Tutto sul dolore cronico

Revisione Scientifica:

otellopoli
Dr. Otello Poli Neurologo, Algologo, Esperto in medicina del sonno

Il concetto di salute come “diritto universale” venne votato per la prima volta nel 1945 dal Parlamento del Regno Unito e introdotto nell’atto costitutivo del National Health Service britannico nel 1948

Su gentile concessione dell'editore HPS, riportiamo gli estratti del LibroBianco sul Dolore Cronico che ha visto la luce nell'ottobre 2014. Ringraziamo il dr. Marco Filippini, che ha messo a disposizione l'opera e che l'ha resa scaricabile gratuitamente in formato pdf  che troverete in fondo pagina.

LibroBianco sul Dolore Cronico

Il concetto di salute come “diritto universale” venne votato per la prima volta nel 1945 dal Parlamento del Regno Unito e introdotto nell’atto costitutivo del National Health Service britannico nel 1948

Un anno prima, nel nostro Paese, questo diritto veniva inserito nella Costituzione approvata all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale: nell’articolo 32 della Costituzione italiana si legge che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

Nonostante queste date, pietre miliari nella storia del diritto alla salute, ci portino indietro di circa settant’anni, la storia del trattamento del dolore come diritto è invece, purtroppo, molto più recente.

Di diritto al trattamento adeguato del dolore si parla per la prima volta nel 1997, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ricorda che “ogni vita umana raggiunge il termine. Garantire che questo avvenga nel modo più dignitoso, attento e meno doloroso è una priorità”.

A partire da questo invito dell’OMS, hanno mosso i passi alcune iniziative: nel 2004 è stata lanciata la prima Giornata Mondiale Senza Dolore organizzata dall’OMS stessa insieme all’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore, e nel 2011 è stata promulgata la dichiarazione di Montreal, che sancisce il trattamento adeguato del dolore come un diritto fondamentale dell’uomo.

ARGOMENTI TRATTATI

 

Ma le raccomandazioni dell’OMS prendono corpo in un vero e proprio testo di legge per la prima volta in Italia con la Legge numero 38 del 2010, grazie alla quale l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore è sancito e garantito a tutti i cittadini. Si tratta della prima normativa che regola e obbliga al trattamento del dolore in chiunque lo necessiti, in qualunque momento della vita.

IL TRATTAMENTO DEL DOLORE CRONICO

Il trattamento del dolore cronico, forse più di ogni altra area di intervento sanitario, porta con sé un’evoluzione di pensiero e di trasformazioni che solo recentemente − e ancora non del tutto − stanno entrando nel “normale” bagaglio culturale della classe medica, dei pazienti e degli organi istituzionali decisori.

La definizione stessa di “dolore cronico” è stata oggetto di un processo evolutivo enorme. Per decenni si è considerato il dolore cronico esclusivamente come il sintomo di un’altra patologia. Oggi sappiamo che il dolore moderato o grave è qualcosa che va oltre questa nozione: il dolore cronico è di per sé una malattia.

Anche il concetto medico comune di “cronicità” assume un’accezione peculiare, quando si parla di dolore: il dolore è cronico non perché perdura da un lasso di tempo importante, bensì perché la causa che lo genera non è risolvibile.

Nonostante ormai le principali Istituzioni mondiali e leggi ad hoc in molti Paesi richiamino l’attenzione sul dolore, sancendone il corretto trattamento come un diritto della persona, l’appropriatezza diagnostica e prescrittiva sono ancora insufficienti, e questa carenza rappresenta non solo un grave problema di etica sanitaria e di equità sociale, ma anche un enorme costo per i sistemi sanitari. In Italia, il Sistema Sanitario Nazionale spende circa 11 miliardi di euro all’anno per la gestione dei pazienti con dolore cronico.

 

LA PREVENZIONE

La prevenzione, la corretta diagnosi e il trattamento adeguato del dolore cronico non sono quindi soltanto un imperativo deontologico e un dovere morale, da parte del medico, nonché un problema economico socio-sanitario, ma sono un obbligo legale.

In questo scenario, il LibroBianco sul Dolore Cronico si inserisce come uno strumento che ha l’obiettivo di fare il punto sulla gestione complessiva del paziente con dolore cronico affrontando tutti gli aspetti che una corretta visione globale deve considerare: l’aspetto medico, farmacologico, analitico, farmacoeconomico e istituzionale.

Grazie alle diverse competenze degli Autori che hanno collaborato alla realizzazione di questo testo, sono analizzati i temi della fisiopatologia del dolore cronico e del suo trattamento, in particolare dell’appropriatezza diagnostica e prescrittiva, dei rischi per la salute e per la qualità di vita del paziente associati al trattamento inadeguato del dolore e dei costi che questa inadeguatezza comporta. Sono presentate le analisi di mercato e farmacoeconomica dei farmaci utilizzati per il trattamento del dolore, e le norme che regolano il trattamento stesso. 

 

DEFINIZIONE DEL DOLORE

L’International Association for the Study of Pain (IASP) defi nisce il dolore come un’esperienza spiacevole, sensoriale ed emozionale, correlata con un danno tissutale o descritta in tali termini, sottolineando in questo modo l’importanza sia della componente emozionale sia del concetto che il dolore è sempre correlabile a danno tissutale in atto o anche solo potenziale.

Per molto tempo il dolore cronico è stato considerato come un sintomo di una malattia cronica che doveva essere individuata e trattata. La definizione stessa di “cronico” era legata a un criterio temporale estremamente variabile nella lettera- tura (1 mese – 3 mesi – 6 mesi).

Essendo, in effetti, difficile legare la cronicità solo al criterio temporale, si è riusciti a inquadrare meglio il dolore cronico nel momento in cui la letteratura scientifica ha stabilito due importanti elementi:

1) il dolore cronico è una malattia a sé stante;

2) il dolore è defi nito cronico non sulla base di un criterio temporale (da quanto tempo è presente), ma di un criterio fi siopatologico (il dolore è cronico quando la causa che lo ha generato non è più risolvibile). Queste due definizioni sono essenziali non solo per un mero criterio nosografi co o semantico, ma per indirizzare in modo più opportuno l’appropriatezza della terapia farmacologica.

Il dolore acuto è facilmente defi nibile per il suo carattere fi nalistico, con caratteristiche positive dal punto di vista ontogenetico; esso, infatti, rappresenta il sintomo che ci permette di evi- tare un pericolo o di riconoscere un danno alla nostra integrità fi sica o una perturbazione della nostra omeostasi; grazie a tale sintomo l’orga- nismo impedisce un aggravamento e facilita la riparazione del danno.

Il dolore cronico invece è per defi nizione afinalistico, non si correla specifi camente a un danno in atto e risolvibile; molto spesso il dolore cronico, o “malattia dolore”, è quindi l’esito di un danno che ha superato le capacità riparative/rigenerative dell’organismo. Esso non si connota tanto per la sua intensità, come il dolore acuto, ma per la sua fi siopatologia e sintomatologia complessa.

Il dolore può diventare cronico per tre situazioni diverse, nessuna delle quali necessariamente legata a fattori temporali:

– malattia cronica in cui il dolore è strettamente legato alla malattia stessa; – malattia cronica in cui il dolore deriva da meccanismi fisiopatologici propri oltre che da quelli generati dalla malattia;

– dolore con meccanismi completamente avulsi dal meccanismo che ha generato la malattia. Una volta distinto il dolore in acuto e cronico, è opportuno identificare il meccanismo fisiopatologico alla sua base, indagando se tale problematica neurologica nasca dal nocicettore (recettore deputato a tramutare il segnale fisico doloroso in segnale elettrico) – e in tal caso si parlerà di dolore nocicettivo – o piuttosto da una disfunzione del sistema nervoso somatosensoriale, generando dolore neuropatico.

Il dolore nocicettivo viene spesso trattato con farmaci antinfiammatori, ma tale terapia risulta appropriata solo se tale approccio permette la risoluzione dell’infi ammazione, altrimenti è più appropriato utilizzare altri farmaci che impediscano di provare dolore ma che siano dotati di un migliore profi lo di sicurezza, come gli oppioidi.

Il dolore neuropatico, invece, può avere un’origine periferica, quando l’alterazione nervosa è a carico del primo neurone, o centrale, quando l’alterazione è a livello del secondo o terzo neurone. È sempre associato a segni neurologici positivi o negativi ed è sempre riferito lungo la via o le vie nervose corrispondenti alla lesione.

Il dolore, quindi, può essere controllato o modulato in ognuno di questi “passaggi” e nel dettaglio:

– nella fase di trasduzione, bloccando la trasduzione del segnale da fisico a neurologico (ad esempio anestesia locale)

– nella fase di trasmissione, bloccando la trasmissione del segnale neurofisiologico lungo le fibre nervose (ad esempio anestesia di un nervo, o modulazione di segnale alterato lungo un nervo)

– nella fase di modulazione, riducendo o bloccando il segnale neurologico al passaggio tra un neurone e l’altro

– nella fase di percezione, modulando le aree di percezione del dolore per ridurre la componente cognitiva del paziente legata al dolore.

