Tutto sulle demenze

Revisione Scientifica:

maurocolangelo
Dr. Mauro Colangelo Neurologo, Neurochirurgo

Con il termine demenza si designa un insieme di condizioni cliniche che interferiscono sulle funzioni cognitive, causando disturbi di memoria, linguaggio e ideazione causate da differenti patologie a carico del cervello. La malattia di Alzheimer è la più conosciuta, avendo un’incidenza tra il 60 e l’80% circa di tutti i casi di demenza, seguita dalla demenza vascolare, secondaria ad episodi di ictus.

Con il termine "DEMENZA" si designa un insieme di condizioni cliniche che interferiscono sulle funzioni cognitive, causando disturbi di memoria, linguaggio e ideazione  causate da differenti patologie a carico del cervello.

La malattia di Alzheimer è la più conosciuta, avendo un’incidenza tra il 60 e l’80% circa di tutti i casi di demenza, seguita dalla demenza vascolare, secondaria ad episodi di ictus.

La malattia di Alzheimer si ritiene sia causata dalla formazione di placche di beta-amiloide negli spazi intercellulari e da ammassi fibrillari nell’interno delle cellule, dovuti alla disintegrazione della proteina tau. La sede che viene per prima interessata da questo processo è la regione dell’ippocampo, considerata l’area cerebrale della memoria e dell’apprendimento, per cui il primo segno della malattia è una disfunzione della memoria.

La malattia a corpi di Lewy, con un’incidenza del 10-20%, è per frequenza la seconda forma di demenza. Il Declino Cognitivo Lieve, caratterizzato unicamente da disturbo della memoria a breve termine, si considera invece uno stato fisiologico dell’invecchiamento e differisce dalla demenza in cui sono presenti almeno due o tre sintomi abbastanza severi da coinvolgere il normale funzionamento delle attività quotidiane.

A lato delle demenze causate da lesioni irreversibili del cervello, esistono altre forme di demenze dovute a cause reversibili, come depressione, deficit vitaminici, abuso di alcol, patologie della tiroide, idrocefalo normo-teso, etc., che sono passibili di migliorare se appropriatamente trattate.

La diagnosi di demenza si basa innanzitutto su una attenta raccolta dell’anamnesi, alla ricerca della fenomenologia  di deterioramento psichico che è peculiare per ogni tipo di demenza; inoltre, è essenziale eseguire un approfondito esame neurologico, indagini di laboratorio e strumentali ed i test neuropsicologici specifici per i differenti domini cognitivi. Ciò malgrado la diagnosi esatta è resa difficile dalla presenza di sintomi comuni nelle diverse forme di demenza, per cui si rende necessaria una valutazione da parte di un Neurologo ed in casi selezionati anche di un Neurochirurgo.

Una diagnosi esatta è condizione essenziale per un approccio terapeutico appropriato, tenendo comunque conto che nelle forme primitive, e principalmente nella m. di Alzheimer, non si dispone al presente di terapie in grado di bloccare la progressione della demenza. Tuttavia il ricorso odierno a terapie farmacologiche e riabilitative riesce ad apportare temporanei miglioramenti delle disabilità che si traducono in un migliore livello di vita del paziente.

Abstract

Dementia is a collective term used to describe the problems that people with various underlying brain disorders or damage can have with their memory, language and thinking. Alzheimer's disease is the best known and most common disorder and accounts for between 60% and 80% of all cases of dementia, with vascular dementia caused by stroke being the second most common type. Alzheimer's is thought to be caused by "plaques" between the dying cells in the brain and "tangles" within the cells (both are protein abnormalities: a build-up of "beta-amyloid" in plaques and the disintegration of “tau” protein in tangles).The brain region called the hippocampus is the center of learning and memory in the brain, and the brain cells in this region are often the first to be damaged. That's why memory loss is often one of the earliest symptoms of Alzheimer's. Lewy’s body dementia affects approximately 10 to 22 percent of people with dementia, making it one of the most common types of dementia. Mild cognitive impairments, by contrast, such as poorer short-term memory, can happen as a normal part of aging. Dementia describes two or more types of symptom that are severe enough to affect daily activities. But there are many other conditions that can cause symptoms of dementia, including some that are reversible, such as thyroid problems and vitamin deficiencies and/or normal pressure  hydrocephalus. While most changes in the brain that cause dementia are permanent and worsen over time, thinking and memory problems caused by some reversible conditions (i.e.: depression,  excess use of alcohol, thyroid problems, normal pressure hydrocephalus, etc) may improve when the condition is properly treated. The diagnosis of dementia is based on a careful medical history, a physical examination, laboratory tests, instrumental investigations and the characteristic changes in thinking, day-to-day function and behavior associated with each type. But it's harder to determine the exact type of dementia because the symptoms and brain changes of different dementias can overlap. In order to specify the type it requires a specialist such as a neurologist or in selected cases a neurosurgeon. Treatment of dementia depends on its cause. In the case of most progressive dementias, including Alzheimer's disease, there is no cure and no treatment that slows or stops its progression. But there are drug treatments as well as non-pharmacologic treatments that may temporarily improve symptoms and consequently the quality of life of the affected patient.

Generalità della demenze

La demenza senile, con la popolazione mondiale che invecchia, sta diventando l’emergenza medica e sociale più temuta del terzo millennio con una incidenza di circa il 5% nella popolazione oltre i 65 anni di età e del 24 - 30% negli ultraottantenni. Si prevede che gli anziani con demenza fra 15 anni saranno quasi 90 milioni destinati a triplicare nei successivi 20 anni.  

La demenza consiste in un deterioramento cognitivo progressivo di cui il primo e più evidente sintomo è il declino della memoria; poi con i ricordi del passato si disgrega la memoria delle azioni più semplici della vita quotidiana: mangiare, lavarsi, vestirsi.

L’insorgenza della demenza è subdola perché avanza in modo lento e graduale; per questo la Medicina odierna si sforza di individuarne le fasi  iniziali, quando cioè la malattia è già presente ma in forma lieve ed il soggetto è ancora autonomo nella vita di tutti i giorni. La condizione iniziale, che insorge intorno ai 60 anni, è definita  Declino Cognitivo Lieve  o MCI (acronimo di Mild Cognitive Impairment) e non coinvolge le funzioni cognitive generali né le abilità funzionali, come inesorabilmente accade nella demenza, e può rappresentare uno stato di transizione tra l'invecchiamento normale e la demenza. 

Per questo motivo il declino cognitivo lieve deve essere considerato come   un campanello di allarme quale fattore di rischio che potrebbe precedere lo sviluppo negli anni successivi di una forma di demenza.

Per approfondire:Rischio demenza: più basso nelle persone estroverse e meticolose

Definizione e classificazione

Background storico: Il termine “demenza” cominciò ad essere utilizzato dai Medici del Rinascimento dopo il ritrovamento e la pubblicazione, da parte del papa Niccolò V nel 1478, del trattatoDe Medicinascritto dall'enciclopedista e medico romano Aulo Cornelio Celso, probabilmente tra l'impero di Augusto e quello di Tiberio. Celso aggiunse alle classiche categorie ippocratiche della chirurgia, dietetica e farmaceutica la nuova scienza denominata medicina empirica in  cui descrisse in un latino elegante e semplice, che favorì l'ampia diffusione del suo trattato,  anche le condizioni di alterazione dell’intelligenza e del comportamento che, in modo generico, venivano indicate come demenza.  Il termine fu ripreso  da Jean-Étienne Dominique Esquirol nel trattato “Des maladies mentales, considérées sous les rapports médicaux, hygiénique et médico-légal 2 vols “ (Parigi 1838), ancorché con un significato ampio e generico e senza alcuna distinzione fra disturbi su base organica o funzionale, per indicare un quadro clinico caratterizzato da perdita della memoria, della capacità di giudizio e dell’attenzione. Nel 1883 Emil Kraepelin pubblicò il suo primo grande lavoro clinico: il Compendium der Psychiatrie, prima edizione di un'opera considerata un lavoro classico del XX secolo, in cui esponeva un sistema nuovo di classificazione delle malattie mentali divise in disturbi endogeni (dovuti a cause organiche) e in disturbi esogeni (dovuti a cause esterne all'organismo) che fu per decenni il punto di riferimento della nosologia psichiatrica. Successivamente, nell'ottava edizione, pubblicata tra il 1910 e il 1915,presentò un’esposizione completa e dettagliata della demenza senile di cui rimane ancora oggi traccia nelle principali classificazioni diagnostiche (ICD e DSM).

Il DSM-IV-TR, ossia il manuale per la diagnostica delle affezioni psichiatriche adottato in tutto il mondo con periodici aggiornamenti, definisce la demenza  come una condizione clinica acquisita  di natura organica espressa da assenza di alterazioni della coscienza e da un disturbo multiplo delle funzioni cognitive, con “ricaduta ecologica” cioè con effettive ripercussioni sulla vita di relazione del soggetto. Infatti, la demenza non è caratterizzata solamente da compromissione della memoria ma da  molteplici deficit cognitivi concernenti il linguaggio (afasia), l’organizzazione delle azioni (aprassia), il riconoscimento degli oggetti (agnosia), sufficientemente gravi da provocare una menomazione delle attitudini esecutive e che rappresentano un deterioramento rispetto a un precedente livello di normale funzionamento lavorativo e sociale. Infatti, secondo l’ICD-10 (International Classification of Diseases) la diagnosi di demenza è consentita solo se esiste una durata di malattia di almeno 6 mesi.  

