Mindfulness: definizione, utilizzo ed efficacia
Mindfulness: una pratica di meditazione che, incrementando la percezione del momento presente, permette di ridurre lo stress, prevenire le ricadute depressive, migliorare la sintomatologia del colon irritabile e ridurre la fatica cronica associata alla sclerosi multipla.
PREMESSA PER IL LETTORE
La concezione stessa della Mindfulness appare assumere un significato differente a seconda della prospettiva di riferimento a cui ci si rifarebbe per la sua definizione. I sostenitori di un approccio radicalista alla Mindfulness considerano questa pratica come una filosofia di pensiero, un’ideologia, un modo continuativo di vivere la propria vita e di rapportarsi con quanto proveniente dal proprio mondo interno ed esterno. In tale ottica, la Mindfulness non potrebbe essere assimilabile ad una semplice tecnica, in quanto di per sé la pratica non sarebbe che un breve estratto di una vita interna votata alla contemplazione del momento presente.
Diversamente, i sostenitori di un approccio integrazionista alla Mindfulness considerano la pratica come una tecnica esperienziale integrabile o meno nella propria routine, praticabile con più o meno costanza in vista del raggiungimento dei propri obiettivi personali. Questo presupporrebbe un utilizzo strategico della pratica che consentisse altresì di mantenere una filosofia di pensiero diversa da quella promossa dagli approcci radicalisti.
Riconoscendo le motivazioni sottese ad entrambi gli approcci, chi scrive presenterà la Mindfulness secondo un’impostazione personalizzata, che come tale non potrà non rifarsi alla personale e costante riflessione teorica e alla sua pratica in prima persona. Laddove possibile, si cercherà di attenersi in modo quanto più fedele possibile ai risultati scientifici emersi in questo settore di ricerca, che vanta ad oggi più di 3000 pubblicazioni (Black et al., 2015), evitando al contempo di assumere una posizione scientista.
CHE COS’È LA MINDFULNESS
È possibile definire la “Mindfulness” come una pratica esperienziale che sfrutta la capacità individuale di controllare in modo volontario l’attenzione per incrementare la consapevolezza dell’esperienza che potrebbe essere percepita momento dopo momento durante la pratica. Malgrado molti insegnanti di Mindfulness esplicitino in modo più o meno diretto che la pratica non preveda in per sé alcun fine, l’incremento di consapevolezza può essere considerato funzionale a raggiungere indirettamente un chiaro obiettivo: cambiare il modo con cui il praticante starebbe giudicando la propria esperienza.
Si da per assunto che a, seguito della percezione di un nostro vissuto sensoriale (es., battito cardiaco), emotivo (es., paura) o cognitivo (es., immagine mentale), consegua un’attività di valutazione di questa esperienza. << Il cuore sta battendo all’impazzata. Così proprio non ci siamo >>. << Mi sento agitato. Provare ansia è davvero qualcosa di orrendo >>. << Anche se ci siamo lasciati, mi ritornano in mente tutti i ricordi. E’ sbagliato tutto questo >>.
Inizialmente assente, tale attività mentale di valutazione dell’esperienza sarebbe diventata nel corso degli anni un vero e proprio automatismo che, strutturandosi come attività involontaria e inconsapevole, agirebbe nella vita di tutti i giorni aggiungendo alla nostra esperienza percettiva strati “razionali” dipendenti in misura maggiore dall’attività di ragionamento della nostra mente, più lenta e complessa, piuttosto che da quella percettiva, più semplice e immediata.
Ad esempio, benché siano in molti a ritenere negativa l’esperienza di tristezza (es., “Mi sento triste”), tale valutazione prevedrebbe di attribuire ad un’esperienza intrinsecamente negativa – quale sarebbe per l’appunto l’emozione di tristezza, emblematica della perdita di qualcosa per noi significativo – un giudizio negativo ulteriore (es., “Non mi piace sentirmi triste”). Sarebbe proprio tale giudizio a deformare i nostri vissuti, rendendoli più sgradevoli e insopportabili di quanto normalmente non siano.
Sotto questa nuova luce, la Mindfulness potrebbe quindi essere considerata una tecnica finalizzata a raggiungere il cuore della nostra esperienza, ossia quella parte più pura ed autentica, meno dipendente da attività di pensiero orientate al passato e al futuro, e maggiormente vincolata all’attività di percezione di quanto sarebbe presente nel qui ed ora. Il cambiamento richiesto appare quindi rivolto al modo con cui si starebbe interagendo con la propria esperienza, passando da una modalità giudicante e indifferente, ad una non giudicante e consapevole.
