Perdita di motivazione e di energia: il Disturbo Depressivo
Caratteristiche centrali, funzionamento e trattamento della problematica più frequente dopo quelle cardiovascolari: il Disturbo Depressivo
1. PREMESSA PER IL LETTORE
Nel presente articolo si offrirà una panoramica del funzionamento e del trattamento del Disturbo Depressivo.
L'argomentazione proposta si inserisce all'interno di una cornice neurobiologica e cognitivista.
Tesi che si rifanno ad una differente prospettiva di analisi non verranno qui affrontate in quanto al di fuori delle competenze teorico-applicative dell'autore.
Si invita pertanto il lettore a riconoscere i limiti della presente trattazione, che non sarà esaustiva del fenomeno che intende presentare.
2. COS'È LA DEPRESSIONE
La Depressione rappresenta un cambiamento episodico del normale funzionamento psicologico dell’individuo, che porta la persona a vivere esperienze interne altamente spiacevoli e di difficile gestione.
Il termine viene spesso utilizzato in modo inappropriato per indicare condizioni di breve durata di svogliatezza, di tristezza, di stanchezza o di noia. Ciò che tuttavia permette di differenziare tali comuni stati psico-fisici da uno stato episodico di depressione è l’intensità e la durata della sintomatologia.
In gergo clinico, al contrario, si parla di Depressione per riferirsi all'Episodio Depressivo, un periodo di tempo circoscritto di almeno 2 settimane durante il quale la persona riporta almeno cinque dei seguenti sintomi (di cui almeno uno dei primi due deve essere presente):
- Umore depresso
- Riduzione del piacere per la maggior parte delle attività quotidiane
- Riduzione o aumento significativo del peso corporeo o dell'appetito
- Riduzione o aumento del sonno
- Agitazione o rallentamento nei movimenti
- Senso costante di fatica e di assenza di energia
- Auto-svalutazione ed auto-colpevolizzazione
- Difficoltà nel pensare, nel concentrarsi o nel prendere decisioni
- Pensieri ricorrenti di porre fine alla propria esistenza
Tali sintomi appaiono riconducibili all’alterazione del funzionamento di quattro distinti sistemi neurobiologici:
- Sistema emotivo
- Sistema neurovegetativo
- Sistema cognitivo
- Sistema motorio
Le alterazioni a livello del sistema emotivo si esprimono mediante vissuti di tristezza, umore depresso, irritabilità, perdita di interesse per le attività che un tempo erano compiute con entusiasmo e soddisfazione (anedonia), e sensazioni di vuoto emotivo (apatia). Nei bambini possono presentarsi inoltre vissuti di forte rabbia verso gli altri o verso se stessi.
Le alterazioni a livello del sistema neurovegetativo si esprimono solitamente mediante disturbi del sonno, aumento/riduzione del senso di fame e costante stanchezza.
Le alterazioni a livello del sistema cognitivo si manifestano invece in uno stile di pensiero pessimistico caratterizzato da auto-svalutazione (es., “Non sono buona a far nulla”), auto-colpevolizzazione (es., “E' tutta colpa mia. Non merito di essere felice”), perdita della capacità di prospettarsi un futuro positivo (Hopelessness), pensieri e/o intenzioni suicidare (es., “Sarebbe meglio per me farla finita”), riduzione delle capacità attentive e di concentrazione, come pure difficoltà nel prendere decisioni.
Infine, le alterazioni a livello del sistema motorio si manifestano attraverso un comportamento agitato o un rallentamento nei movimenti.
Un’altra importante distinzione è da compiersi a livello diagnostico tra l’Episodio Depressivo e il Disturbo Depressivo; nel primo caso i sintomi descritti sopra possono essere dipendenti dalla presenza di una condizione medica generale (es., Sclerosi Multipla) o di un altro disturbo mentale (es., Disturbo Bipolare); nel secondo caso, invece, la sintomatologia costituisce la manifestazione clinica di uno specifico disturbo psicologico. Tale articolo vuole offrire una descrizione di quest’ultima condizione psico-emotiva.
Poiché la diagnosi può essere compiuta esclusivamente laddove si presentano sintomi evidenti dell’alterazione di ciascuno dei sistemi neurobiologici sopra descritti, ogni persona alle prese con un Disturbo Depressivo può sviluppare una combinazione di sintomi che, nel suo complesso, appare unica e distintiva, richiedendo pertanto un trattamento specifico e individualizzato.
3. STATISTICHE
3.1. INCIDENZA
In base ad uno studio prospettico condotto sul finire degli anni ’90 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), era stato ipotizzato che intorno al 2020 il Disturbo Depressivo avrebbe rappresentato la seconda causa di disabilità nel mondo (Murray et Lopez, 1996). Tale previsione si è concretizzata già a partire dal 2012, rendendo oggi il Disturbo Depressivo il disturbo più diffuso dopo quelli cardiovascolari.
Durante il corso della vita, è stato stimato che ciascuna persona sia esposta ad almeno 5-6 episodi di riduzione dell’umore in parte simili a quello depressivo, sebbene alcune caratteristiche – durata, gravità, sensazione di perdita del controllo del proprio stato emozionale – si presentino solamente in 1/3 dei casi (Nolen-Hoeksema et Girgus, 1995). Più nello specifico, la probabilità media di andare incontro ad un Disturbo Depressivo è stata fissata intorno al 16% (Kessler et al., 2003).