 

IL PERCORSO DELLO STIMOLO DOLOROSO

  • TRASDUZIONE

  • MODULAZIONE

  • TRASMISSIONE

  • PERCEZIONE

Da diverso tempo, lo studio sulle aree di percezione del dolore non si pone più l’obiettivo di individuare le zone del cervello strettamente deputate all’elaborazione del dolore; da alcuni anni, infatti, si è iniziato a parlare di “neuromatrice” del dolore.

Alcuni studi di risonanza magnetica funzionale hanno mostrato l’attivazione di zone corticali ma anche di zone più rostrali deputate alla componente affettiva (amigdala) e di memorizzazione (talamo).

Lo stimolo doloroso, se non prontamente eliminato, causa una cascata di modifi cazioni anche a livello del midollo spinale e a livello corticale, che giustifi cano ulteriormente la trasformazione da “dolore-sintomo” a “dolore-malattia”. Anche il dolore viene memorizzato attraverso modificazioni di espressione genica; inoltre, con meccanismi anche fi sicamente riconoscibili di neurogenesi neuronale, ovvero di neoformazione delle sinapsi, si può consolidare a lungo termine.

Inoltre, è importante sottolineare come, anche dopo pochi secondi dall’inizio di un qualsiasi evento nocicettivo, a livello midollare inizino modificazioni tese ad amplificare tale segnale. Dal punto di vista ontogenetico questo evento neurofisiologico avrebbe il compito di favorire la guarigione (maggiore attenzione alla lesione che mette in pericolo l’integrità dell’organismo), ma spesso tali modificazioni perdurano e si au-tonomizzano dalla causa che le ha generate. Da tale spiegazione risulta evidente come sia fondamentale un approccio clinico mirato a evi- denziare queste caratteristiche.

 

APPROPRIATEZZA DIAGNOSTICA

La valutazione dell’origine eziopatologica del dolore, oltre a passare da un’accurata anamnesi, esame obiettivo generale e neurologico per le principali cause del dolore, deve soffermarsi sempre sull’identificazione del meccanismo patogenico.

È opportuno sottolineare che tale approccio diagnostico ha il suo fondamento nella valutazione clinica del paziente e che l’esame strumentale assume una valenza solo successiva, in quanto non vi è ancora evidenza di correlati specifici di imaging strumentale e tipologia di meccanismo fisiopatologico di dolore. Si possono individuare cinque diversi meccanismi fisiopatologici di dolore:

– Infiammazione: è la classica e più conosciuta origine iniziale di diversi tipi di dolore. Uno stimolo nocicettivo lesivo attiva la cascata infi ammatoria con il richiamo di cellule immunitarie regolatorie dell’infi ammazione e la conseguente liberazione di citochine proinfiammatorie [inter- leuchina (IL)-1, IL-6, tumor necrosis factor (TNF)α] e di mediatori di fase acuta (proteina C reattiva, fi bronectina, proteina amiloide sierica).

A livello tissutale l’endotelio e le cellule immunitarie richia- mate (mastociti, leucociti, neutrofi li) producono diverse sostanze algogene come l’istamina, la sostanza P, il peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP), l’ossido nitrico (NO), lo ione idrogeno (H+).

La vasodilatazione conseguente determina un’importante acidifi cazione dell’ambiente am- plifi cando la percezione dolorosa immediata. Si crea, quindi, un’area di iperalgesia primaria, ovvero un’area intorno alla lesione primaria in cui i nocicettori sono sensibilizzati e si attivano più facilmente (iperalgesia e allodinìa).

L’infiammazione è finalizzata a facilitare la guarigione della lesione, ma in alcuni casi, per svariate cause, può divenire cronica in quanto non più risolvibile. In tale contesto il nostro target terapeutico non è tanto la riduzione dell’infiammazione (in quanto non più risolvibile), quanto la modulazione di tale segnale.

– Formazione di recettori ectopici: lungo un nervo integro gli stimoli trasmessi dalle sue fi bre sono ben distinti, le fi bre C (più sottili e non mie- linizzate) trasmettono il caldo e il dolore urente, le fi bre A delta trasmettono il freddo e il dolore pungente, le fi bre A beta trasmettono il tatto e, se integre, non trasmettono stimoli dolorosi, ma se lesionate possono causare parestesie.

In questa situazione un corretto esame obiettivo, adiuvato da semplici strumenti per valutare la sensibilità al caldo e al freddo e al tatto, possono indirizzare molto bene la diagnosi del tipo di lesione neurologica e la conseguente terapia.

– Adrenosensibilità: è un meccanismo di eccitazione incrociata tra fi bre nervose periferi- che, dove molto spesso la causa principale è una maggiore sensibilità delle fi bre afferenti dolorifiche agli stimoli adrenergici, i quali continuano ad automantenere l’infiammazione periferica.

