Malattia di Alzheimer: cosa ne sappiamo a oggi?
Aloysius Alzheimer, neurologo tedesco, descrisse per la prima volta nel 1907 una demenza caratterizzata da una uniforme atrofia del cervello e da strani agglomerati: aveva identificato una delle malattie più subdole per l'essere umano che - con oltre il 50% dei casi - è la causa più comune di demenza: il morbo di Alzheimer.
Indice
Cos'è l'Alzheimer
La malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer's Disease) è una grave forma di demenza che determina la progressiva morte dei neuroni cerebrali, a partire prima di tutto dalla memoria per arrivare a colpire poi le altre funzioni superiori.
Storia e diffusione della malattia
Aloysius Alzheimer, neurologo tedesco che lavorava nell’Ospedale Psichiatrico di Monaco di Baviera, descrisse per la prima volta nel 1907 al Congresso di Psichiatria di Tubinga una forma di demenza caratterizzata da uniforme atrofia del cervello e da strani agglomerati, identificati poi come le famose placche di proteina beta amiloide.
Gli studi successivi hanno identificato questa malattia come la forma più comune di demenza e che oggi è universalmente nota come malattia di Alzheimer anche se sarebbe più giusto denominarla malattia di Alzheimer-Perusini, poiché fu individuata con l’italiano Gaetano Perusini, che aiutò Alzheimer ad identificarne i caratteri neuropatologici, studiando i reperti anatomo-patologici evidenziati dall’autopsia della paziente Augusta Dester, ricoverata per demenza.
Secondo una recente stima epidemiologica, i casi di demenza in tutto il mondo raggiungono la cifra di 50 milioni e la malattia di Alzheimer costituisce il 60-70% di tutti i casi. Da dati del 2018, risulta un’incidenza di AD (Alzheimer’s Disease) di 5.8 milioni di casi negli Stati Uniti e di 850.000 nel Regno Unito. Nel nostro Paese, secondo recenti dati ISTAT, le persone affette da demenza sono 1.127.754, con lieve prevalenza del sesso femminile, di cui si stima che circa la metà sarebbe affetta da malattia di Alzheimer, ma che tuttavia risulta diagnosticata in modo appropriato in meno del 50% dei casi.
La prevalenza dell’AD nella popolazione >65 anni è del 4,4% e risulta maggiore nelle donne, che presentano valori che vanno dallo 0,7% per la classe d’età 65-69 anni al 23,6% per le ultranovantenni, rispetto agli uomini i cui valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%. In larga maggioranza la malattia è considerata sporadica, attribuibile ad una serie di fattori di rischio, e solo nel 10-15% dei casi si individua una predisposizione genetica.
A prescindere dall’esatta causa dell’Alzheimer, per altro non ancora chiaramente identificata, il contrassegno patognomonico della malattia è costituito dalle placche amiloidi e dai grovigli fibrillari, che sono responsabili di una progressiva perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria e per altre funzioni cognitive. Nei pazienti affetti da AD si osserva, inoltre, un basso livello di quelle sostanze chimiche, come l'acetilcolina, che lavorano come neurotrasmettitori e sono quindi coinvolte nella comunicazione tra le cellule nervose.
Diffusione della Malattia di Alzheimer
Sintomi dell'Alzheimer
Essendo l’AD una malattia degenerativa a carattere progressivo, l’esordio clinico è generalmente lieve e subdolo ed apre la strada ad un graduale peggioramento snodato nel corso di molti anni. Le caratteristiche di decorso sono significativamente variabili in dipendenza dell’esatto meccanismo patogenetico coinvolto.
Schematicamente si può suddividere la sintomatologia dell’Alzheimer in tre stadi:
Sintomi dello stadio precoce
- Perdita moderata della memoria per i fatti recenti, come ad esempio dimenticare una conversazione o un evento recenti oppure ripetere con frequenza la medesima domanda o l’incapacità a selezionare talune parole in un discorso.
- Modifiche inizialmente modeste del tono dell’umore o del comportamento che antecedentemente non erano normali per quel soggetto, che si accompagnano ad un aumento dello stato di ansia e di confusione.