Ogni anno la depressione colpisce circa 322 milioni di persone (4.4% della popolazione mondiale); di questi, il 9% appartiene al continente Africano, il 16% alle regioni del Mediterraneo Orientale, il 12% all’Europa, il 15% alle Americhe, il 27% al Sud-Est Asiatico mentre il 21% al Pacifico Occidentale (GHDE, 2015).
Tra le differenti categorie sociali, quella degli artisti è stata stimata essere la categoria più a rischio, con un’incidenza 10 volte superiore a quella che presentano persone appartenenti ad altre categorie sociali.
3.2. PREVALENZA
In Italia il fenomeno interessa circa 2,8 milioni di persone (ISTAT, 2018), rappresentando il disturbo mentale più diffuso nel territorio nazionale.
3.3. ASSOCIAZIONE CON ALTRI DISTURBI
Numerosi sono i disturbi che possono presentarsi associati (comorbilità) a quello depressivo. Tra questi, i più diffusi sono i Disturbi dello Sviluppo Neuronale, i Disturbi D’Ansia ed i Disturbi Da Abuso Di Sostanze.
Nei bambini e negli adolescenti il Disturbo Depressivo tende a presentarsi associato ad un’altra psicopatologia nel 50% dei casi. Nello specifico, le comorbilità più frequenti risultano quelle con i Disturbi D’Ansia (40%), i Disturbi del Comportamento (30-60%), i Disturbi Dell’Apprendimento (30%), i Disturbi Da Abuso di Sostanze (20-30%), il Disturbo Da Deficit Di Attenzione e Iperattività (15-30%), l’Enuresi e l’Encopresi (15%).
Diversamente, negli adulti il Disturbo Depressivo si associa principalmente ai Disturbi D’Ansia (es., Disturbo D’Ansia Generalizzata) e ai Disturbi da Stress (es.., Disturbo da Stress Post-Traumatico) (Watson, 2009). Si riscontrano altresì studi che indicano come nei 2/3 dei casi il Disturbo Depressivo tenda ad essere preceduto (Kessler et al., 1998) o a precedere (Moffit et al., 2007) un Disturbo D’Ansia.
3.4. ESORDIO
Il disturbo può insorgere a qualunque età lungo l’arco della vita, seppure con una differente sintomatologia.
Negli infanti di età compresa tra i 6 e gli 8 mesi, la presunta depressione conseguente alla separazione materna è stata associata a ritiro interiore, ad un’espressività facciale fissa e amimica, alla perdita di peso, alla disregolazione del sonno, all'insorgenza di numerose malattie e infezioni e, nei casi più gravi, alla morte prematura (Spitz, 1965).
Nei bambini in età prescolare la depressione può associarsi alla perdita/ritardo nell’acquisizione delle principali tappe di sviluppo (es., controllo degli sfinteri), alla riduzione dei comportamenti esplorativi ed alla riduzione del bisogno mangiare e dormire.
In età scolare il disturbo tende a manifestarsi invece con una sintomatologia più simile a quella dell’adulto (es., autocritica), accompagnandosi a sintomi psico-somatici (es., mal di testa) ed a comportamenti aggressivi e/o rischiosi (Wenar et Kerig, 2000).
Diversamente, in adolescenza i sintomi più tipici appaiono il progressivo isolamento e ritiro scolastico, le difficoltà nella sfera delle relazioni interpersonali, le preoccupazioni per l’aspetto fisico e l’incremento dell’ideazione suicidaria (quest’ultima accompagnata o meno da comportamenti autolesionistici o da tentativi di suicidio).
Comuni si mostrano altresì la riduzione dell’investimento in attività svolte in precedenza con interesse e soddisfazione (anedonia), l’apatia, le alterazioni del sonno e dell’appetito, il rallentamento dell’attività psicomotoria e linguistica, e l’uso di sostanze a scopo auto-terapeutico.
Da alcuni studi sembra possibile rintracciare altresì una differenza relativa al genere: la popolazione femminile appare più incline a sviluppare sintomi quali ansia, alterazioni del sonno e dell’appetito, preoccupazione per l’immagine corporea, sentimenti di fallimento ed ideazione suicidaria; la popolazione maschile appare invece più soggetta a sintomi di anedonia e variazioni dell’umore, accompagnate da una maggiore prevalenza di ideazione suicidaria e maggiori tentativi di suicidio. Tuttavia, gli studi mostrano anche come, con il progredire dello sviluppo, nella popolazione maschile la sintomatologia tenda a diminuire in misura significativa rispetto alla popolazione femminile, permanendo principalmente sotto forma di scarsi risultati scolastici.
In base ai campioni statunitensi, si stima inoltre che circa il 20-40% dei bambini ed adolescenti alle prese con un Disturbo Depressivo sviluppi entro 5 anni dal suo esordio anche un Disturbo Bipolare.