Da una attenta valutazione neurologica, promossa da una perdita di memoria, può scaturire una diagnosi precoce di demenza e di corretta differenziazione di forma (primaria, secondaria o pseudo demenza) che consenta di attuare idonee strategie terapeutiche e riabilitative che ne blocchino la progressione, permettendo così al paziente e ai suoi familiari di affrontare la malattia in modo adeguato. Il criterio corrente di classificazione delle demenze è basato sulle cause  ed individua  forme primarie, o degenerative, e forme secondarie. Le forme primarie principali sono: la malattia di Alzheimer (42% di tutte le forme organiche), la demenza fronto-temporale e la demenza a corpi di Lewy.

Le demenze secondarie sono costituite innanzitutto dalla demenza vascolare-ischemica e poi da un insieme di altre forme che possono essere conseguenza di malattie infettive, intossicazioni croniche, disturbi endocrini, traumi, tumori, etc. Sotto il profilo clinico le demenze si distinguono anche in corticali e sottocorticali a seconda della sede in cui prevale l’aspetto degenerativo e quindi il coinvolgimento di specifiche strutture  funzionali.

Le Demenze corticali, caratterizzate da estesa atrofia corticale e da lesioni degenerative intra- ed extra- neuronali (placche di amiloide) con progressiva perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria e per altre funzioni cognitive, sono rappresentate in primo luogo dalla malattia di Alzheimer e secondariamente  dalla malattia di Pick, dalla demenza fronto-temporale e dalla demenza a corpi diffusi di Lewy. Queste demenze clinicamente sono caratterizzate da  precoce alterazione della memoria e successivamente da perdita del pensiero astratto, deficit del linguaggio, delle prassie, della percezione e  della cognizione spaziale.

Questi deficit  considerati "corticali" non sono invece presenti nelle Demenze sottocorticali, ove invece predominano il  rallentamento dei processi cognitivi ed alterazioni della personalità e disturbi affettivi di tipo depressivo. Al riguardo della depressione nell’anziano è opportuno fare una puntualizzazione. La MCI, come si è detto, potrebbe rappresentare il prodromo di una demenza che diviene successivamente conclamata anche se una tale progressione spesso si rivela inesistente; nel contempo,  va rimarcato che il deterioramento cognitivo è legato a doppio filo alla patologia della depressione nel senso cioè che un deterioramento cognitivo potrebbe essere una conseguenza della depressione; ma è anche possibile il contrario: un sintomo depressivo nell’anziano potrebbe indicare l’esordio di una demenza.

Distinguere i sintomi delle due patologie risulta molto complesso. Per questo una diagnosi differenziale costituisce il primo passo per indirizzare il paziente verso una terapia corretta. Sebbene le modalità di esordio e la progressione della demenza siano molto variabili, il decorso generalmente varia tra i 2 e i 10 anni.

Per approfondire:Senescenza: aspetti fisici e biologici

Malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, AD)

Background storico: La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza e prende il nome da Aloysius (Alois) Alzheimer, neurologo tedesco, ma sarebbe più giusto denominarla malattia di Alzheimer-Perusini poiché fu individuata con l’italiano Gaetano Perusini studiando sotto il profilo clinico e neuropatologico il caso della paziente Augusta Dester, ricoverata per demenza nell’Ospedale Psichiatrico di Monaco di Baviera. Alzheimer ne enunciò i caratteri per la prima volta nel 1907 al Congresso di Psichiatria di Tubinga descrivendone i sintomi ed i reperti anatomo-patologici evidenziati dall’autopsia, costituiti da uniforme atrofia del cervello e da strani agglomerati, identificati poi come le famose placche di proteina beta amiloide.

Etiologia: Si tratta di una patologia degenerativa e progressivamente invalidante che colpisce le cellule cerebrali, provocandone la morte. In più del 90% dei casi l’esordio è sporadico; nel 5-10% dei casi si osserva familiarità, nel senso che la presenza dell’Alzheimer nei parenti di primo grado costituisce fattore di rischio di contrarre la malattia. La ricerca genetica rivolge attualmente grande attenzione allo studio dei geni di suscettibilità.

Con questo termine si intende che esistono dei geni che regolano la probabilità di insorgenza delle malattie. L’essere portatore di un determinato assetto genetico, piuttosto che di un altro, comporta un diverso rischio di ammalarsi. Ciò che si eredita pertanto, non è la causa di una malattia ma il rischio di sviluppare la malattia.

Sono state ipotizzate, specialmente nei casi in cui la malattia si manifesta in età relativamente precoce (early-onset AD), mutazioni genetiche sul cromosoma 21 (dove risiede il gene responsabile della codificazione della proteina APP -Amyloid Precursor Protein- da cui avrebbe origine il peptide beta-amiloide che è il maggior costituente delle placche amiloidi), sui geni PS-1 o presenilina 1 (cromosoma 14) e PS-2 o presenilina 2 (cromosoma 1). Per quanto riguarda il morbo di Alzheimer ad esordio tardivo (late-onset AD) è stata ipotizzata una mutazione del gene che codifica la proteina che normalmente veicola il colesterolo nel sangue ossia l’apolipoproteina (ApoE) a livello del cromosoma 19.

Ma è opportuno sottolineare che l’analisi dei geni di suscettibilità (e quindi del DNA) non è al presente utilizzabile nella pratica clinica per la predizione di demenza ed essa resta pertanto ancora confinata nel settore della ricerca scientifica.

L’orientamento odierno, in definitiva, depone per una origine multifattoriale della AD per la quale non è sufficiente la predisposizione genetica essendo necessaria l’interazione tra questa ed i diversi fattori causali ed  ambientali invocati: ipertensione arteriosa, diabete, alimentazione, stile di vita (inteso quale attività fisica, mentale e sociale), ipercolesterolemia, traumi cranici violenti, etc.

Patogenesi: Il meccanismo con cui si produce la degenerazione caratteristica della AD è legato alla produzione anomala da parte dei neuroni di una proteina (beta amiloide), a partenza dalla APP che è invece un elemento del normale funzionamento cellulare. Questa sostanza non riesce ad essere eliminata dai processi fisiologici di pulizia (fagocitosi) esplicata dalla microglia e si accumula sotto forma di placche amiloidi. Secondo un recentissimo studio cooperativo del 2014, condotto da un team internazionale di ricerca (Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, Universitat Autònoma de Barcelona e Sant Pau Biomedical Research Institute), basse concentrazioni neuronali della proteina TREM2  sono correlate ad un rischio elevato di Alzheimer ma anche di altre patologie neurodegenerative come il Parkinson e la SLA. Il ruolo della proteina TREM 2 consiste nel governare la funzione fagocitaria delle cellule microgliali che viene persa dalle forme mutate della proteina TREM 2; di conseguenza le cellule non riescono più ad effettuare il normale processo di pulizia consistente nell’eliminazione dei rifiuti amiloidi che si accumulano nel cervello.

I Ricercatori  di questo studio hanno dimostrato bassi livelli di TREM 2 nel liquido cerebrospinale di malati di Alzheimer. Inoltre, nei neuroni normali esistono strutture definite microtubuli, attraverso i quali sono trasportate le sostanze nutrienti; queste strutture  sono sorrette da un’impalcatura di neuro-fibrille nella cui costituzione entra  la proteina tau che nell’Alzheimer è anomala per cui i microtubuli si collassano trasformandosi in un groviglio di neurofibrille. Questi ammassi neurofibrillari si addensano, principalmente nel lobo temporale mediale, intorno ai depositi di amiloide formando placche dure insolubili. E questo è il contrassegno peculiare della malattia, come fu evidenziato da Alzheimer e dall’Italiano Perusini: placche diffuse di amiloide dette anche placche senili  nella neocorteccia ed ammassi di neurofibrille.

Aggiornamento

Una Ricerca interamente italiana, pubblicata nell'Aprile 2017 sulla Rivista Nature Communications, ha consentito di acquisire nuove interpretazioni sul meccanismo patogenetico con cui si produce la malattia di Alzheimer.

Il Prof. Marcello D'Amelio, professore associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l'Università Campus Bio-Medico di Roma, unitamente a Ricercatori del CNR e dell'IRCCS S. Lucia di Roma, ha condotto uno studio sull'area tegmentale ventrale (ATV) del mesencefalo evidenziandone le sue importanti connessioni funzionali con il sistema mesolimbico dell'ippocampo ed il nucleo accumbens. I neuroni dell'ATV producono dopamina e stimolano queste strutture che svolgono una funzione importante nel meccanismo della memoria, nel sistema di ricompensa del cervello, nella cognizione, nella motivazione e nel processare vari tipi di emozioni (amore, delusione, paura condizionata). Se nell'ATV si determina un depauperamento cellulare, con conseguente ridotta produzione di dopamina, come in un effetto domino l'intero sistema che dipende da questo neuro-trasmettitore va incontro a disfunzione. In parole semplici, la dopamina prodotta dall'Area Tegmentale Ventrale condiziona il funzionamento delle strutture devolute al meccanismo della memoria e dell'umore.

Sulla scorta della ricerca di D'Amelio, pertanto, si desume che l'Alzheimer è la conseguenza della degenerazione dei neuroni dopaminergici dell'ATV  e non, come si era ipotizzato dell'ippocampo, che invece mantiene integro il proprio patrimonio cellulare. Poiché l'ATV sostiene funzionalmente oltre al circuito ippocampale della memoria anche il sistema limbico delle emozioni, al ridotto rilascio di dopamina conseguono il disturbo mnemonico ed i cambiamenti del tono dell'umore che caratterizzano le fasi iniziali della malattia di Alzheimer.