- Iniziali sintomi cognitivi espressi principalmente come difficoltà a decidere, che rende il paziente sempre più incerto in talune circostanze.
È importante, tuttavia, aver presente che se la dimenticanza o l’inappropriata collocazione di oggetti costituiscono evento occasionale ciò rappresenta solo una conseguenza del normale invecchiamento, mentre se ciò diviene routine, può essere interpretato come segno iniziale di demenza.
Sintomi dello stadio intermedio
In questa fase della malattia, il paziente presenta un’incapacità progressiva ad attendere alle proprie attività quotidiane fino a richiedere un certo grado di assistenza.
- La perdita di memoria peggiora progressivamente fino a far dimenticare i nomi delle persone con cui si è a contatto continuo ed a non riconoscere più la fisionomia dei propri congiunti
- Le modifiche dell’umore diventano sempre più pronunciate, accompagnandosi ad aumento dell’ansia e del senso di frustrazione e il comportamento diviene ripetitivo, connotato spesso da insolita impulsività
- Quale conseguenza dello stato ansioso e depressivo il paziente appare sempre più demotivato
- In taluni casi compaiono allucinazioni o errori interpretativi della realtà, ossia il paziente non riesce ad identificare correttamente una persona o una cosa
- In questo stadio della malattia sono frequenti insonnia o altri disturbi del sonno, come l’inversione del ritmo giorno-notte
- Possono comparire difficoltà motorie o della corretta esecuzione di gesti complessi (aprassia) e disturbi del linguaggio (afasia)
Per approfondire:Cos'è l'afasia?
Sintomi dello stadio tardivo
- Tutti i sintomi comportamentali, emozionali, motori e cognitivi dello stadio intermedio si aggravano; ciò si accompagna a un parallelo aumento del carico di stress per i caregiver e per lo stesso paziente
- Non sono infrequenti comportamenti aggressivi ed atteggiamenti di diffidenza e sospettosità del paziente anche verso i propri familiari
- La difficoltà ad alimentarsi comporta spesso una significativa perdita di peso
- Con il progredire dei disturbi motori la deambulazione e la postura stessa diventano estremamente difficoltose; in questo stadio diviene molto frequente l’incontinenza urinaria e fecale
È evidente come nell’ultimo stadio della malattia le attività quotidiane siano gravemente inficiate tanto da imporre un’assistenza full-time. Il paziente è sempre più chiuso in sé stesso e mostra una reattività sempre più ridotta sino all’exitus, che in genere subentra dai 3 ai 9 anni dalla comparsa dei primi sintomi.
In molti casi la progressione della malattia è aggravata da fattori indipendenti dalla patologia stessa dell’Alzheimer quali infezioni intercorrenti, traumi non infrequenti o ictus che, causando marcati deficit motori, rendono talora indistinguibile l’AD dalla demenza vascolare.
Cause della malattia di Alzheimer
Nella gran maggioranza dei casi la malattia di Alzheimer è sporadica e la causa esatta non è tuttora del tutto acquisita.
Nel 5-10% dei casi è riconducibile a differenze genetiche ereditarie ben note (malattia di Alzheimer familiare), che in meno dell’1% di tutti i casi è ad eredità autosomica dominante ed è associata alla forma di AD a esordio precoce, che inizia cioè prima dei 65 anni.
A riguardo della forma ereditaria di AD sono state identificate tre chiavi genetiche direttamente causali della malattia: APP, PSEN1 e PSEN2 coinvolte nella formazione dell’amiloide e quindi nella produzione di placche beta-amiloide, il principale contrassegno della AD. In relazione a ciò, quando esiste nell’anamnesi familiare un antecedente di demenza, ciò dovrebbe suggerire che nel pool genetico della famiglia sussista una specifica mutazione genetica che aumenti il rischio di contrarre l’AD e che sia indicato pertanto procedere con uno screening genetico.