3.5. DECORSO
In assenza di trattamento, la fase acuta del Disturbo Depressivo (ossia l’Episodio Depressivo) ha una durata compresa tra i 4 e i 12 mesi. Al termine di tale periodo, la sintomatologia si riduce in misura significativa in 2/3 dei pazienti, permanendo principalmente sotto forma di difficoltà legate al sonno (Dunlop et Nemeroff, 2009).
Tuttavia, data l’alta probabilità di ricaduta (35-65%) nei 6 mesi successivi alla cessazione dei sintomi (WHO, 2017), il Disturbo Depressivo viene considerato un disturbo a decorso cronico. Nello specifico, si stima che, in assenza di trattamento, la probabilità di ricaduta ammonti al 50% dopo il primo episodio depressivo (Kessler et al., 2005) e al 70-80% dopo due o più episodi depressivi (Segal et al., 2013), un dato allarmante se si considera che circa il 50% delle persone alle prese con il disturbo non riceve alcuna forma di trattamento (González et al., 2010).
In aggiunta, sembra che quote stimate intorno al 20% presentino un andamento cronico anche quando opportunamente seguite terapeuticamente (Muller et a., 1999). Ad esempio, uno studio ha mostrato che, a distanza di 2 anni dall’esordio del Disturbo Depressivo, l’8% dei giovani che aveva ricevuto un trattamento presentava ancora alcuni sintomi del disturbo (Goodyer et al., 2003). A spiegare il mantenimento di tale sintomatologia sembra essere il ruolo di specifici fattori ambientali (es., contesto familiare). In generale, tra i principali fattori che sono stati associati ad un maggiore rischio di ricaduta si trovano i seguenti:
- presenza pregressa di sintomi depressivi gravi e invalidanti
- presenza pregressa di almeno 3 episodi depressivi
- esordio precoce del disturbo
- presenza di altri problemi psicologici
- familiarità per il disturbo
- problemi medici cronici
- disturbi del sonno persistenti
- presenza di sintomi depressivi sotto la soglia di rilevanza clinica
- assenza di supporto sociale (meno di 2 relazioni supportive stabili)
- stile di pensiero negativo
- strategie di gestione emotiva basate sulla ruminazione
- presenza di fattori stressanti in corso
4. COME FUNZIONA IL DISTURBO
L’ambito di studio delle Scienze Neurobiologiche e delle Scienze Cognitive ha prodotto nel corso degli anni diverse ipotesi per spiegare la presenza dei sintomi del Disturbo Depressivo, ciascuna delle quali ha provato a descrivere il funzionamento della mente depressa attraverso la lente concettuale della propria prospettiva di studio.
Le ipotesi che ad oggi godono di maggiore supporto empirico sono quelle riconducibili alla prospettiva neurochimica, comportamentista e cognitivista.
4.1. PROSPETTIVA NEUROCHIMICA
I ricercatori che appartengono a questa prospettiva di studio hanno prodotto una serie di evidenze che ad oggi permettono di supportare tre distinte ipotesi: l’ipotesi monoaminergica, l’ipotesi dopaminergica e l’ipotesi neurogenica.
Le tre ipotesi non si escludono a vicenda e possono altresì essere integrate con quelle prodotte all’interno delle altre prospettive di studio. Tuttavia, rispetto a queste ultime, le ipotesi neurochimiche appaiono più in grado di spiegare l’insorgenza dei Disturbi Depressivi di natura endogena, ossia dipendenti principalmente da fattori interni di natura biologica, piuttosto che da fattori interni di natura psicologica e/o da fattori esterni di natura ambientale.
4.1.1. IPOTESI MONOAMINERGICA
Sviluppata a partire dagli anni ’60, l’ipotesi riconduce lo sviluppo del disturbo alle alterazioni presenti nella trasmissione della Serotonina e della Noradrenalina comunemente riscontrate nei pazienti depressi (Maes et Meltzer, 1995). Secondo tale modello, la Serotonina e la Noradrenalina, in virtù dei loro effetti nella regolazione e sostentamento dei numerosi processi cognitivi (es., attenzione) ed emozionali (es., risposte di stress), rappresenterebbero i principali agenti implicati nella determinazione delle alterazioni dei diversi sistemi neurobiologici interessanti il disturbo.
A riprova dell’ipotesi monoaminergica vi sarebbero le numerose evidenze derivanti dagli studi neurochimici (Meyer et al., 2006), farmacologici (Thase et Howland, 1995), post-portem (Roy et al., 1989) e psicofisiologici, in particolare quelli inerenti le alterazioni del sonno REM (Nofzinger et al., 2004).
Nonostante le diverse evidenze, non è chiaro a quale livello cerebrale sia possibile circoscrivere l’alterazione nella trasmissione di questi neurotrasmettitori. Si pensa tuttavia che il complesso di neuroni noto come “formazione reticolare” rappresenti la regione più interessata nel disturbo, in quanto vera centralina della trasmissione di queste monoamine nelle diverse porzioni del cervello.
Un’alterazione nel funzionamento della formazione reticolare potrebbe infatti spiegare la presenza delle alterazioni nell’attività delle regioni cerebrali maggiormente interessante all’interscambio con questi agenti neurochimici, come la Corteccia Cingolata Anteriore subgenuale (ACCsg), una struttura del cervello implicata nel rilevare eventuali discrepanze tra il risultato atteso e quello ottenuto, da molti considerata la sede principale del disturbo.
Allo stesso modo, un’alterazione di questo complesso di neuroni potrebbe dare ragione della presenza delle alterazioni della Corteccia Prefrontale Dorso-Laterale (DLPFC) riscontrate in chi soffre di un Disturbo Depressivo (Fales et al., 2008), essendo questa regione fortemente influenzata dalle monoamine per le sue funzioni nella presa di decisioni, nel controllo delle emozioni e nel coordinamento delle azioni finalizzate al raggiungimento dei propri obiettivi personali.
Nello specifico, è stato ipotizzato che un’alterazione nel rilascio di monoamine a livello della DLPFC potrebbe agire riducendo la sua capacità di modulare il grado di attività delle regioni sottostanti, prime tra tutte l’amigdala e l’ippocampo, ad oggi considerate regioni fortemente implicate nei processi emozionali.
In breve, la ridotta attività della DLPFC, prodotta dall’alterazione nella trasmissione monoaminergica, impedirebbe all’amigdala e all’ippocampo di spegnersi una volta attivate da stimoli interni (es., pensieri negativi) o esterni (es., eventi spiacevoli).
Nelle prime fasi del disturbo, questo porterebbe la persona a rimanere esposta per periodi prolungati a esperienze emotive negative particolarmente intense (es., ansia e cambiamenti repentini dell’umore), per poi andare incontro ad un periodo di completa apatia derivante dallo spegnimento fisiologico delle aree rimaste fino a poco tempo prima iperattive.
Come tutte le ipotesi, anche quella monoaminergica non è priva di limiti, primo fra tutti l’incapacità di dar conto del motivo per cui gli agenti farmacologici che incrementano la trasmissione di Serotonina e Noradrenalina nel cervello impieghino dalle 2 alle 4 settimane per produrre apprezzabili effetti antidepressivi.
Recentemente, tali evidenze hanno indotto i ricercatori ad apportare numerose modifiche alle ipotesi originarie, maggiormente incentrate sul ruolo che la Serotonina (Lapin et Oxenkrug, 1969) e la Noradrenalina (Schildkraut, 1965) potevano avere nello sviluppo del disturbo.
Nel complesso, i sostenitori dell’ipotesi monoaminergica si mostrano oggi più propensi ad abbracciare l’ipotesi che vede il disturbo risultante dalla complessa interazione tra più sistemi di neurotrasmissione.
Tuttavia, resta aperta la possibilità che alcune forme del Disturbo Depressivo possano dipendere da alterazioni specifiche nella trasmissione della Serotonina (es., marcata tendenza all'impulsività e a condotte suicidarie) o della Noradrenalina (es., marcati sintomi ansiosi) (Dunlop et Nemeroff, 2009).
4.1.2. IPOTESI DOPAMINERGICA
Sebbene la relazione presente tra il Disturbo Depressivo e la Dopamina sia tutt’oggi poco chiara, le evidenze scientifiche lasciano aperta la possibilità che le manifestazioni depressive con caratteristiche psicotiche (es., allucinazioni visive e uditive) o catatoniche (es., rigidità degli arti e dei movimenti) possano dipendere rispettivamente da una iper-attività e da una ipo-attività dei sistemi dopaminergici (Dunlop et Nemeroff, 2007). Tuttavia, allo stato attuale non sussistono prove sufficienti per poter confermare o sconfermare tale ipotesi.
4.1.3. IPOTESI NEUROGENICA
Nata all’interno del modello diatesi-stress per spiegare il meccanismo mediante cui i farmaci antidepressivi svolgono la propria funzione terapeutica, l’ipotesi riconduce lo sviluppo del Disturbo Depressivo ad una condizione cronica di stress.
Analogamente all’ipotesi monoaminergica, anche l’ipotesi neurogenica ipotizza che l’iperattivazione di specifiche strutture del cervello (es., amigdala) sia alla base dell’emergere del Disturbo Depressivo. A differire rispetto alla prima tesi, tuttavia, sarebbe il differente ruolo imputato dalla teoria neurogenica al circuito neurobiologico deputato a rispondere ai diversi stimoli attraverso una risposta di stress.
Si ipotizza infatti che, nelle persone predisposte a sviluppare il Disturbo Depressivo, l’alterazione di questo circuito spieghi l’iperattività cerebrale comunemente riscontrata nelle prime fasi dell’emergere del disturbo (Frodl et al., 2003).
In condizioni normali, la risposta di stress viene sostenuta da un’attivazione a cascata di diverse strutture, tra le quali si trovano l’amigdala (implicata nel rilevare stimoli interni o esterni di chiara rilanza per l'organismo) e il circuito che comprende l’ipotalamo, l’ipofisi e la porzione corticale della ghiandola surrenale (deputato a rilasciare nel corpo l’ormone dello stress per eccellenza, il Cortisolo). La secrezione di Cortisolo da parte dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA) viene quindi interrotta da un complesso meccanismo a feedback coinvolgente tra le altre strutture anche l’ippocampo (presiede funzioni di codifica, consolidamento e recupero delle informazioni dalla memoria).
