Come le Neuroscienze cambiano i tribunali: RM funzionale e comportamento criminale
Il confine tra lo studio del cervello e le indagini giudiziarie si è spostato, ed è sempre più evidente come l’avanzare delle neuroscienze nelle aule dei tribunali stia portando a un’evoluzione dei metodi di indagine.
Con ovvi riscontri sul piano del diritto e su quello etico. La chiave interpretativa di questa evoluzione risiede nel grosso numero di informazioni che l’azione congiunta di biologi, psicologi e neurologi ha saputo fornire negli ultimi anni sul funzionamento del cervello. E questo sia grazie allo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate che ad un’applicazione più mirata di tecnologie già note sulle problematiche recenti.
Alla base, il principio secondo cui i nostri comportamenti e le nostre scelte sono strettamente legati a stimoli chimici e fisici, su cui la scienza sta lentamente facendo chiarezza, e che non possono perciò più essere lasciati fuori delle aule durante i processi e gli iter giudiziari.
Oggi grazie all’avanzamento delle neuroscienze possiamo permetterci di immaginare, per esempio riguardo alle condizioni di persone in stato neurovegetativo, scenari molto diversi da quelli anche solo di pochi anni fa e l’apertura di nuovi fronti di discussione.
È di qualche settimana fa il tweet con cui Adrian Owen, uno dei massimi esponenti della ricerca dei canali di comunicazione con persone allo stato vegetativo, invita alla lettura del suo ultimo paper.
Il testo del tweet “Può un paziente in stato vegetativo risolvere problemi di ragionamento logico? Uno, ora, sì” si riferisce al risultato di anni e anni di studio durante i quali, seguendo passo passo la degenza di alcuni pazienti, ha dimostrato di poter leggere le loro risposte studiando il comportamento del loro cervello dopo aver indotto le domande.
Aggiungendo un mattone in più alle conoscenze sulla determinazione dello stato di coscienza, ossia a quella branca delle neuroscienze che si occupa di capire cosa percepisce una persona quando non è più in grado di comunicare e si applica nell'elaborazione di strumenti sempre nuovi per accertarlo e approfondirlo.
In particolare, i metodi di Owen porterebbero il paziente a immaginare diversi scenari, rintracciabili sulla mappa dell'attività cerebrale, variabili a seconda della risposta che il paziente intende dare, per esempio, immaginare un piacevole contesto sportivo e di gioco nel caso della risposta "sì", uno scenario di affaticamento e dolore nel caso della risposta "no".
“La tecnica che usa Owen, e che tanti usano, è la Risonanza Magnetica funzionale o fMRI”, ci spiega Giuseppe Sartori, neuropsicologo all’Università di Padova “una specie di scanner per il cervello con cui le risposte neurali dei pazienti vengono identificate direttamente sullo schermo di un computer”.
E che, come Owen conferma anche con i suoi risultati più recenti, consente di definire coscientemente consapevoli alcuni pazienti sottoposti al trattamento, suggerendo che la fMri possa essere un metodo valido per rilevare attività residue di ragionamento e possa essere anche applicata per studiare altri aspetti cognitivi.
“Alcuni pazienti che non davano segno di poter comunicare in alcun modo, hanno dimostrato invece un’attività cerebrale complessa, del tutto simile a quella di soggetti sani”
Così spiega Sartori, che tra i possibili scenari futuri di congiunzione tra neuroscienze e giustizia prevede l’utilizzo di questa tecnica nel processo decisionale giudiziario su casi di stato vegetativo persistente.
Sul piano scientifico, l’fMri è solo una delle tecnologie in stadio più avanzato e oggetto di discussione, la maggior parte delle quali fa parte del settore del neuroimaging, ossia, la visualizzazione di possibili microalterazioni cerebrali nei pazienti.
Perché è questo il versante più coinvolto nel discorso tra integrazione tra neuroscienze e giustizia?