Esistono comunque molti altri fattori genetici associati che si suppone possano costituire rischio di AD di cui il più comune è l’allele APOE4 (forma del gene APOE) che aumenta il rischio di sviluppare l’AD da 3 a 15 volte in dipendenza degli alleli APOE4. Infatti, si stima che circa il 60% dei soggetti con AD abbiano almeno un allele APOE4, che tuttavia richiede la combinazione con altri geni deterministici o con altri fattori di rischio che esacerbino la gravità e la progressione della malattia. Altri fattori genetici implicati nella trasmissione ereditaria dell’AD sono costituiti dalle mutazioni autosomiche dominanti a carico di ABCA7 e SORL1 e dalle variazioni alleliche di TREM2, implicato nella microglia, che si ritiene innalzino fino a tre volte il rischio di sviluppare l’Alzheimer. Sono comunque stati identificati fino a 20 altri geni con espressione polimorfa che possono innalzare il rischio per l’AD.
Quali sono i fattori di rischio?
A parte i fattori genetici, sebbene l’esatto meccanismo di sviluppo dell’AD non sia stato ancora del tutto acquisito, sono comunque stati identificati una serie di fattori chiave coinvolti nel rischio della malattia e che sono costituiti da:
- Età avanzata: 1 soggetto su 6 al di sopra degli 80 anni presenta segni di demenza; il rischio di sviluppare l’AD raddoppia ogni 5 anni dopo i 65 anni.
- Traumi cranici: è un dato oramai acquisito quello dell’associazione fra trauma cranico ed encefalopatia traumatica con l’AD. Inoltre, nel soggetto affetto da demenza che subisca un trauma cranico, si osserva costantemente un peggioramento dei sintomi e della prognosi.
- Malattie cardio-vascolari: i fattori che predispongono a malattie cardiache (diabete, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e fumo) sono egualmente associati ad aumentato rischio di demenza innanzitutto di tipo vascolare ma anche di m. di Alzheimer.
- Sindrome di Down: la base genetica della sindrome è la trisomia 21, ossia tre copie del cromosoma 21, che implica però anche una copia extra del gene APP che produce la beta amiloide e che ne comporta una produzione del 50% in più rispetto ai livelli normali. Ciò espone i soggetti con la sindrome ad un aumentato rischio per l’AD.
- Stile di vita: altri fattori comuni di rischio sono rappresentati da uno stile di vita sedentario, perdita dell’acuità uditiva, con conseguente isolamento sociale, lo stress e la depressione non trattata adeguatamente.
- Supplemento di Calcio: un recente studio ne ha evidenziato un’associazione con l’AD ma esclusivamente fra soggetti di sesso femminile con antecedente di ictus
Prevenzione del rischio per l’Alzheimer
Da quanto è stato sinora detto si desume che la demenza, nella maggioranza dei casi, non si identifica con il fisiologico invecchiamento e che il rischio di svilupparla può essere attivamente contrastato mediante variazioni dello stile di vita, come di seguito elencato:
- Abolire la vita sedentaria svolgendo regolarmente attività fisica
- Assumere una dieta bilanciata
- Abolire il fumo, ridurre gli alcoolici, calare di peso
- Preferire l’alimentazione a base di frutta, verdura e olio di oliva
- Mantenersi mentalmente attivi
- Mantenere l’attività lavorativa finché possibile
- Esercitare di continuo il cervello (brain training)
- Evitare l’isolamento sociale e in solitudine assumere l’abitudine alla meditazione
- Non dormire più di 9 ore per notte
Diagnosi della malattia
Deficit della memoria a breve termine o sfuggenti sintomi iniziali di demenza tendono generalmente ad essere trascurati oppure attribuiti all’uso di farmaci, allo stress, alla depressione ed all’ansia, che per il vero possono simulare l’AD. Comunque, se questi sintomi persistono o tendono peggiorare, allora deve essere ipotizzato che possano essere espressivi di demenza.
Indagini strumentali e test
Purtroppo non esiste un singolo test con cui fare con certezza la diagnosi di AD o di altra forma di demenza, anche se è auspicabile che molteplici ricerche in corso presto lo possano rendere possibile.