L’accettazione, come tale, riveste il pilastro portante della pratica, e si accompagna all’assunzione di un atteggiamento compassionevole verso ogni nostro vissuto, verso la nostra persona, come pure verso tutto quanto ci starebbe intorno, o viceversa.
Da un punto di vista esperienziale, l’assunzione di un atteggiamento non giudicante e compassionevole verso ogni forma di esperienza esprimerebbe la condizione del Mindful, ossia uno stato interiore in cui cesserebbe ogni desiderio di modificare noi stessi o quanto ci starebbe attorno, e che ci porterebbe a limitare ogni nostra attività alla pura e semplice osservazione.
Durante questo stato, tutto diventerebbe improvvisamente (per insight) così come lo avremmo sempre voluto, in quanto ogni immagine ideale di noi stessi e del mondo andrebbe a coincidere con la percezione che nel momento presente staremmo avendo di noi e dell’ambiente circostante. La nostra mente cesserebbe infatti di elaborare strategie e piani per vedere concretizzati i propri desideri, rendendo desiderabile quanto si starebbe già percependo nel qui ed ora e trasmettendo internamente una sensazione di pace ed armonia.
Questa condizione esprime l’esito del passaggio dalla modalità del fare, propria di una mente intenta al raggiungimento di scopi “trasformativi”, alla modalità dell’essere, propria di una mente intenta a raggiungere scopi “conoscitivi”. Nella globalità delle pratiche esperienziali che la caratterizzano, la Mindfulness non esprimerebbe che il mezzo pratico per inibire la prima modalità di funzionamento mentale e favore della seconda.
Si noti come il raggiungimento della condizione di Mindful non costituirebbe un’acquisizione stabile e permanente nel tempo, ma sarebbe soggetta a decadere con la riproposizione degli automatismi mentali tipici della modalità del fare. Ciò significa che, laddove si fosse interessati a rendere questo stato interno più duraturo nel tempo, sarebbe necessario praticare con costanza durante la giornata, rendendo gli esercizi più simili alle normali attività svolte nella propria quotidianità. Questo può essere considerato il motivo per il quale solitamente il praticante viene incoraggiata a riproporre la pratica al di fuori del contesto di gruppo.
CHE COSA NON È LA MINDFULNESS
Per come è stata definita, la Mindfulness non può essere considerata una tecnica di rilassamento (Giommi, 2014). Malgrado la pratica costante sia associata ad una riduzione dello stress auto-percepito (Rosenkranz et al., 2013), diversi studi mostrano come specifiche pratiche di Mindfulness possano portare ad incrementare, anziché a ridurre, lo stato di tensione interna, innescando stati transitori di ansia, agitazione, sconforto, confusione e fatica, specialmente in chi inizia ad approcciarsi alla pratica (Creswell, 2017). Il motivo potrebbe dipendere dal fatto che nel corso del tempo abbiamo lasciano che la nostra mente venisse guidata da un pilota automatico (Killingswort et Gilbert, 2010), rendendo conseguentemente più faticoso e stressante interrompere gli automatismi per riacquisire una migliore gestione della propria capacità di spostare l’attenzione su un dato compito e mantenerla attivamente.
Allo stesso modo non sarebbe da escludere l’ipotesi che l’attività di valutazione implicita dei nostri vissuti ci porti spesso a sopprimere rapidamente esperienze spiacevoli (evitamento esperienziale) (Kang et al., 2013), rendendo inizialmente l’esposizione insita nelle pratiche di Mindfulness meno piacevole e sopportabile. Indipendentemente dal fatto che ci si stesse rifacendo ad un approccio radicalista o integrazionista, viene dato per assunto che lo stato del Mindful non possa essere raggiungo se durante la pratica venisse mantenuto attivo l’obiettivo di rilassamento per il quale ipoteticamente ci si starebbe rapportando alla pratica di Mindfulness. Il desiderio stesso di poter vedere ridotto il proprio livello di attivazione, infatti, esprimerebbe un’azione implicita di giudizio di vissuti che, per contro, non si vorrebbe sperimentare nel momento presente. Tale desiderio, mantenendo attivata la modalità del fare, impedirebbe al praticante di poter esperire lo stato di Mindful che si vorrebbe invece stimolare con la pratica. Pertanto, qualsivoglia fosse il motivo per il quale ci si stesse avvicinando alla Mindfulness, sarebbe opportuno sospendere momentaneamente questi desideri personali, provando a seguire le indicazioni presentate dagli istruttori, come pure auto-istruendosi in modo simile durante la pratica svolta in modo individuale.