Ora, essendo l’amigdala in grado di dare avvio all’intero processo grazie alle sue connessioni dirette con l’ipotalamo, la facilità con la quale i diversi stimoli potrebbero attivarla (nelle persone predisposte al disturbo) porterebbe il circuito a divenire sempre più attivo. Va da sé che tale attivazione diventi tanto più durevole quanto più frequentemente la persona si esponesse a situazioni per lei vivibili come facilmente stressanti.
L’iper-attivazione cronica del circuito HPA, che così si andrebbe a produrre, porterebbe nel tempo alla progressiva neurodegenerazione dell’ippocampo, impedendo conseguentemente al sistema di spegnersi sotto l’influsso del meccanismo a feedback sopra esposto.
Come risultato finale, il continuo rilascio di Cortisolo porterebbe alla progressiva neurodegenerazione dell’HPA e dell’amigdala, comportando la condizione di “esaurimento nervoso” solitamente lamentata dai pazienti nella fase acuta del disturbo. In breve, si passerebbe da una prima condizione di iper-attivazione del cervello, tipica di molti Disturbi D’Ansia, ad una condizione di progressivo spegnimento cerebrale, tipica delle fasi avanzate del Disturbo Depressivo, in modo analogo a quanto avanzato dall’ipotesi monoaminergica.
Partendo da tali premesse, l’ipotesi neurogenica afferma dunque che l'efficacia dei farmaci antidepressivi sarebbe strettamente legata all'azione che questi avrebbero nell'inibire gli effetti neurodegenerativi imputabili alle condizioni croniche di stress sopra descritte (Duman et al., 1997). Come tale, l'effetto di riduzione della sintomatologia depressiva avverrebbe non tanto a seguito dell'incremento della trasmissione monoaminergica, quanto a motivo della promozione della crescita di nuovi neuroni a livello dell'ippocampo e della Cortecca Prefrontale, spiegando in tal modo il ritardo negli effetti terapeutici in funzione del bisogno di questi neuroni di svilupparsi, di maturare e di divenire funzionanti.
Nonostante oggigiorno si stiano accumulando sempre più evidenze a favore di tale tesi (Dunlop et Nemeroff, 2009), l’ipotesi neurogenica non spiega se i fenomeni neurodegenerativi siano la causa o la conseguenza del Disturbo Depressivo. Si ipotizza pertanto che l’ipersensibilità agli eventi stressanti ambientali costituisca un fattore di rischio per lo sviluppo di specifiche forme di Disturbo Depressivo.
4.2. PROSPETTIVA COMPORTAMENTISTA
In base alla prospettiva comportamentista, il Disturbo Depressivo sarebbe riconducibile ad una ridotta esposizione della persona a stimoli capaci di dare piacere e soddisfazione (ricompensa) (Skinner, 1953), come pure all’incremento dell’esposizione della stessa a stimoli capaci di dare dispiacere e insoddisfazione (punizione) (Costello et Lazarus, 1972).
Secondo alcuni studiosi aderenti a tale prospettiva (Lewinsohn et al., 1973), la possibilità che una persona possa vedersi riconosciuta nelle condizioni sopra esposte viene supposta dipendere da:
- scarse abilità sociali
- ambienti a basso potenziale di rinforzo e alto potenziale di punizione
- elevata sensibilità personale alle punizioni
4.3. PROSPETTIVA COGNITIVISTA
Le teorie che all’interno della prospettiva cognitivista hanno avuto più successo per spiegare il funzionamento del Disturbo Depressivo sono l’ipotesi della triade cognitiva (Beck, 1967) e l’ipotesi dell’impotenza e della depressione Hopelessness (Abramson et al., 1989). A queste verrà aggiunta nel presente articolo la più recente ipotesi cognitivo-motivazionale della depressione (Rainone et Mancini, 2004).
4.3.1. IPOTESI DELLA TRIADE COGNITIVA
Secondo Beck, alla base del Disturbo Depressivo vi sarebbe la presenza di specifici “schemi cognitivi” depressogeni.
Schema cognitivo è il termine utilizzato in psicologia cognitiva per descrivere in termini concettuali la struttura della mente umana. Secondo tale prospettiva, la mente potrebbe essere considerata analoga ad un sofisticato computer in quanto:
- riceve le informazioni che provengono dal mondo interno ed esterno (percezione);
- analizza tali informazioni (attenzione);
- attribuisce loro un significato (interpretazione) in relazione alle informazioni contenute al suo interno (memoria) e agli obiettivi che stiamo perseguendo (scopi);
- predispone la risposta che meglio potrebbe permetterci di raggiungere tali obiettivi (comportamento).
Su un piano funzionale, lo schema esprime così quella componente della struttura mentale che, contenendo le conoscenze di cui disponiamo su un dato argomento, viene coinvolta per riconoscere immediatamente ciò che stiamo vivendo, dando a questo vissuto un nome ed un significato. Possiamo quindi intendere gli schemi come dei piccoli raggruppamenti di conoscenze su noi stessi, sugli altri e sul mondo che la mente attiva in automatico quando ha bisogno di comprendere rapidamente ciò che ci sta capitando.