Decorso clinico: Nel decorso della AD si distinguono cinque fasi che sinteticamente possono essere così schematizzate:

Fase  preclinica: In questa fase non vi è alcun sintomo ma la malattia, sul piano biologico, è già presente. Al momento, la possibilità di identificare una condizione di questo tipo è pressoché solo teorica. 

Fase prodromica: Il soggetto ha sintomi aspecifici, tra cui soprattutto la depressione, che potrebbero poi rivelarsi premonitori della malattia ma anche essere espressione di altre condizioni.

Fase iniziale: Nella fase iniziale il soggetto è consapevole del proprio decadimento anche se ostenta negazione della malattia e tende a manifestare più evidenti disturbi di tipo depressivo, accompagnati talvolta da forme d’ansia legate al rapporto con l’ambiente circostante. ll paziente incontra difficoltà a rievocare parole del lessico comune e nomi di persone (anomia) cui rimedia con l’utilizzo di frasi stereotipate e di parole passe-partout; compaiono lievi deficit di scrittura, tuttavia la comprensione linguistica è ancora conservata. Ai test valutativi neuro-psicologici, in questa fase, si evidenzia aprassia costruttiva per disegni 3D. La fase iniziale ha una durata media di 2/3 anni.

Fase intermedia :La persona ha difficoltà ad orientarsi nello spazio e nel tempo, fino a perdere familiarità con gli oggetti che lo circondano.  I deficit di memoria peggiorano talché perde progressivamente i ricordi in ordine di apprendimento cosicché risultano compromessi eventi sempre più nel passato del paziente e autobiografici. Inoltre vi è un peggioramento del linguaggio, agnosia, aprassia ideativa, ideo-motoria, e aprassia per l’abbigliamento. Compaiono alterazioni della personalità e del comportamento quali irritabilità, aggressività, disinibizione, vagabondaggio;  non sono infrequenti allucinazioni (vedere o sentire cose che nella realtà non esistono) e delirio (ossia pensare cose che non corrispondono al vero); il paziente non riesce più a valutare le conseguenze delle proprie azioni, si comporta in modo inadeguato rispetto a un determinato contesto mettendo a rischio la propria e l’altrui incolumità. E’ questa la fase di durata maggiore (4/5 anni).

Fase finale:  In questa fasesi verifica una progressiva disintegrazione dellefunzionimentali conperdita dell’autonomiae riduzionead unacondizione di vita vegetativa. Sono evidenti una gravissima alterazione del linguaggio e l’annullamento di una vita autonoma. Infatti vi è difficoltà di comprensione linguistica, di strutturazione ed emissione del linguaggio con tendenza alla ripetizione (ecolalia) fino al mutismo ed è evidente l’incapacità di riconoscere l’identità delle persone, anche dei familiari. Il paziente non è più autosufficiente per la perdita della memoria procedurale, ossia la capacità di eseguire le azioni automaticamente sia nelle attività strumentali che in quelle di base (igiene, alimentazione) della vita quotidiana.

Demenza a corpi di Lewy (Lewy Body Dementia, LBD)

Dopo la malattia di Alzheimer, la demenza a corpi di Lewy è il disturbo cronico degenerativo più frequente. L’eponimo deriva dal neurologo tedesco Friederich H. Lewy, che nel 1912 scoprì particolari agglutinazioni proteiche, definite in seguito corpi di Lewy, nella corteccia cerebrale di pazienti deceduti ed a cui era stata posta la diagnosi di morbo di Parkinson. Questa malattia infatti è caratterizzata da disturbi motori analoghi al morbo di Parkinson (rallentamento motorio o bradicinesia e rigidità muscolare) e da  un quadro demenziale di tipo alzheimeriano. La differenza fondamentale con la m. di Alzheimer risiede  nel fatto che nella LBD è presente sin dai primi stadi un quadro psicotico (allucinazioni visive spaventose o inquietanti e delirio generalmente di tipo persecutorio), mentre il decadimento cognitivo è secondario. Caratteristiche di questa malattia sono anche le fluttuazioni dello stato di attenzione e del livello di coscienza, per cui il paziente mentre è sveglio, attivo ed intraprendente poco dopo appare passivo, confuso ed insensibile ad ogni sorta di stimolo. Sono tipiche anche alterazioni comportamentali nel sonno: quando il soggetto è nella fase REM (ossia mentre sogna) la muscolatura non si rilassa, come normalmente avviene nelle persone sane, ed emette urla e compie movimenti bruschi per cui tende anche a ferirsi.

Da quanto è stato esposto si desume che la diagnosi di LBD non è agevole perché spesso è indistinguibile dal morbo di Parkinson o dalla m. di Alzheimer.

Demenze fronto-temporali (e Malattia di Pick)

Con il termine di demenze fronto-temporali  oggi si identifica un gruppo eterogeneo di demenze neurodegenerative, il cui contrassegno anatomopatologico è costituito da atrofia corticale confinata  nell'area frontale e temporale. Poiché il danno atrofico interessa zone diverse dell'encefalo si hanno differenti pattern sintomatologici: ad esempio, se l’atrofia corticale è rappresentata principalmente a livello temporale prevale il coinvolgimento del linguaggio mentre se l’atrofia è prevalentemente frontale vi è supremazia  dei disturbi dell’attenzione cui consegue un atteggiamento del paziente di marcata apatia. Per questa ragione si distinguono molteplici quadri clinici nell’ambito delle demenze fronto-temporali: afasia primaria progressiva, demenza semantica, demenza con amiotrofia, demenza e parkinsonismo, etc. L’elemento clinico che accomuna questo gruppo di malattie  è costituito dal fatto che i quadri di demenza progressiva fronto-temporale non sono dominati ab initio dalle turbe cognitive e della memoria, costanti invece nella malattia di Alzheimer.

Di queste demenze è capofila la malattia di Pick, così denominata dal nome di Arnold Pick, neurologo e psichiatra austriaco, che per primo la descrisse nel 1921. La malattia di Pick è molto più rara della malattia di Alzheimer, è più comune nelle donne rispetto agli uomini ed ha una insorgenza presenile: inizia di solito tra i 40 e i 60 anni, ma può verificarsi anche in ventenni. La m. di Pick ha una spiccata familiarità, talora intorno al 50% dei casi. Sotto il profilo anatomo-patologico è contraddistinta dalla presenza di caratteristiche alterazioni neuronali costituite dai corpi di Pick che sono inclusioni intracellulari composte da neurofilamenti, simili alle inclusioni osservate nella malattia di Alzheimer. I corpi e le cellule acromatiche di Pick, che istologicamente hanno un aspetto tipicamente rigonfio, contengono una quantità abnormemente elevata di proteina tau, che è normalmente presente in tutte le cellule nervose.

Sotto il profilo clinico, è caratteristica un'alterazione della personalità e del carattere con tipica abolizione dei freni inibitori, che è uno dei sintomi più inquietanti della malattia, per cui il paziente tende a comportarsi nel modo sbagliato in diversi contesti sociali, con agitazione progressiva e logorrea. La malattia peggiora lentamente con il progredire dell’atrofia nei lobi temporali e frontali del cervello e compaiono, unitamente ai disturbi del comportamento,  difficoltà di parola ed alterazione del pensiero. Anche questa forma di demenza presenile peggiora in modo rapido e costante fino ad un completo quadro demenziale; il paziente diventa totalmente disabile già nelle prime fasi della malattia per una marcata compromissione delle funzioni intellettive con turbe della memoria ed incapacità al contatto con la realtà esterna per perdita irreversibile dell’orientamento spaziale e precoce alterazione delle funzioni simboliche  cui consegue afasia, agnosia ed aprassia. A differenza però della malattia di Alzheimer, il soggetto con m. di Pick pur perdendo molto più rapidamente le proprie capacità espressivo-espositive, conserva più a lungo nel tempo quelle di lettura e di scrittura.

L'orientamento diagnostico verso la malattia di Pick o un’altra entità clinico-patologica di demenza fronto-temporale viene suggerito dalla comparsa di disordini della condotta sociale (comportamento inappropriato per disinibizione, disinteresse per la cura della persona, wandering  o deambulazione afinalistica: è un po' come se il paziente fosse una tigre in gabbia che cammina avanti ed indietro); disturbi dell’umore (bruschi cambiamenti di umore dall’apatia all’euforia); deficit intellettivi (cristallizzazione del pensiero, delirio, problemi di attenzione, e disordini di programmazione - sindrome frontale disesecutiva-) e disturbi neurologici (aumento del tono muscolare,  difficoltà di movimento e coordinamento, aprassia).

Demenza Vascolare (Vascular Dementia, VaD)

Analogamente al precedente,  anche con questo termine si designa un gruppo di demenze accomunate dalla patogenesi vasculopatica, che è responsabile del danno di tipo ischemico od emorragico, e dalla fenomenologia di un deterioramento cognitivo che insorge secondariamente all’evento ictale. Pertanto, perché si possa porre una corretta diagnosi di demenza vascolare è necessaria la antecedenza di un danno vascolare, cui abbia fatto seguito in immediata contiguità temporale il deterioramento cognitivo. La diagnosi differenziale con le demenze primarie  risiede nella rapidità di insorgenza del decadimento nonché nella variabilità del deterioramento cognitivo, essendo questo in dipendenza della sede e dell’entità della zona cerebrale lesionata. A differenza della malattia di Alzheimer vi è una ridotta consapevolezza della malattia ed inoltre si osserva  una migliore risposta alla riabilitazione. Per ultimo, va menzionato che in un 15 – 20 % dei casi di malattia di Alzheimer tendono a verificarsi contemporaneamente lesioni cerebrali ischemiche creandosi in tal modo una sovrapposizione di ambedue le patogenesi: è la cosiddetta demenza mista.