Tale problematica può essere conseguente a una lesione delle strutture somatiche con o senza lesione concomitante di un nervo.

Tale meccanismo fi siopatologico ancora non del tutto chiarito viene defi nito Complex Regional Pain Syndrome (precedentemente era anche chiamato morbo di Sudek o algodistrofi a) di I o II tipo a seconda che non vi sia o vi sia una lesione nervosa.

– Sensibilizzazione neuronale: è uno degli elementi predominanti nei meccanismi di modificazione e di cronicizzazione che abbiamo sino a qui elencato. Avviene a livello midollare e porta a un’area di iperalgesia secondaria circonferenziale rispetto a quella primaria con tipica risposta allodinica allo sfregamento (brushing) e alla pun- tura (pin-prick).

Tale risposta fisiopatologica può derivare dal persistere di stimoli sia nocicettivi - infiammatori sia neuropatici. La liberazione continua di sostanza P e di glutammato a livello della membrana presinaptica causa l’attivazione di canali “sensibilizzanti” a livello postsinaptico come i canali NMDA (N-metil-D-aspartato), con un conseguente accumulo di Ca++ con eff etti citotossici.

La risposta della sensibilizzazione neuronale è inizialmente sempre reversibile, ma può divenire non più reversibile per svariati motivi non sem- pre prevedibili. Tale meccanismo fisiopatologico identifica molto bene quanto sia importante controllare sempre e quanto prima possibile qualsiasi tipo di dolore, in modo da prevenire la sua eventuale “cronicizzazione”.

– Deafferentazione: è la conseguenza dolorosa di una lesione completa di un plesso nervoso o di una stazione talamica. In ogni caso è il sistema nervoso che, non ricevendo più informazioni dalla periferia, “attiva” un segnale doloroso autonomo per segnalare tale anomalia. Il dolore viene, quindi, avvertito in un’area assolutamente priva di qualsiasi sensibilità (anestesia dolorosa). In questo caso la terapia dovrebbe cercare, spesso con scarsi risultati, di ridurre l’iperattivazione a livello del secondo o terzo neurone tramite farmaci che possano agire specificatamente a tale livello.

Alla luce di questa nuova tassonomia, è necessario superare, oltre al carattere temporale del- la cronicità, anche il concetto di terapia basata sull’intensità, passando a un concetto di terapia basata sul meccanismo fisiopatologico che sostiene il dolore cronico.

 

APPROPRIATEZZA TERAPEUTICA: oltre la scala dell’OMS

L’OMS nella sua ormai “storica” scala a gradini per il trattamento del dolore oncologico ha presentato un approccio progressivo razionale ma, alla luce delle scoperte fatte nel decennio suc- cessivo, poco generalizzabile a tutte le sindromi dolorose croniche.

La scala OMS  prevedeva in particolare uno schema di trattamento sequenziale e progressivo secondo cui i farmaci venivano suddivisi in base alla potenza antalgica in tre gradini:

per il dolore di lieve intensità sono indicati i farmaci antinfi ammatori non steroidei (FANS) e/o paracetamolo (I gradino) eventualmente associati a farmaci adiuvanti (quali ad esempio corticosteroidi o antidepressivi tricilici);

il dolore di intensità da lieve a moderata può essere trattato con oppioidi deboli (farmaci del II gradino, rappresentati in Italia da tramadolo e codeina) associati a farmaci adiuvanti; mentre per il dolore di intensità da moderata a severa sono raccomandati gli oppioidi forti (farmaci del III gradino, quali morfina, oxicodone, oppioidi per il dolore severo morfi na, oxicodone, fentanil ± adiuvanti ± paracetamolo oppure FANS analgesici antipiretici paracetamolo oppure FANS (es. ibuprofene, diclofenac) ± adiuvanti oppioidi per il dolore moderato codeina, tramadolo ± adiuvanti ± paracetamolo oppure FANS idromorfone, fentanil e buprenorfi na) associati a farmaci adiuvanti. Per quasi trent’anni la scala OMS ha costituito il punto di riferimento nella gestione del dolore non soltanto oncologico, ma anche benigno, nonostante lo stratificarsi nel tempo di numerose evidenze che gettavano un’ombra sulla sua validità e i vari tentativi da parte della comunità scientifica di modificare il suo approccio sequenziale.

Evidenze e tentativi che fi nalmente hanno trovato una sintesi nelle Linee guida AIOM, ESMO ed EAPC pubblicate nel 2012 con l’obiettivo di favorire una maggiore appropriatezza terapeutica.