Gli Specialisti che si occupano di questa patologia sono sia il Neurologo che lo Psichiatra i quali, seppure con visioni alquanto peculiari al loro indirizzo formativo, attraverso indagini strumentali (Risonanza Magnetica, EEG, PET) e specifici test neuropsicologici pervengono alla definizione diagnostica e al livello di gravità del coinvolgimento cognitivo. Il test più diretto e semplice è il MMSE (Mini Mental State Examination) che, in caso di uno score al di sotto del valore di norma (25-30), apre la via a più approfonditi test, come ad esempio gli ADAS-Cog, che indagano a fondo l’entità del declino cognitivo. L’importante è di identificare in tempi brevi se il declino cognitivo sia precursore della demenza per porre in atto le strategie terapeutiche di cui oggi si dispone.
Per approfondire:Un test rapido per la diagnosi precoce di Alzheimer
Modifiche degenerative del cervello nella AD
I contrassegni tipici che consentono di diagnosticare l'Alzheimer sono costituiti dalle placche di beta-amiloide, che si forma nel contesto del tessuto cerebrale e nello spazio peri-vascolare (angiopatia cerebrale amiloide), e dagli ammassi fibrillari di proteina tau nell’interno dei neuroni. Questi due elementi contribuiscono congiuntamente alla neuro-degenerazione che culmina nella morte dei neuroni e delle loro connessioni sinaptiche e il cui effetto finale è rappresentato da un diffuso aspetto atrofico della corteccia cerebrale e dell’ippocampo, che sostiene la sintomatologia dell’AD la cui gravità è determinata dalla graduale estensione del processo degenerativo.
I diversi tipi di demenza presentano aspetti sovrapponibili non solo sotto il profilo clinico, ma anche sotto quello patologico. Gli aggregati di alfa-sinucleina (proteina normalmente solubile ma che può formare aggregati proteici insolubili, che costituiscono i corpi di Lewy) sono peculiarmente presenti nella demenza a corpi di Lewy e nella malattia di Parkinson ma talvolta anche nell’Alzheimer, così come le placche ateromasiche che sono caratteristiche della demenza vascolare. Pertanto, la combinazione di due o più tipi di demenza definisce la cosiddetta demenza mista, di cui le forme più frequenti sono date da AD e demenza vascolare.
È un dato oramai acquisito che in oltre un terzo di casi sospetti di AD in soggetti di età over 80 la diagnosi di malattia di Alzheimer è erronea. Infatti, una forma di demenza identificata di recente è causata dall'accumulo intra-neuronale della proteina TDP-43, diversa dalla beta amiloide, che sinora era collegata alla SLA ed alla demenza fronto-temporale. Questa nuova forma di demenza, denominata dai ricercatori LATE (Limbic-predominant Age-related TDP-43 Encephalopathy), colpisce il lobo limbico, la parte mediale del lobo temporale e la corteccia frontale causando sintomi del tutto sovrapponibili all’AD. Questa scoperta è di notevole implicazione per la ricerca scientifica in quanto getta luce nuova sul meccanismo dell’AD e sulle strategie di trattamento.
Cura dell'Alzheimer
Dopo anni di ricerca, il 7 giugno 2021 è stato approvato un farmaco, l'Aducanumab, che agendo sulle cause della malattia sembra rallentarne il decorso. Fino a tale data non si disponeva di una cura per l'Alzheimer in grado di indurre significative modifiche del suo decorso: la terapia è sempre stata con farmaci che hanno mostrato di migliorarne temporaneamente i sintomi, senza tuttavia agire sulla causa che sostiene l’AD.
Terapia con farmaci
- Rivastigmina e Donepezil: questi farmaci sono inibitori dell’Acetilcolinesterasi. Come è stato già detto in precedenza, il neurotrasmettitore Acetilcolina è ridotto nell’AD, per cui l’azione degli inibitori, prevenendone la degradazione metabolica, ne incrementa il livello nel cervello.