Per approfondire:Rischio demenza: gli effetti di TV e PC

Pseudodemenza depressiva

Nelle fasi iniziali della demenza, come è stato detto, si osservano costantemente sintomi depressivi; ma è altrettanto ben noto come l’alterazione del tono dell’umore comprometta le capacità cognitive del paziente. Infatti, nel DSM, nella stessa definizione di episodio depressivo maggiore, sono riportati tra i criteri: il rallentamento psicomotorio e la ridotta capacità di concentrarsi. Pertanto, ogni qualvolta si valuta un quadro di tipo demenziale o un deterioramento cognitivo di lieve entità in un soggetto anziano,  è essenziale porre una diagnosi differenziale con gli  episodi depressivi, per escludere che le alterazioni delle funzioni cognitive possano essere secondarie ad una depressione. Al riguardo, giova una attenta ricerca nell’anamnesi remota di eventuali antecedenti di una condizione depressiva. Nel paziente affetto da pseudo-demenza depressiva, una accurata osservazione clinica integrata dai test specifici della valutazione neuropsicologica metterà in evidenza solo una minore capacità attentiva ed un ridotto potere di concentrazione, con un quadro cognitivo in sostanza lievemente deteriorato. Va comunque sottolineato che circa il 50% di questi pazienti sviluppa una demenza irreversibile nell’arco di 5 anni.

Declino Cognitivo Lieve  (MCI)

Negli ultimi anni è stato introdotto il concetto di MCI ( Mild Cognitive Impairment ) che, per il vero, risulta alquanto problematico da definire e di conseguenza difficilmente inquadrabile sotto il profilo clinico. Si tratta in sostanza di uno stage di transizione fra la fisiologica riduzione delle prestazioni intellettive legate all’invecchiamento ed i  severi deficit prestazionali legati alla demenza. Secondo uno studio estensivo statunitense risulta che vi è un’incidenza di MCI tra il 12 ed il 18% della popolazione ultrasettantenne. L’MCI può interessare molti domini cognitivi (linguaggio, attenzione, ragionamento, etc.) ma peculiarmente si tratta di soggetti in cui le attività di base risultano conservate ed il quadro deficitario si esprime essenzialmente nell’ambito della memoria (cosiddetto MCI amnesico). Allorché siano coinvolti più domini, in realtà diviene molto discutibile se si tratti di MCI o piuttosto di una forma di demenza in evoluzione.  L’elemento saliente di differenziazione con la malattia di Alzheimer è costituito dall’assenza di incompetenza ecologica, ossia la progressiva incapacità del soggetto a svolgere le attività quotidiane. Deve comunque essere segnalato che i soggetti il cui profilo neuropsicologico soddisfa i criteri per la diagnosi di MCI hanno da 3 a 4 volte maggiori probabilità di sviluppare un quadro di demenza rispetto alla popolazione integra della medesima età. Va ancora sottolineato che al deficit di prestazione intellettiva del MCI  si associa di frequente una condizione di c.d. depressione dell’anziano, fortemente caratterizzata da autocommiserazione e svalutazione di se stesso per cui il soggetto presenta introversione e rifiuto del contatto sociale, che aggrava ulteriormente il quadro cognitivo.

Idrocefalo normoteso

Nel luglio 1965 Salomon Hakim, un giovane neurochirurgo colombiano, descrisse alcuni malati di demenza affetti da idrocefalo nei quali pose in correlazione la sindrome neurologica che essi presentavano, denotata da difficoltà progressiva nella deambulazione, alterazione delle funzioni mentali e incontinenza urinaria, con il quadro di dilatazione dei loro ventricoli cerebrali. Gli studi successivi hanno evidenziato che si tratta di idrocefalo comunicante, in cui la pressione intracranica è solo lievemente elevata, malgrado il notevole accumulo di liquido cefalorachidiano. Per questa la ragione l’idrocefalo dell’anziano, accompagnato da quella caratteristica triade sintomatologica, viene definito  “normoteso”. E’ una condizione patologica che colpisce prevalentemente il sesso maschile e, il più delle volte, tende ad essere primitiva; tra i fattori causali più invocati vi sono traumi, meningite ed emorragia sub-aracnoidea,  in ragione del fatto che il meccanismo patogenetico, sebbene non ancora definitivamente chiarito, si suppone legato ad un deficit di riassorbimento del liquido cerebrospinale da parte delle granulazioni del Pacchioni.

Caratteristici sono i disturbi del cammino, che rappresentano il segno più costante della sindrome; tale difficoltà è stata descritta come se il paziente sentisse i piedi incollati al terreno. Generalmente si tratta di una forma di atassia costituita da una marcia esitante a larga base d’impianto. Altro sintomo cardinale per la diagnosi è costituito dalla incontinenza urinaria, precoce ed abbastanza severa. Il paziente lamenta una urgenza minzionale che lo costringe a raggiungere il bagno velocemente, tentativo che spesso può fallire viste le difficoltà motorie. La demenza è invece relativamente lieve, non è precoce ed è contraddistinta da prevalenza dei deficit mnesici, rallentamento ideativo e fatuità del pensiero. Generalmente il danno delle funzioni cognitive è di entità fluttuante da un giorno con l'altro e nell’insieme è molto meno severo che nella demenza di Alzheimer; le abilità verbali sono conservate.

A conclusione di questo excursus sulla demenza, emerge che i sintomi di esordio che impongono di avviare un iter diagnostico o quanto meno un iniziale test di screening sono rappresentati da una difficoltà progressiva ad imparare nuove informazioni, a ricordare recenti conversazioni, eventi e appuntamenti, ad eseguire compiti complessi che richiedono numerose azioni, a mostrarsi stranamente poco riguardoso delle regole sociali di comportamento, a perdersi anche in luoghi che gli sono familiari, a trovare le parole che esprimano ciò che vuole comunicare, ad essere più irritabile e sospettoso del solito, a  riconoscere i volti familiari (prosopoagnosia).

Approccio diagnostico

Il percorso diagnostico per la demenza deve necessariamente vedere coinvolte le due figure del medico di famiglia, per la prima fase di screening, e del neurologo per la seconda fase di conferma e di diagnosi differenziale all'interno delle demenze. La prima fase di screening può essere gestita infatti in buona parte dal medico di famiglia, al quale compete non solo di formulare il sospetto diagnostico ma ancor più di escludere che un deficit cognitivo possa dipendere da malattie internistiche (iper/ipotiroidismo, insufficienza epatica, renale o respiratoria, diabete ed ipertensione arteriosa, etc.) oppure  da abuso di assunzione di alcoolici o di altre sostanze o da esposizione a tossici ambientali. Il più utilizzato strumento di screening è il Mini Mental State Examination (MMSE) di Folstein, validato su una popolazione di soggetti normali di età compresa fra i 60 ed i 75 anni.   Bisogna tenere presente che i test di screening non sono strumenti che permettono da soli la diagnosi di demenza, ma possono quantificare il livello di deficit cognitivo individuale del paziente e documentare la presenza di ridotte funzioni cognitive in più domini, indirizzando in tal modo il soggetto ad un rigoroso iter diagnostico per la demenza.

Diagnostica clinica

La diagnosi di demenza è prevalentemente una diagnosi clinica che, per  essere formulata correttamente, necessita di una diagnosi differenziale tra le varie forme. Infatti, quando si parla di  “sindrome demenziale” non si fa che un mero riferimento ad  un’associazione di sintomi e segni clinici, indipendentemente dalle cause che li  hanno prodotti. E’ nozione comune che la diagnosi “sindromica” di demenza iniziale è spesso tutt’altro che agevole in quanto la “soglia di percezione” di un lieve deficit cognitivo varia da soggetto a soggetto in rapporto al suo livello di scolarità.

Il primo step diagnostico deve consistere in un attento esame dello stato psicologico  del soggetto per escludere che si trovi in una temporanea condizione di demotivazione personale o di depressione, fattori che notoriamente incidono sul suo livello di attenzione e che potrebbero indurre alla erronea conclusione dell’esistenza di un deficit di memoria e di disturbo cognitivo.

Dopo questa prima essenziale valutazione, il soggetto in esame va inquadrato dapprima sotto l’aspetto neurologico stricto sensu ossia alla ricerca di eventuali sintomi focali quali disturbi motori, sensitivi, della coordinazione, etc. e successivamente si può procedere con l’esplorazione neuropsicologica dei processi cognitivi analiticamente considerati (percezione, attenzione, linguaggio, memoria, ragionamento, etc.). 

Anamnesi 

L’approccio clinico al paziente con sospetta demenza si fonda innanzitutto sulla ricerca di eventualiantecedenti  familiari e quindi su  un’attenta anamnesi patologica per scoprirvi la presenza di  fattori di rischio vascolari (ipertensione, diabete etc.), pregressi traumi, malattie infettive, malattie psichiatriche, abuso di assunzione di alcoolici o di altre sostanze. L’indagine anamnestica deve essere altresì orientata alla scoperta  di eventuali fattori esogeni,  quale l'esposizione a tossici presenti nell'ambiente di lavoro, che possano essere invocati quali elementi causali. Nel raccogliere l’anamnesi fisiologica è necessario procedere ad un inquadramento socio-comportamentale del soggetto nella maniera più esaustiva possibile (livello di scolarità, attività di lavoro, interessi, passatempi e hobby, pensionamento, abitudini di vita). E’ importante, infine,  desumere di quali disturbi il paziente si lamenti soggettivamente.