In particolare la mancanza di un approccio basato sul meccanismo patogenetico del dolore, l’inserimento di adiuvanti senza una specifica indicazione, il passaggio graduale – basato solo sull’intensità del dolore – a farmaci oppiacei deboli e forti rappresentano dei limiti talmente importanti da sconsigliarne l’utilizzo.

Come precedentemente accennato, quindi, l’individuazione del farmaco, più che all’intensità, deve adattarsi al tipo di meccanismo che sostiene il dolore e alle caratteristiche anamnestiche del paziente stesso, nel tentativo di mantenere la mas- sima adesione terapeutica, associando efficacia e tollerabilità.

L’appropriatezza terapeutica in terapia del dolore, quindi, deve accogliere l’invito della medicina moderna a tentare la massima per- sonalizzazione della terapia alla luce della complessità della malattia e del malato stesso.

L’efficacia assume un significato complesso, definibile come obiettivo derivante da corretta diagnosi, efficacia terapeutica e assenza di effetti collaterali, in modo da massimizzare l’aderenza terapeutica. Come visto precedentemente, anche il dolore cronico, o la sua riacutizzazione, può avere una componente infi ammatoria che può giustificare l’utilizzo dei FANS.

Tale approccio, tuttavia, non giustifica, alla luce dell’appropriatezza terapeutica appena defi nita, l’eccessivo utilizzo che in Italia viene fatto di tali farmaci (l’Italia è ai primi posti nel mondo per consumo pro capite di FANS).

L’appropriatezza terapeutica in tal caso evidenzia anche come un’errata scelta del farmaco contribuisca anche a un ulteriore aumento “inutile” della spesa sanitaria, sia per consumo di farmaci per contrastare i possibili effetti collaterali (ad esempio inibitori di pompa), sia per effetti collaterali iatrogeni, con conseguente aumento di ricoveri per complicanze gastroenteriche, emorragiche e cardiovascolari.

L’uso del FANS è corretto quando si ravveda una base infi ammatoria risolvibile o migliorabile prospetticamente con l’utilizzo di tale farmaco. Al di fuori di questo quadro tassonomico, e soprattutto quando il dolore diventa malattia senza una componente di infiammazione acuta, il target di appropriatezza terapeutica si pone l’obiettivo di modulare e non “curare” il dolore, con conseguente scelta di farmaci efficaci sui meccanismi di trasmissione e modulazione del dolore più che su quelli di trasduzione periferica. Nel dolore cronico senza una componente infiammatoria, gli oppioidi sono a tutt’oggi i farmaci che hanno dimostrato maggiore efficacia e tollerabilità.

L’appropriatezza terapeutica, inoltre, si pone anche un obiettivo di tollerabilità, sia perché determinante nell’adesione del paziente alla terapia stessa, sia perché il trattamento del dolore non consiste semplicemente nel trattare l’intensità del dolore, ma tutti i sintomi e le problematiche a esso connesse che allontanano il paziente dal suo contesto (ad esempio incapacità lavorativa o di relazione sociale).

Pertanto, nella scelta del farmaco, specialmente se ad azione centrale, ci si deve proporre di non compromettere le funzioni cognitive, permettendo la guida di veicoli, la possibilità di eseguire lavori delicati e così via. Tale approccio deve, però, considerare come elemento fondamentale il fatto che il dolore stesso è un elemento di disfunzione delle funzioni cognitive e che, come ormai dimostrato ampiamente dalla letteratura, la sua riduzione (anche con farmaci ad azione centrale) ha molto spesso un eff etto “netto” positivo sulla capacità cognitiva del soggetto.

A tale proposito l’International Council on Alcohol, Drugs and Traffi  c Safety (ICADTS) ha stilato una classifica dei farmaci che interferiscono meno con lo stato psicofisico del paziente. In particolare i farmaci sono suddivisi in tre categorie, così definite:

1) Categoria I: Farmaci presumibilmente sicuri o con limitate capacità di produrre effetti collaterali. Per questi farmaci gli effetti sono stati testati e sono paragonabili a una concentrazione alcolica < 0,5 g/L;

2) Categoria II: Farmaci che possono produrre effetti collaterali lievi o moderati (equivalenti a una concentrazione alcolica compresa tra 0,5 e 0,8 g/L);

3) Categoria III: Farmaci che possono produrre gravi eff etti collaterali e che sono potenzialmente pericolosi (equivalenti a una concentrazione alcolica > 0,8 g/L).

All’interno di ogni categoria ci sono farmaci diversi e più sicuri per chi guida. Tra gli oppiacei ad esempio oxicodone (Categoria II) risulta più sicuro sia di tramadolo da solo o in tutte le sue associazioni (Categoria III) sia di fentanil e di morfina (Categoria III).