Non esistono schemi che risultino in sé patologici, in quanto ciò presupporrebbe l’esistenza di forme di conoscenza che risultino certe e universali. Esistono tuttavia schemi che, contenendo conoscenze poco realistiche su di noi, sugli altri e sul mondo, è facile che portino a vedere irrealizzati i propri obiettivi. Sarebbero tali schemi ad essere “disfunzionali”, in quanto contenenti convincimenti:
- rigidi, inflessibili e poco permeabili ad informazioni invalidanti
- generici, astratti e poco aderenti alla realtà concreta della persona
- frustranti, in quanto di ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi
Nel caso specifico dell’ipotesi della triade cognitiva proposta da Beck, viene ipotizzato che il disturbo insorga in presenza di convincimenti disadattivi riconducibili a tre distinte classi di schemi:
- Schema del Sé
- Schema del mondo
- Schema del futuro
Secondo l’autore, tali schemi verrebbero acquisiti nella prima infanzia a seguito di esperienze caratterizzate da traumi da separazione e/o stili di accudimento rifiutanti (es., genitori trascuranti), andando a rappresentare un importante fattore di rischio per lo sviluppo del Disturbo Depressivo.
A seguito di eventi di vita particolarmente stressanti (es., perdita del lavoro), infatti, questi schemi potrebbero venire riattivati nell’età adulta, portando la persona ad interpretare tali eventi sulla base delle credenze disfunzionali relative al Sé (es, “Se fossi stato più competente non avrei perso il lavoro. Sono proprio un incapace!”) al mondo (es., “Lo sapevo! Era tutto troppo bello per essere vero! Nella vita ci si deve sempre aspettare la fregatura!”) e al futuro (es., “Non riuscirò a trovare nessun altro lavoro come quello che ho perso. La mia vita è rovinata!”).
Una volta attivati, gli schemi continuerebbero a rimanere attivi a motivo del mantenimento di un atteggiamento mentale caratterizzato dai cosiddetti “bias” o “distorsioni” o “errori” cognitivi, ossia modalità di pensiero tendenti a confermare, più che sconfermare, la validità delle credenze disfunzionali della triade (Rainone et Mancini, 2004).
Tra gli errori cognitivi inizialmente identificati dall’autore si trovano i seguenti:
- Trarre erroneamente una conclusione senza affidarsi ai fatti (deduzione arbitraria).
- Astrarre da una situazione soltanto informazioni specifiche (astrazione selettiva).
- Trarre erroneamente una conclusione generale da una situazione specifica (ipergeneralizzazione).
- Sovrastimare (ingigantire) o sottostimare (minimizzare) la gravità di un evento.
- Pensare erroneamente in “bianco e nero” o in modo dogmatico (pensiero dicotomico o assolutistico).
- Associare erroneamente l’esito di un evento a proprie caratteristiche personali (personalizzazione).
- Assumersi erroneamente la colpa per l’esito di un evento (tendenza a darsi la colpa).
Come tutte le ipotesi, anche quella della triade cognitiva presenta dei limiti, quale ad esempio la difficoltà che è stata riscontrata in ambito di ricerca nel riscontrare i convincimenti irrazionali degli schemi depressogeni nelle fasi precedenti all’emergere del Disturbo Depressivo. Tale limite lascia così aperta la questione di fondo se i convincimenti irrazionali ipotizzati dall’autore siano una causa o la conseguenza del disturbo (Rainone et Mancini, 2008).
4.3.2. IPOTESI DELL’IMPOTENZA E DELLA DEPRESSIONE HOPELESSNESS
Nata dalla riformulazione della teoria dell’impotenza appresa (Seligman, 1975) e della teoria dell’attribuzione delle emozioni (Weiner, 1985), l’ipotesi dell’impotenza e della depressione Hopelessness (Abramson et al., 1989) riconduce l’emergere di alcuni sintomi caratteristici del Disturbo Depressivo (es., demotivazione, tristezza, perdita di energia) alla presenza di una vulnerabilità cognitiva specifica per tale disturbo, rappresentata dalle aspettative negative circa il futuro e le proprie capacità, e una modalità pessimistica di spiegare a se stessi la presenza di eventi positivi o negativi.
In merito alle aspettative che gli autori ipotizzano poter rappresentare un fattore di rischio per l’emergere del disturbo, un ruolo di primo piano giocano:
- l’aspettativa che eventi molto desiderati non si realizzeranno e che eventi molto indesiderati si realizzeranno (Hopelessness)
- l’aspettativa che nessuna azione possa essere compiuta per impedire l’irrealizzabilità di ciò che si desidera e la realizzabilità di ciò che non si desidera (impotenza appresa)
In aggiunta a tali aspettative negative, gli autori ipotizzano che uno stile di pensiero tendente a ricondurre fallimenti a caratteristiche generali e stabili della propria persona (locus of control interno, stabile e generale) e i successi a contingenze ambientali specifiche (locus of control esterno, instabile e specifico) possano costituire altresì un ulteriore fattore di rischio cognitivo per il Disturbo Depressivo.
In presenza di tale vulnerabilità, sarebbe sufficiente per la persona affrontare un evento stressante e particolarmente negativo (es., venire lasciati dal partner), o il non vivere una situazione altamente desiderata (es., non essere contraccambianti da una persona amata), perché si vedano confermate le proprie aspettative negative, sperimentando:
- un senso di disperazione e perdita di speranza verso il futuro, all’idea che niente di buono potrà mai verificarsi (es., “Capiterà la stessa cosa anche in futuro”);
- un senso di rassegnazione e impotenza, all’idea che niente possa essere compiuto per modificare la situazione in corso (es., “Non troverò nessuna donna che sia disposta ad amarmi”);
- un senso di fallimento, auto-svalutazione o di colpa, all’idea di essere la vera causa delle proprie sventure (es., “Il problema sono io. Non sono degno di ricevere amore dagli altri”).
4.3.3. IPOTESI COGNITIVO-MOTIVAZIONALE
Nata all’interno del panorama cognitivista italiano, l’ipotesi cognitivo-motivazionale (Rainone et Mancini, 2004) vede il Disturbo Depressivo come un blocco nel normale processo di accettazione di una perdita, sia essa relativa ad una persona, ad un animale, ad un oggetto a qualcosa di astratto (es., ruolo sociale).
A partire da tale processo, gli autori affermano che molti dei sintomi del Disturbo Depressivo potrebbero venire meglio spiegati da un blocco in una più delle prime tre fasi del processo, aspetto quest'ultimo che impedirebbe alla persona di arrivare all’accettazione della perdita.
Tra i fattori che Rainone e Mancini (2018) ipotizzano alla base del blocco nella reazione depressiva si trovano:
- l’atteggiamento mentale assunto tanto nei confronti della propria persona, ritenuta incapace e/o meritevole della sofferenza provata (es., “È tutta colpa mia. Merito di stare così male”), quanto nei confronti dei vissuti emotivi (es., dolore), cognitivi (es., pensieri di perdita) e fisiologici (es., stanchezza) che tipicamente si presentano a seguito della perdita, valutati nel loro insieme come catastrofici e/o inaccettabili ed utilizzati quali prove delle proprie aspettative/credenze disfunzionali circa il sé, il mondo e il futuro;
- la tendenza a reagire a tali vissuti attraverso comportamenti disfunzionali, quali l’utilizzo di sostanze psicotrope a scopo auto-medicativo (es., alcol, cocaina), i tentativi di sopprimere tali vissuti imponendosi altri stati mentali e/o emotivi più accettabili (es., “Non devo abbattermi, devo sorridere”), il continuare a pensare alle cause e alle dinamiche che hanno portato all’evento negativo (rimuginazione), il ripensare a quanto è stato perduto e a tutti i momenti del passato in cui quest’ultimo era presente (ruminazione), etc;
- la presenza di un progetto esistenziale articolato attorno al raggiungimento di pochi obiettivi di vita;
- la presenza alti standard normativi, ossia convinzioni circa i diritti che una persona ritiene di possedere e i doveri a cui ritiene di dover sottostare.
Come tutte le ipotesi che fino a qui sono state proposte, anche quella di Rainone e Mancini presenta dei limiti, primo tra tutti la difficoltà di dar conto dei Disturbi Depressivi cosiddetti “endogeni”, ossia non reattivi ad una perdita, ma dipendenti probabilmente da fattori interni di natura biologica.
5. COME TRATTARE IL DISTURBO
Ad oggi sono presenti diversi studi che mostrano come gli interventi disponibili riescano a ridurre la sintomatologia del Disturbo Depressivo nell’80-90% dei casi (APA, 2010).
Rifacendosi alle linee guida promosse dall' Istituto Nazionale per la Salute e l'Eccellenza nella Cura inglese (NICE guidelines CG90, 2009), è possibile identificare due tipologie di interventi di provata efficacia sperimentale: la terapia farmacologica e la terapia psicologica.
Entrambe le terapie hanno pregi e difetti. Se infatti la terapia farmacologica si mostra più utile per ridurre la fase acuta del disturbo, minore efficacia sembra avere nel lungo periodo per prevenire la ricaduta depressiva (Reinmherr et al., 2001). Al contrario, la terapia psicologica appare meno utile nelle fasi più intense del disturbo, a motivo di uno stato generale di inibizione nelle capacità di pensiero su cui poggia per produrre i suoi effetti terapeutici; tuttavia, per stati sintomatologici meno pervasivi, gli studi mostrano come siano minori le quote di pazienti che vanno incontro ad una ricaduta depressiva al termine del trattamento (WHO, 2017).
L’insieme di tali evidenze invita dunque a ritenere la combinazione di entrambe le forme di terapia una valida via da seguire per migliorare gli esiti terapeutici (Licinio et al., 2017), soprattutto durante la fase acuta del disturbo (Hollon et al., 2002) e nei casi in cui i sintomi fossero più severi (Hollon et al., 2014).