Il passo successivo deve consistere in un’intervista accurata  sui suoi familiari  che miri ad evidenziare quale tipo di cambiamento hanno notato e da quanto tempo è iniziato;  ciò è fondamentale per stabilire, con il loro ausilio, esattamente lo stato preesistente del soggetto.

Esame neurologico

Generalmente, nella quasi totalità  di pazienti con demenza iniziale,  l’esame neurologico è del tutto negativo o comunque privo di aspetti di specifica rilevanza clinica. Pur tuttavia, esso  va eseguito con grande attenzione alla ricerca di segni neurologici specifici (sindrome extrapiramidale, iperreflessia profonda, deficit focali, disartria etc.) che potrebbero fornire informazioni di particolare valore diagnostico sulla natura della malattia.

Valutazione neuropsicologica

Il momento topico dell’esame obiettivo del paziente con sospetta demenza si realizza nell’ambito della valutazione neuropsicologica. La Neuropsicologia clinica è, infatti,  la disciplina applicata che si occupa della valutazione e riabilitazione dei disturbi cognitivi insorti consecutivamente ad una lesione cerebrale vascolare o traumatica oppure ad un deterioramento intellettivo. La valutazione neuropsicologica si struttura attraverso il colloquio ed attraverso la somministrazione di test specifici.

Colloquio neuropsicologico

Il colloquio, innanzitutto, consente di verificare l’attendibilità dei dati dell’anamnesi e poi focalizza in maniera specifica le effettive possibilità cognitive del soggetto. La valutazione del linguaggio  è condotta inizialmente utilizzando temi discorsivi di carattere generale (nomi dei familiari, dei principali personaggi della vita pubblica, tasso di conversione lira-euro, eventi di stretta attualità) e successivamente individuando argomenti di dialogo di reale interesse per il paziente. Il colloquio è funzionalmente teso ad evidenziare la qualità della memoria episodica (molto più che della memoria a breve termine), la presenza di anomie, se esiste coscienza di malattia, se vi è difficoltà ad apprendere nozioni nuove e se sussistono alterazioni della sfera psichica quali depressione, deliri di persecuzione, allucinazioni uditive, etc.

Test neuropsicologici

I test neuropsicologici devono esplorare tutte le aree cognitive. E’ consuetudine di aprire le batterie di test con il già citato strumento di screening  MMSE (Mini Mental State Examination), che è di rapida e facile esecuzione ed ha il pregio  di dare un criterio valutativo di orientamento delle funzioni generali, per poi  procedere con l’accertamento analitico di  tutti i domini cognitivi alla ricerca di eventuali alterazioni.

Il MMSE è uno strumento ideato per valutare, in ambito clinico, le capacità cognitive del soggetto; la sua somministrazione richiede 10-15 minuti. È costituito da 11 item tramite i quali vengono valutate in modo semplice le varie funzioni cognitive, ed in particolare l’orientamento temporale e spaziale, la memoria immediata (memoria di fissazione o registrazione), l’attenzione e calcolo, la memoria di richiamo, il linguaggio (denominazione, ripetizione, comprensione orale, comprensione scritta e generazione di frase scritta), la prassia costruttiva.

Vengono poi somministrati test neuropsicologici specifici per indagare singole aree  quali: memoria a lungo termine (Racconto Babcock, Figura di Rey, Test di Crovitz Schifmann, Coppie associate di parole, etc.);  memoria a breve termine (Span cifre e cubi, Memoria Visiva Immediata, Dual Task); funzioni logico-astratte (Raven CPM 47, Wisconsin Card sorting Test, Analogie, Giudizi verbali); funzioni esecutive e frontali  (Stime cognitive, TMT, FAB, Fluenza verbale, etc.); attenzione (Stroop test, attenzione visiva); funzioni visuo-costruttive, visuo-spaziali e visuo-percettive (Test di riconoscimento dei volti, Test di Street, BORB, Test di orientamento di linee, etc.); linguaggio (Denominazione visiva, Costruzione di frasi, Token test, etc.); prassia (Prassia d’uso, Prassia ideo-motoria, Prassia bucco-facciale). Nel corso della somministrazione dei test per l’analisi dei processi cognitivi il soggetto deve essere sottoposto ad un’attenta osservazione clinica per valutare  l’occorrenza e l’entità degli aspetti emotivi (ansia e/o depressione), la cui presenza contribuisce al giudizio diagnostico finale.

Valutazione dello stato funzionale

Parallelamente alla valutazione cognitiva deve  essere effettuata quella funzionale chiedendo al soggetto e ai suoi famigliari come vengono gestite le azioni del vivere quotidiano, allo scopo di determinare se e di quale entità esista una riduzione delle capacità lavorative, sociali o relazionali dell’individuo per determinare le singole necessità assistenziali e l’applicabilità di programmi terapeutici e riabilitativi. E’ intuitivo come la riduzione funzionale sia in larga misura soggettiva, dipendendo dall’occupazione e dalle usuali abitudini e compiti della singola persona, per cui si fa ricorso a strumenti standardizzati con i quali si riesce a determinare in modo oggettivo la misura delle abilità di un individuo di portare a termine attività concrete ed a ricoprire ruoli sociali.  Al riguardo, dopo la loro validazione nel corso di studi clinici controllati, viene ampiamente adottato l'uso della BADL (Basic Activity of Daily Living)  per la valutazione delle attività di base della vita quotidiana e della IADL (Instrumental Activities of Daily Living), che indaga otto attività del vivere quotidiano. L’autonomia in queste abilità definisce la possibilità di un individuo di vivere in modo autonomo al proprio domicilio. Tuttavia BADL e IADL sono ambedue poco sensibili ai disturbi funzionali nelle fasi iniziali della demenza, per cui è stato introdotto il concetto di attività avanzate della vita quotidiana (Advanced Activity of Daily Living - AADL), che sono rappresentate da quelle più complesse ed impegnative (hobby,  partecipazione ad attività sociali o culturali e le attività ricreative, viaggi, etc.). Per fare in modo che la valutazione dello stato funzionale sia diretta e non indiretta, basata cioè sulle informazioni fornite dai familiari, si ricorre al  PPT (Physical Performance Test) e al DAFS (Direct Assessement Functional Scale) che consentono una osservazione oggettiva delle reali capacità dell’individuo ad espletare compiti standardizzati che mimano le funzioni di base e strumentali della vita quotidiana.

Per approfondire:Una buona dieta preserva la memoria negli anni

Diagnostica strumentale

Diagnosi: Si basa sulla clinica che deve sostanzialmente escludere la possibilità che la sindrome demenziale possa essere dovuta a cause trattabili (depressione, o sindromi, etc.). Prezioso è l’apporto del Neuroimaging fornito in prima istanza dalla TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), utile per misurare lo spessore degli emisferi cerebrali, ed ancor più dalla Risonanza Magnetica funzionale dell’encefalo (RMf), che consente di ottenere un’immagine della struttura del cervello molto particolareggiata includendo la perdita progressiva di materia grigia nel cervello, dal "mild cognitive impairment" fino alla malattia di Alzheimer conclamata.  Inoltre, la SPECT, che valuta il flusso del sangue nel cervello (ridotto nei pazienti affetti dalla m. di Alzheimer).

Indagini di laboratorio

Per escludere che una demenza, evenienza invero molto rara, sia secondaria a patologie somatiche, metaboliche, endocrinologiche, infettiveo a stati di intossicazione cronica è altamente raccomandatodi utilizzare gli esami di laboratorio di screening generale congiuntamente ad un accurato esame fisico. Quali test di laboratorio specifici, sono stati proposti numerosi markers biologici per la conferma della diagnosi di malattia di Alzheimer, fra cui i più studiati sono il livello della proteina tau e del frammento solubile della proteina precursore dell’amiloide nel liquido cerebrospinale anche se la loro utilità clinica resta tutto sommata alquanto dubbia. Parimenti avrebbero scadente valore diagnostico le indagini genetiche focalizzate sulla ricerca dell’apolipoproteina E.

Un esame  del liquor cefalo-rachidiano è sempre consigliabile, specialmente se il quadro demenziale esordisce prima dei 60 anni, così come nel caso di forme di demenza ad evoluzione rapida o atipica, in pazienti con malattie autoimmunitarie. Il liquor, nella maggior parte dei casi di Alzheimer, è normale; solo occasionalmente si dimostra un lieve aumento delle proteine. Un caso a parte è lo studio della dinamica liquorale in presenza di idrocefalo normoteso, per la cui diagnosi riveste ruolo prioritario la prova di sottrazione liquorale (Tap test) tramite puntura lombare.

Il tracciato elettroencefalografico è sempre raccomandato come esame di routine sebbene non offra un reperto caratteristico nelle demenze ed addirittura sia normale nelle fasi iniziali; ma negli stadi avanzati della malattia l’Elettroencefalogramma (EEG) fa generalmente rilevare un diffuso rallentamento del ritmo, con presenza di onde delta e theta.