A conferma dello studio ICADTS, nel 2013 un Opinion Leader italiano, il Dottor Luca Miceli,
che più di tutti si è occupato negli ultimi anni di sicurezza alla guida e utilizzo di farmaci oppioidi, scrive una lettera all’editore di Pain Practice evidenziando che i tempi di reazione visiva e uditi- va risultano migliori utilizzando l’ associazione di oxicodone e naloxone rispetto a tramadolo.

Infine, la tollerabilità si deve tradurre anche in assenza di altri effetti collaterali organici, tipici degli oppiacei, ad esempio la stipsi; nuove associazioni polifarmacologiche o nuovi farmaci stanno andando proprio in questa direzione, cercando di garantire la medesima efficacia clinica con riduzione dell’eff etto clinico avverso.

Quindi l’appropriatezza terapeutica in terapia del dolore è declinabile con un approccio estremamente personalizzato che sappia combinare, in un’ottica multimodale, principi attivi con effetti su target diversi (centrali e periferici o vie ascendenti e discendenti, ad esempio) per ottenere massima efficacia clinica (riduzione del dolore e miglioramento della performance del soggetto), minimi effetti collaterali e massima aderenza alla terapia.

Nell’ottica di utilizzo di diversi farmaci diviene altresì fondamentale la conoscenza delle possibili interazioni farmacologi- che, così da evitare inefficacia o effetti collaterali ascrivibili non a una scorretta scelta terapeutica, ma a un suo scorretto utilizzo.
Rischi connessi all’improprio utilizzo dei farmaci antinfi ammatori non steroidei.
Da diverso tempo è ormai nota la tossicità a livello gastrico, cardiaco e renale dei FANS, preva- lentemente se utilizzati per periodi prolungati. Recentemente è stata pubblicata su The Lancet 

Classifica International Council on Alcohol, Drugs and Traffi  c Safety (ICADTS) dei farmaci che interferiscono in grado minore con lo stato psicofi sico del paziente: gli oppioidi forti.

ATC NOME DELLA SOSTANZA CATEGORIA N02 ANALGESICI N02A Oppioidi N02AA Alcaloidi naturali dell’oppio N02AA01 Morfi na III N02AA03 Idromorfone II N02AA05 Oxicodone II N02AA08 Diidrocodeina II N02AA59 Codeina, associazioni esclusi psicolettici II

– Categoria I per < 20 mg di codeina base N02AB Derivati della fenilpiperidina N02AB02 Petidina III N02AB03 Fentanil III N02AC Derivati della difenilpropilamina N02AC01 Destromoramide III N02AC03 Piritramide III N02AC04 Destropropoxifene II N02AC05 Bezitramide III N02AC54 Destropropoxifene, associazioni esclusi psicolettici II N02AD Derivati del benzomorfano N02AD01 Pentazocina III N02AE Derivati dell’oripavina N02AE01 Buprenorfi na III

– per uso analgesico N02AF Derivati del morfi nano N02AF02 Nalbufi na III – per uso analgesico N02AX Altri oppioidi N02AX01 Tilidina III N02AX02 Tramadolo III N02AX52 Tramadolo, associazioni III una metanalisi dei trials randomizzati sugli eventi avversi cardiovascolari e gastrointesti- nali conseguenti all’utilizzo di questi farmaci, con l’obiettivo di meglio caratterizzarne gli effetti, in particolare nei soggetti cardiopatici.

Nonostante precedenti metanalisi e studi osservazionali avessero già mostrato un aumentato rischio cardiovascolare e gastrointestinale legato ai FANS, rimaneva una certa incertezza sul tipo e sull’entità di tali rischi, e sulla relativa sicurezza di certi FANS piuttosto che di altri, specie nei pazienti già a rischio di malattia coronarica.

La metanalisi è stata condotta prendendo in esame circa 300 trials riguardanti l’impiego di un FANS rispetto a placebo, e circa 500 trials riguardanti un FANS rispetto a un altro FANS, per un totale di circa 350.000 pazienti. Dall’analisi dei dati, è emerso come gli eventi vascolari maggiori risultino aumentati di circa un terzo nei soggetti in terapia con un COXIB o diclofenac, aumento sostenuto principalmente da even- ti coronarici maggiori.

Anche ibuprofene ha mostrato un aumento significativo di eventi coronarici maggiori, ma non di eventi vasco- lari maggiori. Naproxene non ha invece de- terminato un aumento del rischio vascolare, anche se alcuni recenti studi evidenziano ri- schi anche per tale farmaco. Il rischio di insufficienza cardiaca è risultato quasi raddoppiato per tutti i FANS considerati (COXIB, diclofenac, ibuprofene e naproxene) in caso di assunzio- ne prolungata.