- Memantina: è un farmaco che agisce con effetto inibitore sul sistema glutamergico. Il glutammato è un neurotrasmettitore che normalmente eccita il recettore NMDA delle regioni cognitive e della memoria. Nei soggetti affetti da demenza, vi sarebbe un’aumentata sensibilità al glutammato che può risultare neurotossico, favorendo un eccessivo accumulo di calcio nei neuroni che ne causa la morte. La memantina è un antagonista non competitivo NMDA-recettoriale e quindi eserciterebbe la sua azione bloccando gli effetti patologici del glutammato.
- Antidepressivi ed antipsicotici: questi farmaci riescono solamente ad alleviare taluni sintomi concomitanti, quali la depressione e particolarmente lo stato di agitazione che è frequente negli stadi più avanzati della malattia.
Terapie non farmacologiche
- Riabilitazione cognitiva: l’azione congiunta di terapisti specializzati e quella dei caregiver può consentire una lenta riconquista dell’autonomia nelle attività quotidiane di routine.
- Stimolazione cognitiva: inserendo il soggetto affetto da demenza in comunità, dove prenda parte ad attività sociali, può avere un effetto migliorativo della memoria e delle abilità più semplici di problem-solving.
- Reminiscenza: discutere attivamente di eventi del passato anche con l’ausilio visivo, come per esempio con foto, ha un deciso effetto di ristoro del tono dell’umore.
- Musico-danzoterapia: la musica di epoche remote della vita del paziente stimola il ricordo di eventi dimenticati ed implica un miglioramento dell’umore e del comportamento. Ciò comporta anche una riduzione dell’isolamento sociale e stimola all’interazione sociale ed all’espressione dei propri sentimenti.
- Pet-therapy: affidare la cura anche parziale di un cane al paziente affetto da AD fa ottenere risultati insospettabili di autonomia gestionale.
L’insieme di questi approcci terapeutici è quasi sempre foriero di lievi ma transitori miglioramenti dei sintomi, che sono purtroppo invariabilmente destinati a regredire con l’inesorabile progredire della malattia.
Trattamenti alternativi
Esistono numerose terapie alternative che si suppone siano di qualche utilità per il paziente, sebbene una reale efficacia non ne sia stata dimostrata; tra le tante si citano quelle più attendibili sulla base dei trial clinici che sono citati in corrispondenza:
- Omega-3
- Gingko Biloba
- Statine
L’efficacia di questi e di altri integratori (olio di cocco, curcuma, etc.) non è mai stata completamente validata, come per la maggioranza di questi medicamenti alternativi, da studi su larga scala ma di solito, se usati con moderazione, non inducono danno e comunque non devono sostituire i farmaci convenzionali.
Trial clinici attuali
Si citano taluni tra i più significativi studi attualmente in corso per la valutazione degli effetti di vari trattamenti:
- Sargramostim: farmaco per prevenire o trattare la neutropenia in corso di chemioterapia antineoplastica, ridurrebbe l’accumulo di beta-amiloide
- MK8931 (verubecestat): è un inibitore selettivo della beta-secretasi che riduce nell’animale da esperimento la produzione dell’amiloide
- CAD106: è un vaccino (immunoterapie passive anti-Aß) che induce immunità alla beta-amiloide senza scatenare una risposta autoimmune
- TRx0237: è un inibitore dell'aggregazione TAU
- Insulina intranasale: la somministrazione di insulina intra-nasale avrebbe degli effetti a livello cognitivo, funzionale e nel metabolismo del glucosio cerebrale
Se queste terapie abbiano un potenziale nel modificare il decorso della malattia ed inducano realmente un miglioramento della sintomatologia deve, comunque, essere ancora verificato.
Come affrontare la malattia
La via più efficace per prevenire la malattia di Alzheimer resta comunque lo stile di vita basato sull’esercizio continuo delle facoltà mentali, su una dieta sana e sull’esercizio fisico.
Resta un dato di fatto incontrovertibile che la diagnosi di AD crea realmente scompiglio nel nucleo familiare del paziente e sconforto nel paziente stesso, per cui il target deve essere quello di pervenire nel modo più precoce possibile alla definizione diagnostica della malattia per attuare le terapie e i trattamenti realmente accreditati per rallentarne il decorso e contestualmente di avvalersi di strutture qualificate per ricevere il necessario supporto per la migliore assistenza del paziente.