Indagini neuroradiologiche (neuroimaging)

Il ricorso alla TAC o alla RM consente di individuare tout-court  sia patologie cerebrali che possono essere causa di demenza potenzialmente reversibile (ematoma subdurale, neoplasie, idrocefalo normoteso) che lesioni vascolari del tipo di infarti lacunari multipli o diffuse alterazioni ischemiche della sostanza bianca (malattia di Binswanger).  Ma le stesse indagini non sono altrettanto efficaci nel  confermare con certezza la diagnosi di malattia di Alzheimer in cui il quadro più caratteristico, ma solo nelle fasi più avanzate, è rappresentato dall'atrofia corticale temporo-parietale e dalla dilatazione dei ventricoli laterali. Ma è ben noto che un quadro di questo tipo è osservabile in molte altre forme di demenza ed anche in soggetti anziani non dementi. E’ ben ovvio quanto la Risonanza Magnetica sia di maggiore utilità diagnostica in quanto fornisce una migliore risoluzione di strutture piccole specificamente implicate nei processi mnesici, quali l'amigdala e l'ippocampo, ed inoltre consente di individuare piccoli infarti sottocorticali e alterazioni diffuse della sostanza bianca. Anche se non è di chiaro significato clinico, poiché tali reperti possono riscontrarsi anche in soggetti normali, una diffusa iperintesità del segnale nella sostanza bianca periventricolare è stata associata alla  m. di Alzheimer come elemento patognomonico. La RM funzionale, infine,  è di grande utilità nella diagnostica dell’idrocefalo normoteso in quanto consente lo studio della dinamica del flusso liquorale, che in questi casi è alterato o addirittura invertito.

La PET o tomografia a emissione di positroni (dall'inglese Positron Emission Tomography), a differenza di TC e RM che forniscono informazioni di tipo morfologico, consente di ottenere mappe dei processi funzionali cerebrali in quanto rileva particolari cambiamenti nel metabolismo cerebrale. Vengono utilizzati vari traccianti ad emissione di positroni per misurare differenti funzioni in specifiche aree cerebrali (metabolismo regionale del glucosio, il principale combustibile dei neuroni, flusso ematico regionale e metabolismo dell'ossigeno). L’aspetto estremamente interessante sotto il profilo diagnostico risiede nella peculiarità della PET che è in grado di rilevare anormalità metaboliche ancor prima della comparsa di manifestazioni cliniche di tipo demenziale. Per questa ragione, questa metodica di indagine è di particolare utilità nelle forme iniziali a sintomatologia lieve, nelle quali, come è stato già detto, il quadro TC o MRI può apparire completamente normale.

Nell'Alzheimer è stata dimostrata una diminuzione del metabolismo del glucosio e del flusso ematico nei lobi temporali e parietali; questa diminuzione può essere evidenziata prima che la malattia sia clinicamente evidente e la sua entità è proporzionale alla gravità della demenza. Inoltre,  con l'aggiunta del contrasto PiB vengono evidenziati i siti e le forme dei depositi di beta-amiloide nel soggetto vivente perché il marker radioattivo, il carbonio-11,  si lega selettivamente a questo tipo di depositi. Con il progredire della malattia in aggiunta ai lobi temporali e parietali si rileva l’interessamento anche di altre aree. La PET presenta nella demenza vascolare un quadro anche abbastanza patognomonico rappresentato da anormalità focali ed asimmetriche mentre nella malattia di Pick evidenzia una diminuzione del metabolismo del lobo frontale. E’ opinione unanime di una affidabilità della PET del 90% nella differenziazione fra un soggetto normale ed uno demente.

La SPECT (Single-photon emission computed tomography) è un'altra metodica di neuroimaging che con l’utilizzo di radionuclidi ad emissione gamma fornisce informazioni 3D sulle funzioni cerebrali sotto forma di strati in sezione trasversale che consentono di valutare il flusso cerebrale, attraverso le variazioni del metabolismo del glucosio. Anche se la sua accuratezza diagnostica è minore della PET, la SPECT è abbastanza utile per una diagnosi differenziale tra le varie forme di demenza ma lo è ancor più per distinguere un paziente affetto da demenza da un soggetto non demente.  Analogamente alla PET, la SPECT rivela nel 65% dei pazienti  affetti da Alzheimer una diminuzione precoce del flusso ematico in sede temporo-parietale, anche nelle forme in fase iniziale. Per questa ragione, si fa ricorso a queste due indagini di neuroimaging funzionale nei casi dubbi o quando è necessario differenziare una demenza vascolare o fronto-temporale da una malattia di Alzheimer.  

Per ultimo, occorre citare le procedure diagnostiche specifiche per l’idrocefalo normoteso, in aggiunta naturalmente alla TAC e alla RM nella sua variante “funzionale”. Il posizionamento intraventricolareo nello spazio  sub-durale di un sensore a fibre ottiche collegato ad un trasduttore elettronico di pressione consente una valutazione dinamica della pressione intra-cranica (PIC), che nell’adulto è di circa 10-15 mm Hg. Il monitoraggio della PIC per 24-48 ore fa rilevare, nel 10% dei casi di idrocefalo normoteso, un picco di pressione (con valore superiore a 20 mm Hg) prevalentemente notturno, della durata di qualche decina di minuti e che sarebbe la causa della progressiva dilatazione ventricolare. Altra procedura diagnostica in uso è il Tap Test che consiste nella sottrazione di 40-50 millilitri di liquor  dallo spazio subaracnoideo lombare. La positività al test è attestata da un immediato miglioramento clinico del paziente che però dopo un breve periodo ripeggiora; ciò consente non solo di confermare la diagnosi ma anche  di selezionare i pazienti con buone possibilità di miglioramento dopo il trattamento chirurgico con una derivazione liquorale che permetta la sottrazione continua del liquor e di conseguenza un duraturo miglioramento dei disturbi. Per ultimo va citata per il suo valore storico, anche se al presente  non vi è più completo accordo sulla sua reale utilità,  la cisternografia con radioisotopi.

Concludendo questo excursus sulle indagini strumentali, si può affermare che l’odierna disponibilità di metodiche di neuro-imaging sempre più raffinate fornisce dati suggestivi che consentono la stadiazione della demenza e la diagnostica differenziale fra le sue diverse forme, ma va ribadito che  la diagnosi consegue innanzitutto ad una corretta valutazione dal punto di vista clinico in un ben definito contesto anamnestico.

Decorso clinico

Le demenze sono caratterizzate da cronicità della durata media di una decade circa, con quadri evolutivi di  una certa variabilità, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, in dipendenza del loro tipo specifico e della “riserva cognitiva” che compete al singolo paziente. La malattia di Alzheimer, ad esempio, si  suddivide per convenzione in  una prima fase lieve cui fa seguito la fase

Intermedia o moderata e quindi la fase avanzata o severa ma il tempo di permanenza in ciascuna di queste fasi è variabile da soggetto a soggetto anche di diversi anni. Analogamente, la demenza vascolare è caratterizzata da un peggioramento progressivo del quadro clinico “a scalini” rappresentando ogni scalino un nuovo evento ischemico o emorragico, che non è in alcun modo pronosticabile in termini temporali. Come si vede, un decorso standardizzato in stadi clinici, sebbene utile a fini nosografici, è abbastanza poco predittivo nei casi concreti. Al riguardo, lo strumento maggiormente utilizzato in ambito clinico e di ricerca è la Clinical Dementia Rating Scale (CDRS). Nel decorso relativamente lungo delle demenze, peculiarmente  il paziente va incontro ad un deterioramento progressivo delle funzioni cognitive di entità tale da indurre alterazioni del comportamento, della personalità e del funzionamento sociale per cui, nelle fasi intermedie e avanzate, necessita di continua assistenza personale. Ciò implica un gravosissimo carico assistenziale da parte dei familiari per cui essi, non a caso, sono definiti la "seconda vittima" della malattia, rappresentando contemporaneamente il fattore precipuo che può arginare il ricorso all'istituzionalizzazione in una struttura residenziale (casa protetta). Per questa ragione nell'ambito della valutazione del soggetto affetto da demenza, in qualsiasi stadio della malattia, è buona norma procedere anche con una valutazione quali/quantitativa dei familiari istruendoli sia sul quadro clinico che sui  comportamenti più appropriati da assumere nelle varie fasi della malattia. Viene così a stabilirsi un equilibrio dinamico e complesso, in genere abbastanza resistente e che va a rimodularsi in seguito ad un aggravamento ulteriore delle condizioni del paziente. In genere, ciò che può costituire motivo di rottura dell’equilibrio assistenziale è l’insonnia ed il vagabondaggio notturno. Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva dello stato di salute.

Terapia delle demenze

Da quanto esposto fino ad ora emerge che la demenza, in ragione del suo pleomorfismo,  può essere variamente sottoposta a misure terapeutiche di maggiore o minore efficacia, ma  anche quando non è guaribile essa è comunque curabile, soprattutto con interventi non farmacologici. Ciò che è veramente indispensabile è che, durante il decorso della malattia, esistano punti di riferimento ai quali la famiglia possa costantemente appoggiarsi man mano che si pongono nuovi problemi. In un numero limitato di casi,  in cui la causa della demenza è una malattia reversibile (10-15%) c’è la possibilità di un ritorno alla normalità, grazie a interventi chirurgici o a opportuni trattamenti farmacologici. Negli altri casi inizia un percorso scandito dall’evoluzione della demenza lungo il quale è imperativo porsi obiettivi terapeutici specifici in grado di rallentarne la progressione e di migliorare alcuni dei sintomi più disturbanti. Coerentemente a questo obiettivo si deve porre in atto una globalità di interventi che mirano non solo al controllo dei deficit cognitivi  ed al miglioramento dello stato funzionale ma anche alla cura delle patologie sottostanti nell’ottica costante che, anche nel paziente più deteriorato, deve esserci sempre lo spazio e l’opportunità per migliorare le condizioni di vita. Valutiamo, pertanto, separatamente gli interventi farmacologici e quelli non farmacologici o riabilitativi.

Terapia con farmaci

Dobbiamo premettere che nel trattamento delle demenze i farmaci si utilizzano nell’intento di perseguire due finalità precipue: cercare di migliorare i disturbi delle funzioni cognitive oppure tenere sotto controllo quelle alterazioni del comportamento indotte dalla malattia quali l’agitazione, l’aggressività, l’insonnia e la depressione.  Allo scopo di interferire nel declino cognitivo, negli anni passati si è fatto ricorso a numerosi farmaci, senza però una comprovata efficacia terapeutica. Dopo che la ricerca scientifica negli U.S.A.  dimostrò che nel cervello dei malati affetti da Alzheimer vi è un livello insufficiente di acetilcolina, che è il neurotrasmettitore maggiormente coinvolto nella comunicazione tra le cellule nervose e che fisiologicamente viene degradata dall’enzima acetilcolinesterasi,  si è cominciato a far ricorso a farmaci inibitori dell’acetil-colinesterasi puntando a mantenere nel cervello una più elevata concentrazione di acetilcolina integra. Pertanto, uno dei cardini odierni della terapia dell’Alzheimer è incentrato sul meccanismo della neurotrasmissione colinergica attraverso il contrasto alla deplezione dell’acetilcolina mediante farmaci quali il donepezil, la rivastigmina e la galantamina.

Purtroppo gli inibitori dell’acetil-colinesterasi hanno una efficacia clinicamente evidente solo in un numero limitato di pazienti inferiore al 50% ed esclusivamente nelle forme di malattia di Alzheimer di gravità lieve-moderata, ossia essi sono del tutto inefficaci nelle altre forme di demenza e nella malattia di Alzheimer in fase grave.

Nei pazienti “responders” si possono osservare dei miglioramenti temporanei ed un rallentamento nella evoluzione della demenza. Va comunque ben tenuto in mente che il  loro uso non è esente da rischi per cui si richiede la costante sorveglianza da parte di  un medico specialista durante il periodo della terapia. Essendo stato evidenziato nell’Alzheimer anche un malfunzionamento della neurotrasmissione glutamatergica, che contribuisce sia alla manifestazione dei sintomi sia alla progressione della malattia nella demenza neurodegenerativa, è stata introdotta in terapia la memantina che rappresenta il capostipite di una nuova classe di farmaci per il trattamento della demenza.

Questo farmaco  si comporta dal punto di vista farmacodinamico come antagonista non competitivo del recettore postsinaptico dell'acido glutammico che viene indicato come NMDA in quanto prende il nome dalla molecola  dell’N-Metil-D-Aspartato, che ne modula l’attività di legame recettoriale col suo neurotrasmettitore primario ossia il glutammato. Attraverso l’azione inibente sul legame con l’acido glutammico la memantina riduce in pazienti con m. di Alzheimer gli effetti dei livelli patologicamente elevati di questo neurotrasmettitore, che sono causa di una disfunzione neuronale da  ipereccitazione post-sinaptica, dimostrandosi così in grado di indurre effetti statisticamente significativi per i domini cognitivi, globali e funzionali anche in fase moderata-severa della malattia.

Altri farmaci quali zolpidem, benzodiazepine, clorpromazina,  escitalopram,  etc., possono aiutare a contenere i problemi di insonnia, di ansietà o di agitazione e di depressione con l’imperativo di evitare farmaci con effetti potenzialmente dannosi sul sistema nervoso centrale, se non strettamente necessari. 

Interventi riabilitativi

Le strategie di trattamento multimodale della demenza prevedono oltre ai farmaci anche programmi di intervento riabilitativo basato non solo sulla psicologia cognitiva ma concepito secondo un approccio psico-sociale globale in grado di esercitare un’influenza anche sui sintomi non cognitivi, quali le alterazioni del ciclo sonno-veglia, gli aspetti emozionali, le turbe comportamentali e dell’alimentazione, e sul dominio funzionale attinente alle attività della vita quotidiana. L’effetto positivo di ciò, nei casi che rispondono al trattamento, si traduce in una reale possibilità di mantenere un più elevato livello di autonomia in grado di contrastare il progressivo deterioramento indotto dalla malattia. I programmi terapeutici non farmacologici hanno quindi lo scopo di sostenere ed attivare quelle funzioni mentali e fisiche non completamente deteriorate, intervenendo sulle potenzialità residue. Qui di seguito viene fornito un accenno a queste tecniche ponendo in evidenza che la loro efficacia è funzione di una accurata selezione dei pazienti in relazione al tipo e grado di  demenza.

1) La terapia di “riorientamento” nella realtà (ROT)

La ROT (Reality Orientation Therapy) costituisce l’approccio multi-strategico più diffuso, basato su una metodologia ideata da Folsom nel 1958 e successivamente sviluppata negli anni ’60, come tecnica specifica di riabilitazione per i pazienti il cui deterioramento cognitivo rende difficile il contatto con la realtà.Si fonda sulle teorie cognitive che si pongono l'obiettivo di modificare comportamenti maladattativi e di migliorare il livello di autostima del paziente facendolo sentire ancora partecipe di relazioni sociali significative e riducendone la tendenza all’isolamento. Questo intervento riabilitativo si prefigge in sostanza di “riprogrammare” il paziente per riacquisire l’attitudine ad orientarsi nel tempo e nello spazio, anche solo limitatamente all’ambiente in cui vive, e principalmente rispetto a se stesso ed alla propria storia. Questa terapia viene somministrata secondo una duplice modalità: informale, che è quella principale, e formale che svolge un ruolo complementare alla precedente. La ROT informale prevede un processo di stimolazione continua da parte di personale sanitario addetto,  durante i loro contatti col paziente, che viene proseguita dai familiari o caregivers, per il resto dell’intera giornata, consistente nello stimolare nel soggetto  l’orientamento nel tempo, nello spazio e sulle persone.

Mentre la ROT informale non ha un luogo dedicato ma viene somministrata ovunque il pazienti si trovi, diversamente la ROT formale  deve prevedere un setting  dedicato, ossia un contesto entro cui circoscrivere in modo stabile ed integrato l’attività riabilitativa, e che preferibilmente disponga di supporti audiovisivi. E’ una terapia  di gruppo che ha luogo con sedute giornaliere con 4-6 pazienti, eleggibili alla terapia solo se il loro livello di deterioramento sia di grado lieve o moderato, durante le quali un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata consistentein una sorta di chiacchierata di gruppo in cui egli dirige il dialogo fornendo i temi e dando la parola e i pazienti aggiungono informazioni a ciò che il terapista o gli altri hanno detto.

La ROT è una stimolazione iterativa del paziente rispetto alle coordinate spazio-temporali ed alla storia personale ed essendo peculiarmente fondata sul dialogo stimola la creazione e il consolidamento dei rapporti tra il paziente e i caregivers. La critica maggiore che è stata rivolta alla ROT concerne sia la sua efficacia nei soli casi contrassegnati da un grado lieve di compromissione cognitiva ma anche l’evidenza che ad un miglioramento nelle prestazioni cognitivenon corrisponda una ricaduta sul piano funzionale, ossia sul livello dell’autosufficienza  e sulle abilità quotidiane. Inoltre, è intuitivo quanto l’efficacia della ROT si debba considerare operatore-dipendente. 

2) Le terapie di stimolazione della memoria

La memoria, come già fu riconosciuto da  Aristotele, è una funzione essenziale per la elaborazione concettuale. Schematicamente si distingue in memoria a breve termine (working memory), che ci consente di mantenere l’informazione per un certo compito, svolto il quale può essere subito eliminata, ed in una memoria a lungo termine, che immagazzina e recupera le informazioni lontane nel tempo.

La memoria a lungo termine è a sua volta costituita da una forma esplicita o dichiarativa, che si identifica con la memoria del sapere, e da una forma implicita non dichiarativa che  rappresenta la memoria del fare. Espressioni della memoria del sapere sono la memoria autobiografica, relativa agli avvenimenti personali verificatisi nel corso della nostra vita; la memoria semantica enciclopedica, che racchiude le informazioni comuni agli individui appartenenti a una stessa cultura; la memoria prospettica che permette di programmare una azione da compiere nel futuro.

La memoria implicita non dichiarativa comprende a sua volta la memoria procedurale, che rappresenta la sequenza automatizzata dei comportamenti finalizzati a raggiungere uno scopo o a compiere una azione, e la memoria condizionata che ci consente di associare ad uno stimolo ambientale  una nostra azione, come intuito da Pavlov nell’elaborazione del concetto di riflesso condizionato.

Il disturbo della memoria caratteristico della demenza riguarda anzitutto la memoria a breve termine; poi, successivamente, la memoria autobiografica, lasciando relativamente intatta la semantica e la prospettica; la memoria procedurale può in determinati casi rimanere intatta per tutta la durata della malattia. Pertanto, con interventi cognitivi specifici si mira a riabilitare e compensare i deficit mnesici con l’utilizzo stereotipato e ripetitivo delle capacità residue a scapito di quelle parzialmente decadute in seguito alla patologia e tenendo conto della disintegrazione più lenta dellinguaggio rispetto ad altre funzioni.

Ciò viene attuato ottimizzando la memoria episodica residua e sfruttando la naturale tendenza dell’anziano a rievocare il proprio passato. La tecnica della reminiscenza trova il proprio supporto nella teoria psicodinamica ossia si fonda sul ruolo positivo che il ricordo di esperienze passate può svolgere sull’autostima, sul mantenimento dell’identità personale, sul contenimento dello stato depressivo.