Come prevedibile, tutti i FANS considerati hanno mostrato anche un aumen- to significativo del rischio di complicanze del tratto gastrointestinale superiore (Tabella IV). Secondo quanto concluso dai ricercatori, il rischio vascolare di alte dosi di diclofenac, e in parte di ibuprofene, è paragonabile a quel- lo dei COXIB, mentre naproxene ad alte dosi Coxib and traditional NSAID Trialists’ (CNT) Collaboration. Vascular and upper gastrointestinal eff ects of non-steroidal anti- infl ammatory drugs: meta-analyses of individual participant data from randomised trials.

The Lancet.com (May 2013) Gli eventi vascolari maggiori (defi niti come infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o morte vascolare) risultano aumentati di circa un terzo con un COXIB [rate ratio (RR) 1,37; p=0,0009] o diclofenac (1,41; p=0,0036), soprattutto a causa di un aumento degli eventi coronarici maggiori, ovvero infarto miocardico non fatale o morte coronarica (COXIB 1,76; p=0,0001; diclofenac 1,70; p=0,0032). Ibuprofene ha comportato un signifi cativo aumento degli eventi coronarici (2,22; p=0,0253), ma non degli eventi vascolari maggiori (1,44).

Rispetto a placebo, ogni 1000 pazienti trattati con COXIB o diclofenac per un anno, tre in più hanno fatto registrare eventi vascolari maggiori, dei quali uno con esito fatale. La morte vascolare è risultata signifi cativamente incrementata dall’utilizzo di COXIB (1,58; p=0,0103) e diclofenac (1,65; p=0,0187).

Il rischio di collasso cardiaco è risultato circa raddoppiato con tutti i FANS presi in esame. Tutti i FANS hanno infi ne comportato un aumento delle complicanze gastrointestinali ovvero perforazioni, ostruzioni o sanguinamenti (COXIB 1,81; p=0,0070; diclofenac 1,89; p=0,0106; ibuprofene 3,97; p<0,0001 e naproxene 4,22; p<0,0001).

Sembra associato a un rischio vascolare minore rispetto agli altri FANS. Un altro recentissimo lavoro, pubblicato nell’aprile 2014 sulla rivista BMJ Open [39], ha dimostrato come prendere o avere assunto di recente antinfi ammatori può quasi raddoppiare (+76- 84%) il rischio di soffrire di fi brillazione atriale, fattore di rischio noto per la salute del cuore.

Lo studio, durato circa 13 anni con il coinvolgimen- to di quasi 8500 soggetti di età media 68 anni, suggerisce che l’eff etto negativo degli antidolorifi ci sul cuore possa essere dovuto proprio al fatto che questi farmaci aumentano il rischio di fi brillazione atriale.

Un altro trial randomizzato e controllato sull’impiego di paracetamolo e ibuprofene (singolarmente o in associazione) in pazienti con dolore osteoarticolare cronico ha documentato un modesto beneficio a breve termine sulla sintomatologia dolorosa in questi pazienti, causando invece diversi eventi avversi soprattutto emato- logici, in conseguenza dei quali, nell’Editoriale che accompagna il lavoro, lo studio viene definito “un eccellente trial clinico randomizzato in grado di rispondere a vecchie domande e suggerire nuove raccomandazioni terapeutiche”.


I risultati del trial indurrebbero inoltre, secondo gli autori, a riconsiderare il trattamento dei disturbi muscolo-scheletrici con gli analgesici OTC (over the counter), in particolare con l’associazione dei due analgesici paracetamolo-ibuprofene. Anche il solo paracetamolo ha dimostrato, in diversi recenti trials clinici, di provocare eventi avversi quali dispepsia, diarrea e sanguinamento gastrointestinale. Vale la pena sottolineare un altro aspetto riguardante il rischio cardiovascolare legato all’uso di antinfiammatori, messo in evidenza da un altro studio recente pubblicato su Circulation nel 2011.

I ricercatori hanno voluto studiare in particolare l’associazione fra i rischi cardiovascolari da FANS e la durata del trattamento in soggetti con pregresso infarto miocardico acuto (IMA). I risultati hanno mostrato che, in questo caso, anche trattamenti a breve termine con FANS erano associati a un aumento del rischio cardiovascolare: il rischio cardiovascolare da FANS è cioè indipendente dalla durata del trattamento e non esiste quindi una fi nestra terapeutica “sicura” per l’uso di questi farmaci nei pazienti con precedente IMA, nemmeno per trattamenti di breve durata.

Per quanto riguarda i più recenti COXIB (etorico- xib e celecoxib), è ben dimostrata la riduzione del rischio gastrointestinale, ma è confermata una tossicità cardiovascolare simile ad altri FANS, con un lieve aumento dell’incidenza di incre- mento della pressione arteriosa sistolica.

