Omicidio Varani: giovani senza Padri
Nella notte tra giovedì 3 e venerdì 4 marzo 2016 Luca Varani è stato barbaramente ammazzato dai suoi amici Manuel Foffo e Marco Prato (28 e 29 anni). I due assassini dopo una nottata tra eccessi, droga e alcool, hanno deciso di “divertirsi” uccidendo qualcuno a caso: è toccato a un amico, chiamato dai due a partecipare alla loro “festa”.
«Avevamo il desiderio di fare del male a una persona qualsiasi. Questa cosa è maturata nelle nostre menti nella notte di giovedì». Queste le inquietanti dichiarazioni dei due giovani - ammesso che si possano chiamare “giovani” due trentenni - che hanno seviziato e ucciso un amico al puro scopo di svagarsi.
Dopo le torture, durate diverse ore e l’omicidio, i due sono usciti a bere, come se nulla fosse accaduto. I due killers si trovano ora in carcere a Regina Coeli.
La figura che però esce più malconcia da tutta questa assurda vicenda è quella del Padre, della norma, dell’istituzione che educa.
Il padre di Manuel, Valter Foffo, dopo poche ore dall’accaduto (7 marzo) è stato intervistato a Porta a Porta, la trasmissione RAI condotta da Bruno Vespa, dove ha dichiarato che il figlio «è un ragazzo modello» e che lui non è in grado di spiegarsi i motivi di un simile gesto.
L’altro genitore, Ledo Prato, padre di Marco, ha pubblicato una lettera aperta (11 marzo) nella quale divaga tra citazioni della bibbia e vaghe osservazioni moralizzanti dal tono lirico sulla propria condotta di genitore, sempre attento all’educazione del figlio: «esempio di una vita condotta ispirandosi ai valori dell’onestà, del rispetto della vita propria, e di quella altrui». Questo padre si domanda, infine, se «le colpe dei figli ricadano sempre sui genitori».
La risposta alla domanda del padre dell’assassino di Luca è abbastanza scontata: no, le colpe dei figli non ricadono sempre sui genitori. La domanda però è una domanda generica e non circostanziata. Ledo Prato non si è mai chiesto, almeno in questa lettera, se le colpe di Marco possano ricadere sull’educazione che lui, padre, ha impartito al proprio figlio. La risposta non l’abbiamo certo noi, ma non è così scontata e leggendo la lettera di questo padre, sembra che non l’abbia neppure lui.
Di fronte a tale efferatezza, a una simile mancanza di senso rispetto ad azioni così gravi, ci sono in realtà poche parole. La psicoanalisi, da tempo s’interroga sull’insensibilità e sulla mancanza totale di empatia di una larga fetta di gioventù contemporanea. Galimberti (2007) ritiene che il nichilismo giovanile a cui assistiamo sempre più spesso, derivi da un’incapacità a sentire. La nostra è una società del consumo, a modello capitalistico, dove la richiesta eccessiva di abilità percettive a discapito delle competenze emotive, o provoca ansia, o invece un innalzamento della soglia percettiva per via del quale ci sarà poi bisogno di stimoli sempre più forti per superare quella soglia, altrimenti questi non faranno più effetto. Il nostro sistema nervoso diventa sempre più apatico. Non sente più gli stimoli, c’è bisogno di un livello di eccitazione continuamente più elevato e sempre maggiore. Eppure siamo proprio noi stessi ad educare in questo modo i nostri figli: li prepariamo ad asservire; li rendiamo compatibili con la velocità di elaborazione in simultanea dei dispositivi tecnologici di ultimissima generazione.
I ragazzi di questa generazione, i cosiddetti “nativi digitali” sono sottoposti ad un eccesso di stimoli e così diventano iper-reattivi, ultra-percettivi. Il loro sentimento, di converso, appare atrofizzato. Mentre l’eccesso di stimoli che non riescono ad elaborare, ma solo a smistare, genera apatia che a sua volta può degenerare sempre più facilmente in psicopatia. Una psiche apatica significa che non sente più, che è diventata incapace di provare sentimenti. Privando i bambini e poi i giovani della possibilità di annoiarsi li stiamo già condannando a trasformarsi esseri privi del soggetto dell’inconscio e dunque privi di una psiche, di anima, incapaci di sentire. Agglomerati biologici asserviti alle logiche di efficienza produttiva della macchina del consumo. Persino la psicoterapia, in alcune sue forme, collude con questa logica di asservimento dell’uomo alla produttività, all’efficienza e all’efficacia, che Lacan (1972) ha ben descritto nel suo “discorso del Capitalista”.
Da un mondo governato da Padri padroni, tabù, divieti e sensi di colpa nevrotici, siamo passati in pochi decenni a una società priva di Legge, senza Padri, ove l’unica legge è il consumo sfrenato del proprio godimento.
La lettera del padre di Marco Prato, in quest’ottica, appare agghiacciante. Nessun riferimento alle vittime della tragedia, nessuna scusa, nessun dubbio, nessun pensiero empatico nei confronti del dolore causato da suo figlio al povero Luca e alla sua famiglia. Quell’incipit nella sua lettera, «Sono sempre io, nonostante tutto», è un inno al narcisismo, ove non c’è spazio neppure per parlare del proprio figlio, ma solo di sé stesso e della propria carriera.
Nessuno può ergersi a giudice e nessun genitore è un modello perfetto: certamente no. Ma non è questo il punto, e il nostro pudore nel parlare di figli, che pone ciascun genitore di fronte a una missione “impossibile”, come ricordava Freud, non esime ciascun genitore dalla propria pesante responsabilità. L’esempio della responsabilità è la premessa per un comportamento etico, come insegna Max Weber, ma ciò impone anche una riflessione dolorosa sulle mancanze. Un appello alla de-responsabilizzazione, come quello che si può leggere nelle parole di questo padre, è un modello che può condurre solo a figli de-responsabilizzati.
Il Padre che rinuncia ad esercitare il proprio ruolo di garante della Legge, si auto-confina in uno spazio autistico nel quale non vede più che sé stesso: «Posso farcela, lo devo alla mia famiglia tutta, ai miei parenti, ai miei tanti amici».
Il Padre - «In questi giorni in cui la stampa ha fatto a brandelli la vita di tre famiglie colpite, ciascuna in modo drammaticamente diverso, si sono letti giudizi sommari, verità parziali o di comodo» - diviene lui l’unico protagonista, è lui vittima, è solo lui a soffrirne, solo lui a pagarne le ingiuste conseguenze per “colpa” del figlio”: è sempre “solo lui, nonostante tutto”.
BIBLIOGRAFIA
- GALIMBERTI U. (2007), L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli
- LACAN J. (1972), Del discorso psicoanalitico, da “Lacan in Italia”, Salamandra, Milano, 1978
- WEBER MAX (1916,1919), L’etica della responsabilità, a cura di Paolo Volonté LA NUOVA ITALIA, 2000
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