Gli interventi diretti alla stimolazione si avvalgono di ausili esterni passivi (modificazioni ambientali e accorgimenti quali segnaposto, suonerie, etc. finalizzati all’orientamento spazio – temporale) e di ausili esterni attivi (accorgimenti che prevedono una gestione diretta e attiva del soggetto, come per esempio diari, finalizzati ad orientare nel tempo e nello spazio). Il memory training è un programma riabilitativo che si fonda sull’utilizzo della mnemotecnica caratterizzata dal recupero di una stessa informazione ad intervalli di tempo crescente (reinforcement) finalizzata all’identificazione di oggettied alla loro collocazione spaziale e contestualmente a creare un ordine mentale per memorizzare la programmazione di attività quotidiane. Il training nella fase strutturata è gestito da un terapeuta e si attua con gruppi di 4 – 5 soggetti, attraverso incontri della durata di 60-75 min., a frequenza bi-trisettimanale; nella fase non strutturata,  è affidato ai caregivers ed accompagna il soggetto per tutta la giornata. Elemento comune è quello di suddividere qualsiasi stimolazione  in sequenze per sottolineare l’aspetto procedurale delle attività evocate.

La riabilitazione della memoria, per ultimo, può transitare anche attraverso la stimolazione multisensoriale non verbale erogando stimoli inerenti la memoria visiva, uditiva, olfattiva, tattile e gustativa.

3) La Terapia di Validazione

Scopo di questa forma di terapia, proposta da Feil nel 1967, è di ingenerare nel paziente il convincimento che il suo mondo sia pienamente condiviso; condizione necessaria è che, attraverso l’ascolto da parte del terapista ed un valido contatto emotivo, si costruisca con lui un vero rapporto empatico grazie al quale egli veda accettati la sua realtà ed i suoi sentimenti.

Si deduce, pertanto, che  l’obiettivo di questa terapia non è quello di ricondurre il paziente nella realtà attuale. E’ in sostanza l’unica risorsa applicabile al paziente con decadimento moderato o severo, la cui scarsa riserva cognitiva rende del tutto inutile prospettargli il “principio di realtà”, ma penetrando “nel suo mondo” e condividendone sentimenti ed emozioni si possono  di conseguenza capire i comportamenti.

Vedendo “riconosciuti” i propri sentimenti il paziente può recuperare l’autostima e percepire di essere accettato come soggetto in grado di mantenere autonomamente relazioni interpersonali. In questo ambito trova particolare spazio la già citata terapia della Reminiscenza (rievocazione di momenti significativi della propria vita anche tramite l’ausilio di oggetti o fotografie) perché il ricordo e la nostalgia possono essere fonte di soddisfazione ed idealizzazione.

Al pari del ROT e del Memory training anche la terapia di validazione può essere applicata sia individualmente che in gruppi (5-10 partecipanti) che si incontrano regolarmente. L'incontro di gruppo, della durata variabile di 30-60 minuti, si articola abitualmente in fasi distinte in cui trova spazio la musica, l'esercizio motorio ed anche un coffe break le quali fungono da stimolo al dialogo. In tal modo il paziente è portato ad esternare la sua visione della realtà per la quale viene mostrata comprensione e partecipazione ed a cui si aggiungono coerenti elementi di discussione.

4) La terapia di Rimotivazione

Attraverso questa modalità di approccio cognitivo-comportamentale, che si applica individualmente o in gruppi, si punta a stimolare l’interazione sociale del paziente creandogli nuovi interessi che lo sollecitino a relazionarsi con gli altri attraverso la discussione su argomenti inerenti la realtà circostante. E’ intuitivo quanto questa tecnica si adatti a  pazienti con deficit cognitivo medio-lieve in grado di sostenere una conversazione. Scopo precipuo è quello di limitare la tendenza all’isolamento del paziente.

5) La Terapia occupazionale

Lo scopo principale della terapia occupazionale consiste nel fare in modo che il paziente, tramite una molteplicità di procedimenti orientati all’azione ed all’adattamento all’ambiente circostante, possa riacquisire il maggior grado possibile di autonomia ed indipendenza nella sua quotidianità, facendo leva sulla reminescenza ed i ricordi del passato. La terapia occupazionale, in relazione alle diverse attività svolte (laboratorio di cucina, di grafica, di artigianato, di arte, teatro e danza, etc.), attiva le capacità residue individuali e lo sviluppo dell’iniziativa personale, incrementando in tal modo l’autostima e motivando il paziente alla socializzazione per una condivisione di esperienze con gli altri.

Ma nel contempo esplica una complessa funzione riabilitativa perché stimolando la motricità fine che implica l’utilizzo delle mani migliora la coordinazione motoria; inoltre, stimolando i sensi attraverso la percezione visiva, la propriocezione (ossia la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio)  induce un miglioramento dei processi della memoria tramite i momenti rievocativi delle strumentazioni adoperate e delle azioni svolte. In questo contesto si inseriscono altresì le forme di attività artistica che hanno a comune denominatore l’utilizzo della simbologia.

L’Arte-terapia è una disciplina che, utilizzando le tecniche e la decodifica dell'arte grafico-plastica, attiva le risorse creative del paziente promuovendo la produzione di manufatti che diventano simboli comunicabili di pensieri ed emozioni. Analogamente la Dramma-terapia mira ad un miglioramento della qualità della vita attraverso il potere curativo del teatro, facendo rivestire al paziente ruoli che gli consentono una esplorazione guidata dei propri sentimenti e delle diverse possibilità di essere al mondo insieme agli altri. La Dance Therapy di gruppo aiuta le persone ad uscire dall’isolamento; nel contempo, il movimento ritmico allenta la rigidità muscolare, diminuisce l’ansia e aumenta l’energia, inoltre, il movimento creativo incoraggia l’auto-espressione e stimola nuovi modi di pensare e di fare. La Musico Terapia

attraverso il ruolo del suono e degli strumenti esplica un’attività terapeutica come forma organizzatrice del movimento, degli stati cognitivi ed emotivi.

In appendice alla terapia delle demenze con farmaci e con programmi di intervento riabilitativo, occorre menzionare brevemente la terapia neurochirurgica che viene adottata in caso di idrocefalo normoteso. Il solo trattamento ritenuto efficace è lo shunt, vale a dire l’applicazione di un catetere di drenaggio del liquor dal ventricolo laterale verso una cavità sierosa del corpo, generalmente il peritoneo. Negli ultimi anni, in virtù della sua minore invasività, si tende a trattare l’idrocefalo normoteso con la procedura alternativa della ventricolocisternostomia che consiste nel praticare mediante il neuro-endoscopio, introdotto attraverso  un piccolo foro della teca cranica, una comunicazione fra il pavimento del terzo ventricolo e gli spazi subaracnoidei che sono alla base dell’encefalo.

L'intervento neurochirurgico, nei casi accuratamente selezionati con diagnosi posta correttamente, ha maggiori probabilità di successo nei pazienti che manifestano una sindrome classica e nei quali i disturbi sono presenti da non più di un anno e sono relativamente lievi. La maggior parte delle casistiche indicano  una regressione della triade sintomatologica nel 40% dei casi idiopatici anche se le indagini neuroradiologiche (TC e RM encefaliche) spesso non mostrano eclatanti variazioni delle dimensioni ventricolari, pur in presenza di una scomparsa della sintomatologia. Le procedure chirurgiche  risultano del tutto inefficaci nelle dilatazioni ventricolari secondarie ad atrofia da involuzione senile del cervello.

Nell’ambito del follow-up del paziente affetto da demenza una particolare attenzione va prestata alle complicanze. Nelle fasi iniziali i rischi maggiori sono legati alla guida, al rischio di perdersi, agli infortuni domestici (uso del gas e degli elettrodomestici, conservazione dei cibi), all’uso improprio delle finanze. Nelle fasi più avanzate i rischi sono maggiormente legati alle funzioni di base (cadute, malnutrizione, disfagia, immobilità).

CONCLUSIONI

Tutto quanto è stato esposto in questa rassegna sulle demenze indica  che, malgrado l’evoluzione progressiva della malattia, c’è sempre lo spazio per fare qualcosa, perché il malato viva con dignità conservando una buona qualità di vita. I familiari in stretta alleanza con gli operatori sanitari devono assumere questo  imperativo come stella polare, creando  con pazienza, ottimismo, fantasia e versatilità le condizioni che contrastino le sopravvenute disabilità, adoperandosi a evitare al paziente ogni forma di stress, cui sono particolarmente vulnerabili, e situazioni di emarginazione, di solitudine e di perdita di relazioni affettive, perché la mancanza di stimoli sociali e culturali contribuisce in modo sostanziale ad impoverire la mente.

Va sempre tenuto ben presente che le terapie farmacologiche così come le metodiche riabilitative se non sono indicate per quel tipo di demenza ed in quella fase della malattia possono addirittura peggiorare i sintomi o suscitarne di nuovi. E’ compito del medico specialista  valutare il tipo di farmaco e la metodica di riabilitazione più indicata fra quelle disponibili perché  correttamente appropriata al singolo caso.

Ciò che solamente può consentire, nell’ambito di una condizione destinata ad una progressione inesorabile, qualche possibilità di successo è rappresentato da un approccio diagnostico approfondito in grado di condizionare una realistica definizione degli obiettivi raggiungibili attraverso le risorse farmacologiche e riabilitative di cui oggi si dispone. Elemento decisivo della efficacia degli interventi, infine, resta la capacità di osservazione e di comunicazione con il paziente che condiziona risultati altrimenti insperati che, se ancora non sono in grado di sconfiggere la malattia, rappresentano comunque il segno di una dedizione tenace al problema di chi soffre.


Revisione scientifica

Foto di Mauro ColangeloDr. Mauro Colangelo, Neurochirurgo

Articolo pubblicato il 28/09/2014 

 

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Data pubblicazione: 06 febbraio 2015

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