Le recenti Linee guida AIOM, ESMO ed EAPC, inoltre, raccomandano particolare attenzione nei confronti del paziente anziano, per il quale è richiesta una maggiore cautela soprattutto per la presenza di comorbilità e po- literapie, che impongono il divieto di utilizzo dei FANS (raccomandazione forte) e di impiego di paracetamolo in caso di insuffi  cienza epatica o epatopatia cronica.

Nell’anziano, anche non politrattato, va evitato l’uso dei FANS come prima scelta anche nel dolore lieve e si raccomanda l’utilizzo tempestivo degli oppiacei per evitare l’utilizzo prolungato dei farmaci del primo gradino (anche questa è una raccomandazione forte).

Le evidenze scientifiche risultano suffragate anche da provvedimenti restrittivi e warning messi in atto dalle Autorità sanitarie italiane e internazionali su FANS, COXIB e oppiacei deboli diramati dal momento che tali farmaci sembrerebbero non soddisfare appieno i requisiti di effi  cacia e sicurezza indispensabili per un trattamento di lunga durata.

 

Costo dell’inappropriato utilizzo dei FANS nel trattamento del dolore cronico

Gli effetti collaterali sopra descritti, derivanti da un utilizzo non appropriato dei FANS nel trattamento del dolore cronico, non impattano solo sulla salute e sulla compliance dei pazienti, ma generano anche importanti costi nella loro gestione.

Un lavoro canadese ha calcolato incidenza e costi nella gestione degli eventi avversi a carico del tratto gastrointestinale in un totale di 12.082 pazienti in trattamento con FANS. Di questi, ben 217 (1,8%) hanno subito un’ospedalizzazione in conseguenza a problematiche gastrointestinali e il 27% era costretto ad assumere, insieme al FANS, un gastroprotettore.

Il costo diretto medio per paziente/die degli effetti collaterali a livello di stomaco e intestino è risultato superiore di 3,5 volte rispetto a quello per i pazienti che non assumevano FANS ed è stato stimato attorno a 1,34 dollari canadesi (in più del 70% dei casi attribuito direttamente agli eventi avversi da FANS), generando, nei due anni di osservazione, un costo a carico del Sistema Sanitario Canadese pari a circa 3 milioni di dollari canadesi.

Negli Stati Uniti il costo annuo legato all’ospedalizzazione per eventi avversi
gastrointestinali nei pazienti che assumono FANS è stimato attorno ai 2 miliardi di dollari americani. Gli autori specificano che tale dato non prende in considerazione i costi dei gastroprotettori, delle visite e degli esami aggiuntivi e delle giornate di lavoro perse.Eventi avversi gastrointestinali nella popolazione presa in esame nello studio di Rahme (modifi cata da). Numero di nuovi utilizzatori di FANS (popolazione totale dello studio)12.082 Età media ± DS 74,5 ± 6,34 Genere femminile (%) 61,3 Numero mediano di farmaci concomitanti (25%, 75% quartile) 1 (0, 3) FANS prescritti inizialmente dal reumatologo alla data indice (%) 1,3 Punteggio mediano della malattia cronica (25%, 75% quartile) 1 (0, 4) Numero di pazienti (%) Morte da tutte le cause 661 (5,5) GPA durante il follow-up 3257 (27,0) GPA alla data indice 857 (7,1) Ospedalizzazioni 217 (1,8) Test diagnostici 801 (6,6)GPA, agenti gastroprotettori.

In UK il costo annuo a carico del National Health Service (NHS) per il trattamento di eventi avversi gastrointestinali in pazienti in terapia con FANS è stimato in 251 milioni di sterline, che comprendono i costi di ospedalizzazione, ma soprattutto quelli legati alle coprescrizioni (che pesano all’incirca per l’85% sulla spesa totale). 

Conclusioni

A quattro anni dalla promulgazione della Legge 38/2010 importanti passi avanti sono stati compiuti nella prospettiva di un signifi cativo miglioramento nella cura del dolore. Permangono, tuttavia, alcuni ostacoli culturali a un adeguato ed efficace trattamento del dolore. Punto di partenza è fare chiarezza per giungere a un’appropriata defi nizione di dolore cronico, indispensabile per l’impostazione della corretta diagnosi.

Di fondamentale importanza in questo percorso è affrontare la tematica dell’appropriatezza terapeutica, che richiede preparazione della classe medica, superamento della resistenza al cam- biamento e collaborazione e sviluppo di specifiche reti per la cura del dolore cronico.

 

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Data pubblicazione: 19 dicembre 2014

Guarda anche Dolore cronico