“Diversamente dalle malattie neurologiche”, spiega Sartori: “che il neuroradiologo riesce a identificare visivamente, poiché portano a conseguenze sul sistema nervoso che possiamo leggere anche a occhio, nel caso delle malattie psichiatriche le variazioni tissutali sono minime, e sfuggono alla lettura visiva. C’è bisogno quindi di tecniche quantitative, che permettano cioè di misurare per mezzo di algoritmi matematici le caratteristiche delle diverse aree del cervello”.
Impiegate da tempo in campo clinico per studiare le alterazioni cerebrali in presenza di masse tumorali, queste tecniche aiutano a studiare le diversità del cervello associato a comportamenti anomali, nella sua morfologia e organizzazione, rispetto a un cervello sano.
Ed è per questo che il neuroimaging è sempre più usato, soprattutto nel campo della criminologia, dove ha permesso di scoprire, per esempio, che gran parte dei soggetti che commettono reati d’impeto presentano alterazioni nel lobo frontale, cioè nelle porzioni anteriori del cervello.
Tra le tecniche di imaging ormai entrate ampiamente nel tessuto giudiziario c’è la morfometria basata sui voxel, che permette di rilevare variazioni anche minime nella massa e nella densità del tessuto cerebrale e localizzarle con precisione.
Ma esistono anche metodi per analizzare la connettività delle aree del cervello, come per esempio l’utilizzo del tensore di diffusione, che guarda da vicino i percorsi compiuti dagli assoni dei neuroni e consente un controllo dell’integrità della comunicazione nervosa, traducendo visivamente il risultato.
Anche se quest’ultima non sembra ancora essere ancora effettivamente operativa in tribunale. Alla domanda se i risultati di queste analisi costituiscano una prova, Sartori risponde:
“Si tratta di metodi di indagine al pari di tutti gli accertamenti neurologici e psichiatrici. Non sono mezzi diagnostici, ossia non sono risolutivi come per esempio il test dell’Hiv, che certifica la presenza o meno del virus. Danno risposte”, conclude “che coprono un numero limitato di aspetti, e vanno perciò inserite in un quadro più complesso”.
Risulta quindi chiaro che questi mezzi, usati in modo isolato, non possano fungere per la certificazione della verità processuale, bensì debbano essere integrati alle altre fonti di indagine.
Ma i loro punti di forza sono ormai troppo evidenti per poter essere ignorati.
“Un esempio importante”, spiega Sartori: “è quello in cui il presunto colpevole di un reato simula un disturbo psichico per ottenere dei vantaggi processuali. In questo caso lo studio del cervello ci aiuta moltissimo, perché permette di affermare se le caratteristiche fisiologiche del cervello corrispondono o meno al sintomo manifestato”.
Ma c’è un obiettivo ancora più ambizioso per le neuroscienze, il cosiddetto neurofeedback, ossia il tentativo di ripristinare, in seguito alla loro identificazione, le parti di cervello con anomalie associate a comportamenti criminali.
E questo punto di vista riabilitativo del criminale apre certamente a una rivisitazione delle strategie psichiatriche tradizionali. Risulta chiaro che l’applicazione dei metodi neuroscientifici in ambito giudiziario debba essere profondamente ponderata e che non si possa pretendere che essa diventi la chiave risolutiva di tutti i dubbi decisionali. Allo stesso tempo, è opportuno che nelle questioni di diritto se ne tenga conto e che si operi di volta in volta una calibrazione sulla base delle evidenze.
Questo in Italia, così come nel resto d’ Europa, sta succedendo. Un caso a parte meritano invece gli Stati Uniti, dove i meccanismi dei processi in parte ostacolano l’uso di queste tecniche proprio per le stesse modalità processuali. Negli Usa, infatti, diversamente che in Italia, è il giudice che decide se una prova può entrare o meno nel processo.
E uno dei motivi per bloccare la prova è il suo elevato potere di convincimento della giuria, che potrebbe esserne troppo influenzata. È il caso della fMRI, vietata dai tribunali di molti stati americani poiché reputata di fornire agli occhi della giuria immagini troppo affascinanti, suggestionandola e portandola a credere che queste forniscano più informazioni rispetto a quello che obiettivamente dicono.
Riferimenti: