrima.
E più di una volta io con Marcello siamo stati invitati ad assistere a questi corsi.
La tesi da cui partono O. C. Simonton, S. Matthews e J Creighton è che la malattia non è un disturbo esclusivamente fisico ma un fenomeno che riguarda tutta la persona, la quale include non soltanto il corpo ma anche la mente e le emozioni. Queste ultime svolgono un ruolo centrale non solo nella predisposizione alla malattia ma anche in tutto il processo di cura e di ristabilimento della salute.
Un programma efficace di cura deve riguardare, scrivono, non soltanto le terapie tradizionali (radioterapia e chemioterapia) ma anche un profondo lavoro sulle emozioni, sulla speranza, sullo stress e sulla riprogettazione del proprio futuro.
Per facilitare tutto questo processo propongono non soltanto un approfondimento delle emozioni che accompagnano la malattia ma anche l’analisi dei pensieri disfunzionali, la riduzione dei livelli di stress presenti durante il percorso terapeutico, l’apprendimento di tecniche di rilassamento e di visualizzazione guidate.
Questi corsi, cui avevamo assistito tenuti da Goldestein, tenevano impegnati me e Marcello in lunghe discussioni sino a sera con Ada che invece riteneva che ci trovassimo di fonte ad una vera rivoluzione culturale.
Impiegammo tanto tempo per convincere Ada che però il risultato e la critica più ricorrente fosse che quel metodo fosse troppo sbilanciato verso la medicina alternativa al punto di poter instillare nei pazienti come risultato finale false speranze. Alla fine, Ada si convinse.
Però, poiché in quel periodo con Marcello stavamo portando a termine diversi studi su modelli positivi di Coping, abbiamo convenuto che nel metodo ci fossero anche degli spunti molto interessanti tra cui:
1) Il merito di avere riesumato dal Webster Dictionary addirittura risalente al 1828, la definizione di SPERANZA:
“Speranza è il desiderio di qualcosa di positivo, collegato ad almeno una minima aspettativa di riuscire a raggiungerlo o alla fede nella sua raggiungibilità. La Speranza si distingue dal desiderio o dalla richiesta perché implica almeno una piccola aspettativa positiva o possibilità di riuscita. La Speranza produce pertanto sempre gioia o piacere, al contrario del desiderio e della richiesta, che suscitano o implicano ansia o sofferenza”.
2) Infatti, nel metodo Simmonton, la speranza viene intesa come fede nella raggiungibilità di quanto si desidera indipendentemente da quanto alta sia la probabilità di riuscirci.
Intesa in questo modo, la speranza non può risultare falsa perché si tratta di fede in una possibilità.
Ora, forse, sarà più chiaro perché è sempre importante la narrazione della esperienza di chi ce l'ha fatta e soprattutto di chi è uscito dalle statistiche malgrado i suoi fattori prognostici sfavorevoli.
Al contrario quando non vediamo alcuna speranza, ci arrendiamo.
Questo stato è una sorta di anticipazione della morte, perché rinunciamo di prendere parte alla vita.
PRIMULA66:
dottore leggo tutto di un fiato i suoi approfondimenti...quanti amici ed estimatori ha incontrato nella sua vita. ...non so se è stata più avventurosa la sua esperienza di sportivo o quella di medico. In ogni caso, se non decide di reincarnarsi in un criceto, nella prossima vita studio medicina e le faccio da assistente!!! Le voglio bene.Corretta osservazione perché la mia esperienza di sport estremo è stata strettamente correlata con quella professionale in quel difficile ventennio 1980-2000.
Lo sport estremo mi ha salvato dal burnout.
Il deserto mi ha trasmesso più conoscenze di quelle impartitemi dalla stessa Università, sia considerando il percorso della laurea in Medicina oltre alle due specializzazioni in Chirurgia e Oncologia Medica.
Da una parte eravamo tutti entusiasti e motivati ad accompagnare i progressi della medicina soprattutto in campo chirurgico perché proprio nel 1981 si concludeva il Trial Milano I che confrontava la mastectomia con la quadrantectomia+radioterapia.
Dall'altra parte, l'elevata mortalità e gli effetti devastanti delle cure mettevano il medico di fronte ad una lotta continua fra frustrazione ed entusiasmo, impegno imperativo di un aggiornamento costante e quello di una disponibilità ad oltranza, con il rischio molto concreto di un exitus energetico, non solo lavorativo, ma addirittura della persona con manifestazioni psicologiche e comportamentali: esaurimento emotivo e depersonalizzazione che caratterizzano la sindrome del burnout.