Allo stesso modo non è possibile considerare la Mindfulness come una forma di psicoterapia (Jon Kabat-Zinn, 2016). In ambito clinico sembra invece più accettata l’ipotesi che vedrebbe la pratica come una specifica tecnica d’intervento utilizzabile all’interno di un piano terapeutico individualizzato. Non a caso tali pratiche rientrano a pieno titolo all’interno di specifiche modalità psicoterapeutiche di nuova generazione (es., Dialectical Behavior Therapy, Acceptance and Commitment Therapy, Compassion Focus Therapy, etc.).
L’utilizzo strumentale della Mindfulness sembra infatti rispettoso delle normative deontologiche della professione psicologica (articolo 4), che prevedrebbe il rispetto delle opinioni e credenze del paziente, come pure l’astensione dall’imporre convinzioni o valori differenti da quelli personali. In tale ottica, l’integralismo può essere considerato come un modo per evitare che, nella pratica di Mindfulness, vengano altresì trasmessi valori e credenze dissimili da quelle del paziente.
Cadrebbe infine in errore chi si convincesse che questa pratica fosse l’unica o la migliore per incrementare la propria capacità di prestare attenzione al momento presente, essendo infatti presenti diverse altre attività esperienziali, quali ad esempio il tango (Pinninger et al., 2012) o le attività tribali dei Pirahã dell’Amazzonia (Everett, 2005) associate ad un incremento della consapevolezza di sé. Tale logica appare ben radicata tanto in chi sostiene un approccio radicale, quanto in chi si rifacesse ad un approccio integrazionista.
IN COSA CONSISTE LA MINDFULNESS
Le pratiche di Mindfulness sono diverse, ma in linea con il pensiero di molti autori contemporanei (Lutzl et al., 2008), sembra possibile inquadrarle per finalità didattiche in due grandi raggruppamenti: le pratiche di meditazione da concentrazione e le attività di meditazione da insight.
Nelle pratiche di meditazione da concentrazione o da attenzione focalizzata, al praticante viene richiesto esplicitamente di focalizzare e mantenere la propria attenzione su uno specifico stimolo interno (es., respiro) o esterno (es., suono) per tutta la durata della pratica. Essendo la nostra capacità attentiva vincolata oltre che ad un funzionamento volontario anche ad una modalità involontaria, l’impossibilità di mantenere la concentrazione sullo stimolo inizialmente scelto porterà inevitabilmente il praticante a ritrovarsi distratto da un’altra fonte di stimolazione (es., pensiero).
A tale consapevolezza consegue quindi:
a) un atto di riconoscimento dello stimolo attorno a cui si sarebbe ri-orientata automaticamente la propria attenzione (es., “Stavo pensando a cosa avrei dovuto svolgere a casa più tardi”);
b) l’attribuzione di giudizio non negativo verso questo nuovo stimolo (es., “È solo un pensiero) o verso se stessi (es., “Distrarsi non significa fare male l’esercizio”);
c) l’assunzione di un atteggiamento accogliente e compassionevole di questo stimolo o di se stessi (es., “Anche se mi sono distratto, sono meritevole di essere apprezzato da me e dagli altri”);
d) il ri-orientamento della propria attenzione verso lo stimolo originario.
Tali operazioni vengono ripetute continuamente durante la pratica, e si suppone facilitino il riconoscimento di quanto spesso la nostra mente venga attirata da stimoli distraenti e dei giudizi che in modo implicito siamo soliti attribuire ai nostri vissuti. Tra le pratiche di meditazione, quella da concentrazione è associata ad una minore attivazione interna e ad una sensazione di quiete e rilassamento. Immaginando di trovarsi comodamente seduti sul vagone di un treno in movimento e particolarmente affollato, il dirigere e mantenere la propria attenzione sul battito cardiaco, evitando di giudicare i diversi vissuti distraenti e/o se stessi per essere stati distratti da questi ultimi, esprimerebbe un classico esempio di meditazione da concentrazione.