5.1. TERAPIA PSICOLOGICA
Le linee guida NICE indicano la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) e la Psicoterapia Interpersonale (IPP) come le terapie psicologiche d’elezione per il trattamento della fase acuta del Disturbo Depressivo, e la Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness (MBCT) il trattamento di prima linea per la prevenzione della ricaduta in pazienti con una storia di almeno 3 Episodi Depressivi. Tra le altre forme di provata efficacia sperimentale si annovera anche la Terapia Psicodinamica Breve per l’adulto e la Terapia sistemico-familiare per i minori.
In linea con la formazione dell’autore, si procederà di seguito a descrivere il razionale alla base della TCC adattata per il Disturbo Depressivo.
5.1.1. TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
All’interno del vasto panorama di interventi cognitivo-comportamentali che negli ultimi anni sono stati proposti per ridurre la sintomatologia del Disturbo Depressivo, la Terapia Cognitivo Comportamentale di Beck è da tutti considerata il gold standard di riferimento, in quanto forma d’intervento nata appositamente per il trattamento del Disturbo Depressivo e per la quale sono state prodotte il maggior numero di evidenze di provata efficacia sperimentale.
Il protocollo originario prevede 16 sedute individuali della durata di circa 1 ora, benché la realtà clinica mostra solitamente tempi più dilatati rispetto a quelli proposti nella letteratura scientifica. Tale prolungamento si deve spesso alla necessità di individualizzare la terapia sulla base delle caratteristiche individuali del paziente, impedendo in tal modo che la rigidità di un protocollo, costruito principalmente per valutare l’efficacia della terapia nella riduzione dei sintomi depressivi, forzi il paziente a sottostare ad una metodologia troppo distante dalle sue reali necessità, solitamente ben più distanti della semplice riduzione sintomatologica.
Nel complesso, il protocollo prevede il ricorso a specifiche tecniche cognitive e comportamentali, tutt’oggi in uso dai clinici che utilizzano la TCC per il Disturbo Depressivo, quali:
- la psicoeducazione, ossia insegnare al paziente i principi di base della TCC e il modello concettuale adottato per comprendere il funzionamento psicologico del disturbo;
- l’attivazione comportamentale, ossia concordare insieme al paziente la ripresa graduale delle attività che un tempo erano svolte con piacere, integrandone con nuove e più appetibili;
- l’identificazione dei pensieri disfunzionali, ossia insegnare al paziente delle specifiche strategie per riconoscere quali siano i pensieri ricorrenti associati al suo disagio, ed i convincimenti disfunzionali relativi al Sé, al mondo e al futuro che ne mantengono l’insorgenza;
- l’identificazione degli “errori cognitivi”, ossia insegnare al paziente a riconoscere le modalità di ragionamento distorte che mantengono i convincimenti della triade cognitiva;
- la ristrutturazione cognitiva, ossia aiutare il paziente a mettere in discussione con se stesso i pensieri e le convinzioni negative identificate in precedenza.
5.2. TERAPIA FARMACOLOGICA
Qualora il paziente non stesse assumendo alcun tipo di terapia, le linee guida NICE suggeriscono come farmaci di prima linea per il trattamento del Disturbo Depressivo gli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI). Tra i principali si trovano i seguenti:
- Fluoxetina (es., Prozac, Fluoxetil, Fluoxeren)
- Sertralina (es., Zoloft, Tatig, Serad)
- Citalopram (es., Elopram, Seropram)
- Escitalopram (es., Cipralex, Entact)
- Fluvoxamina (es., Dumirox, Fevarin, Maveral)
- Paroxetina (es., Daparox, Sereupin, Seroxat)
Gli studi mostrano come tali famarci siano in grado di ridurre la sintomatologia nel 50-70% dei casi (Nemeroff et Schatzberg, 1998), benché quote stimate intorno al 40% ne interrompe l’assunzione durante il primo mese di trattamento (Olfson et al., 2006), presumibilmente a motivo degli effetti collaterali da essi provocati (Thase et Rish, 1997).
Gli SSRI presentano infatti effetti avversi a livello gastrointestinale (es., dissenteria, emorragia), cardiovascolare (es., prolungamento dell’intervallo QT), sessuale (es., disinteresse sessuale) ed emotivo (es., vissuti spiacevoli). Appare dunque necessario informare il paziente di quali potrebbero essere gli effetti collaterali di ciascun farmaco proposto e quando questi potrebbero insorgere. A tal proposito, si renderebbe necessario discutere con il paziente circa gli effetti intrusivi che potrebbero presentarsi in caso di:
- problemi medici o fisici concomitanti
- ingestione dell'erba di S.Giovanni
- utilizzo di alcol
- fumo di sigaretta
- utilizzo di sostanze d’abuso e/o farmaci da banco
- gestione irregolare della terapia
6. CONCLUSIONI
Il Disturbo Depressivo rappresenta la problematica psicologica più diffusa in Italia e nel mondo. All’interno delle Neuroscienze Affettive e delle Scienze Cognitive sono state proposte diverse ipotesi esplicative il funzionamento di questo disturbo che hanno provato ad integrare la grande mole di evidenze scientifiche ad oggi disponibili circa la neurobiologia del Disturbo Depressivo.
Sulla base di tali ipotesi sono nati modelli d’intervento che hanno dimostrato di essere efficaci nel ridurre tanto la sua fase acuta, quanto la possibilità di andare incontro a successive ricadute.
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