Le curve di sopravvivenza erano agghiaccianti nei casi con fattori prognostici sfavorevoli. Le statistiche erano scoraggianti.
Ricordo, tra le tante mie pazienti, Anna che ad ogni anniversario del suo intervento aveva l'abitudine di inviarmi una lettera con la sua curva di sopravvivenza.
Anna cercava la Speranza mentre la curva della sua sopravvivenza a 5 anni era solo del 5% e a 10 anni relegata a rarissimo Case Report.
A quell'epoca le pazienti cercavano la Speranza imbattendosi in medici di tradizionale formazione organicistica che si affidavano solo alle impietose statistiche e inevitabilmente molte di esse disperate (= speranza cancellata) si rivolgevano alle “dolci” Medicine alternative.
Incontravo frequentemente pazienti che rifiutavano le terapie tradizionali perché si era sparsa, tra i loro canali, la voce che Salvo Catania fosse un medico “buono”, che non le avrebbe mai colpevolizzate per le loro scelte anche se dissennate.
Invece, già al primo incontro, le smentivo immediatamente perché io non mi consideravo affatto un medico buono, ma un buon medico, che, oltre ad essere competente non esclude dal percorso clinico il paziente con i suoi sentimenti e le sue emozioni, la sua famiglia, i suoi interessi, il suo lavoro e le sue passioni.
E il buon medico si occupa della salute del suo paziente nella sua integrità e non dei suoi...pezzi.
Perché tutto questo influisce sul decorso della malattia!
Non colpevolizzavo queste pazienti perché, in fondo, avevano tutte le ragioni per diffidare della medicina ufficiale che prometteva curve di sopravvivenza in parte fallimentari e le poche guarigioni si registravano al prezzo di terapie aggressive e invalidanti. Del resto, non se ne conoscevano altre.
Sono riuscito:
a) a convincere tante pazienti a tornare indietro dalle loro iniziali decisioni
b) ad operare molte pazienti “pentite” anche se in fasi avanzate della malattia e che avevano praticato, nella fase iniziale della malattia, solo terapie alternative.
Non sono stato in grado di proporre argomentazioni sufficienti ad altre pazienti e queste le ho perse di vista.
Tutti questi dati, di quasi 30 anni di esperienza, li ho presentati come relatore al
1° Congresso nazionale Medicina e Pseudoscienza che si è tenuto a Roma il 7 e 8 aprile 2017.
"Questo primo congresso nazionale su medicina e pseudoscienza rappresenta una grande occasione di formazione e di incontro tra scienziati", così era stato annunciato e ha mantenuto tutte le premesse e le promesse che ho riassunto in questo articolo:
La Scienza, il Giornalismo e la Politica annunciano la perdita della verità
dove potete rendervi conto di quale fosse la portata del fenomeno che non è del tutto scomparso. Anzi …!
Nello stesso congresso non solo ho presentato per la prima volta una documentazione fotografica sugli orrori alternativi:
Ma, tra lo stupore generale, ho presentato i dati di un sondaggio condotto nel nostro blog nel 2015 dove le nostre utenti in numero significativo, pur avendo usufruito delle terapie classiche, non solo praticavano terapie alternative, ma si guardavano bene in molti casi dal comunicarlo all'oncologo curante.
“Perché secondo lei avrei dovuto comunicarglielo?”
Ho anche scritto, spesso dietro richiesta, diversi articoli divulgativi per spiegare il mio NO a terapie alternative, quelle più diffuse: Invenzioni folli e false medicine anticancro
Per la mia formazione tuttavia, studiando il versante alternativo, ho tratto anche degli insegnamenti importanti nel ventennio 1980-2000, alcuni dei quali li condivido ancora e che potrebbero farmi apparire come un medico alternativo, mentre è vero il contrario.
Ci vorrebbero diversi volumi per non saltare alcun passaggio che oggi mi fanno dire, sulla base dell’ultratrentennale osservazione, che il destino di ogni paziente lo decidono tanti fattori, alcuni immodificabili e altri modificabili dal medico, dalle terapie e dallo stesso paziente.
La Medicina tradizionale, di formazione organicistica, allontana molte pazienti perché spegne ogni speranza quando dà eccessivo valore alle statistiche, che ovviamente sono importantissime, ma a condizione che si tenga conto anche della varianza e del fenomeno degli Outliers, cioè degli individui che escono dalle statistiche e che sono più frequenti di quanto non si possa pensare.
Basta cercarli!
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10193022
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1025476
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10992730
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11824888
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12203070
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12745644
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15246199
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16292100
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2546879
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/7544955
Tra tutte le medicine alternative un discorso a sé merita il Metodo Simonton che mi aveva coinvolto in un confronto diretto con Ada Burrone e Marcello Tamburini.
Nel giugno del 2009 Oscar Carl Simonton moriva e veniva commemorato come l’oncologo pioniere degli studi sulla relazione mente corpo. Oggi, con una terminologia più scientifica, si potrebbe affermare che O. C. Simonton è stato un rappresentante di quella disciplina indicata con la sigla P.N.E.I. che sta ad indicare la Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia, quel settore della medicina che studia la particolare relazione tra i sistemi organici.
O. C. Simonton era un radioterapista e nel 1970 aveva fondato il Cancer Couseling and Research Centre di Fort Worth in Texas.
Nel 1978 veniva pubblicato un suo libro negli USA con il titolo Getting Well Again.
Il libro è scritto con la seconda moglie, Stephanie Matthews, che di mestiere fa la psicoterapeuta e con James Creighton che è un oncologo.
Attualmente in Italia questo libro lo si trova pubblicato con il titolo “Ritorno alla salute”. In copertina risulta che la prima edizione risale al 1996 ma in realtà questo testo inizia a girare nel nostro paese molto tempo prima.
Nel 1981, infatti, viene diffuso con il titolo “Star bene nuovamente”, il testo è curato da un sociologo, Simon Goldstein, e da una psicologa, Anna Condorelli. Propone e descrive, per la prima volta nella storia dell’oncologia, un programma a tappe di un particolare intervento psicologico/psicoterapeutico di sostegno alle terapie tradizionali (chirurgia, chemio e radioterapia).
In Italia l’accoglienza di questo testo è stata contrastante, da una parte quelli entusiasti e interessati, dall’altra quelli indifferenti se non apertamente scettici. Due schieramenti contrapposti che vedevano soprattutto malati e qualche psicologo clinico da una parte e il mondo medico ufficiale accademico dall’altra. Tra questi ultimi c’era anche Marcello Tamburini che, anche se di formazione filosofica, lavorava all’Istituto dei Tumori di Milano in qualità di psicologo e concepiva il lavoro dello psiconcologo perlopiù come figura di affiancamento del medico nell’aiutarlo a capire l’impatto dei farmaci sulla qualità di vita del malato stesso.
È anche vero, però, che alcune espressione presenti in Getting Well Again e tradotte come:
- “…Le aspettative rispetto al cancro e i loro effetti sulla guarigione…”,
- “…un modello del processo di guarigione del cancro che investe la totalità della persona…”,
- “…guarire dal cancro: un modo di trattare insieme il corpo e la mente…”
facevano sì che molti operatori sanitari percepissero questo libro come espressione di scarsa serietà scientifica.
La malattia oncologica è una patologia estremamente complessa e la parola guarigione, utilizzata in diverse pagine del libro, allontanava non solo i medici (di tradizionale formazione organicistica) ma anche molti psicologi che in quegli anni si avvicinavano all’oncologia.
Al contrario della posizione espressa dal Dott. M. Tamburini, di estrema prudenza, che poi era anche la mia, altre persone avevano accolto con interesse il libro.
Soprattutto chi aveva sperimentato la malattia sulla propria pelle aveva apprezzato la traduzione di questo testo e lo esprimeva apertamente.
Ada Burrone, fondatrice e presidente della prima associazione di donne operate al seno “Attive come prima” nell’introduzione al testo scriveva:
“Ho letto questo libro sentendolo mio, parola per parola: rappresenta la risposta alle richieste che mi hanno fatto migliaia di persone visitate come me dal cancro che cercavano la luce nel buio. È straordinario come al di là dell’oceano, al di là delle parole si possa sentire, pensare e agire all’unisono.
Gli autori hanno realizzato un sistema terapeutico, parte del quale ho da dodici anni personalmente sperimentato. Per questo so che gli impulsi che la mente e il corpo registrano, derivano dalla qualità delle sensazioni che l’individuo prova e coltiva.
Il contagio dei sentimenti buoni rafforza il coraggio, muove la volontà dinamica e quindi rinnova l’energia vitale attraverso quell’armonia che mantiene o procura la salute.”
Le parole di Ada destarono contrastanti reazioni e interminabili discussioni, anche perché Ada aveva invitato Goldestein a tenere dei corsi proprio ad AttiveComePrima.
E più di una volta io con Marcello siamo stati invitati ad assistere a questi corsi.
La tesi da cui partono O. C. Simonton, S. Matthews e J Creighton è che la malattia non è un disturbo esclusivamente fisico ma un fenomeno che riguarda tutta la persona, la quale include non soltanto il corpo ma anche la mente e le emozioni. Queste ultime svolgono un ruolo centrale non solo nella predisposizione alla malattia ma anche in tutto il processo di cura e di ristabilimento della salute.
Un programma efficace di cura deve riguardare, scrivono, non soltanto le terapie tradizionali (radioterapia e chemioterapia) ma anche un profondo lavoro sulle emozioni, sulla speranza, sullo stress e sulla riprogettazione del proprio futuro.
Per facilitare tutto questo processo propongono non soltanto un approfondimento delle emozioni che accompagnano la malattia ma anche l’analisi dei pensieri disfunzionali, la riduzione dei livelli di stress presenti durante il percorso terapeutico, l’apprendimento di tecniche di rilassamento e di visualizzazione guidate.
Questi corsi, cui avevamo assistito tenuti da Goldestein, tenevano impegnati me e Marcello in lunghe discussioni sino a sera con Ada che invece riteneva che ci trovassimo di fonte ad una vera rivoluzione culturale.
Impiegammo tanto tempo per convincere Ada che però il risultato e la critica più ricorrente fosse che quel metodo fosse troppo sbilanciato verso la medicina alternativa al punto di poter instillare nei pazienti come risultato finale false speranze. Alla fine, Ada si convinse.
Però, poiché in quel periodo con Marcello stavamo portando a termine diversi studi su modelli positivi di Coping, abbiamo convenuto che nel metodo ci fossero anche degli spunti molto interessanti tra cui:
1) Il merito di avere riesumato dal Webster Dictionary addirittura risalente al 1828, la definizione di SPERANZA:
“Speranza è il desiderio di qualcosa di positivo, collegato ad almeno una minima aspettativa di riuscire a raggiungerlo o alla fede nella sua raggiungibilità. La Speranza si distingue dal desiderio o dalla richiesta perché implica almeno una piccola aspettativa positiva o possibilità di riuscita. La Speranza produce pertanto sempre gioia o piacere, al contrario del desiderio e della richiesta, che suscitano o implicano ansia o sofferenza”.
2) Infatti, nel metodo Simmonton, la speranza viene intesa come fede nella raggiungibilità di quanto si desidera indipendentemente da quanto alta sia la probabilità di riuscirci.
Intesa in questo modo, la speranza non può risultare falsa perché si tratta di fede in una possibilità.
Ora, forse, sarà più chiaro perché è sempre importante la narrazione della esperienza di chi ce l'ha fatta e soprattutto di chi è uscito dalle statistiche malgrado i suoi fattori prognostici sfavorevoli.
Al contrario quando non vediamo alcuna speranza, ci arrendiamo.
Questo stato è una sorta di anticipazione della morte, perché rinunciamo di prendere parte alla vita.
- Modificato da salvocatania
Juventina Fiduciaria
Sally 72
Buon inizio settimana ragazze/I,buongiorno doc.
Lascio fili colorati per l'agenda di patri,per la sua mammetta ed a prescindere.
Passate una serena giornata.
Buon tutto a tutti
Patri Fiduciaria
Buongiorno dott.Catania ❤️
Grazie per il 5 capitolo, l’ho salvato e lo leggerò con calma.
Ci organizzeremo insieme a Fra76❤️, Lori ❤️ e LoryCalif ❤️per il viaggio a Loures 😉
Buongiorno blog ❤️
Io ci sono 🌸
- Modificato da Patri Fiduciaria
Patri Fiduciaria
Michi2 ❤️
Buongiorno tesoro ❤️anche se in ritardo volevo augurare buon compleanno al tuo papà ❤️ e a tua suocera ❤️🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊
Buongiorno tesoro ❤️anche se in ritardo volevo augurare buon compleanno al tuo papà ❤️ e a tua suocera ❤️🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊🎉🎊
Patri Fiduciaria
Fra76❤️
Bene per Gabri
Bene per Gabri