Diversamente, nelle pratiche di meditazione da insight o da attenzione diffusa quanto verrebbe richiesto del praticante consisterebbe nel mantenersi vigili e consapevoli del fluire incessante della propria esperienza durante la pratica. Tale pratica prevedrebbe di:
a) mantenere un’attenzione sostenuta a livello di tutti gli stimoli che si starebbe percependo;
b) riconoscere in modo distinto la natura sensoriale, emotiva o cognitiva delle diverse percezioni;
c) riconoscere i momenti in cui si starebbe polarizzando la propria attenzione a livello di specifici vissuti interni, rispondendo prontamente l’attenzione a livello della totalità dei propri vissuti;
d) non reagire a seguito della presenza delle diverse esperienze.
L’obiettivo primario di questa pratica, certamente più attivamente della classica meditazione da insight, consiste nel permettere ai diversi vissuti di fluire liberamente all’interno della propria consapevolezza. Tra le pratiche di meditazione, quella da insight è probabilmente quella più attivante, e viene spesso proposta successivamente ad una pratica da concentrazione. Riprendendo l’esempio del treno introdotto di sopra, la pratica da insight consisterebbe nel mantenere la visuale del paesaggio dal finestrino, evitando al contempo di venir catturati dai singoli particolari che si potrebbe percepire durante il tragitto.
CHE COSA RENDE EFFICACE LA MINDFULNESS
Diverse sono le ipotesi che fino ad ora sono state proposte per spiegare l’efficacia di una pratica regolare. Indubbio è l’effetto che la Mindfulness ottiene grazie ad una riduzione dello stato di attivazione del proprio corpo (Dunn et al., 1999). In modo non dissimile da una qualunque tecnica di rilassamento muscolare, la Mindfulness infatti offre al praticante la possibilità di portare la propria attenzione a livello dello stato di contrazione della propria muscolatura, osservando il cambiamento di sensazioni prodotte nel percepire la propria muscolatura de-contrarsi per effetto della riduzione dei processi cognitivo-emozionali.
Si ipotizza pertanto che la pura e semplice osservazione del passaggio da una condizione di tensione muscolatura ad una di completo rilassamento porti il praticante ad apprendere indirettamente a richiamare lo stesso stato interno associato alla condizione di de-contrazione muscolare, riducendo in modo prolungato lo stato di tensione interna. Più semplicemente, il concentrarsi sulla tensione dei propri muscoli incrementerebbe la capacità di esercitare un controllo volontario sullo stato di tensione della muscolatura del proprio corpo, riducendo lo stato di attivazione interna.
Una seconda ipotesi che è stata proposta prevede invece che la Mindfulness eserciti i suoi effetti a seguito della riduzione della frequenza della respirazione. Anche in questo caso, benché la pratica non preveda di per sé di esercitare un controllo sulla respirazione, molte pratiche portano a regolarizzare la propria frequenza di respiro attorno a valori minori rispetto a quelli iniziali, comportando una riduzione dello stato di attivazione delle nostre cellule cerebrali, e portando parallelamente ad una condizione di maggiore rilassamento e pacatezza interna.
Ancora, l’accresciuta capacità di discriminazione dei pensieri che insorgerebbero nella propria mente faciliterebbe l’acquisizione di una capacità di insight metacognitivo (Bishop et al., 2004; Mason et Hargreaves, 2001; Teasdale, 1999; Teasdale et al., 1995) o di decentramento cognitivo (Safran et Segal, 1990), consistente nel riconoscere i pensieri come semplici eventi transitori all’interno della propria mente, riducendo l’importanza ad essi attribuita e limitando conseguentemente la reazione comportamentale associata alla loro insorgenza.
Altri autori hanno invece ipotizzato che la Mindfulness agisca selettivamente a livello della memoria autobiografica (Williams et al., 2000), interrompendo i processi di rievocazione di ricordi negativi relativi alla propria persona e portando di riflesso ad incrementare l’autostima e l’autoefficacia. Tale effetto è supposto agire in modo prevalente nelle persone alle prese con vissuti depressivi.
Tra le altre ipotesi proposte si trovano la riduzione dell’attività di rimuginazione mentale (Kuman et al., 2008; Ramel et al., 2004), spesso associata al mantenimento di una condizione di apprensione e agitazione interna, la riduzione della reattività del sistema difensivo della nostra mente (Lanius et al., 2006), rendendo quest’ultimo meno attivabile da stimoli negativi interni o esterni, come anche all’incremento dell’esposizione (Bear, 2003; Borkovec, 2002; Kabat-Zinn, 1982; Kabat-Zinn et al., 1992) ed accettazione dei propri vissuti (Brown et Ryan, 2004; Hayes, 1994; Roemer et Orsillo, 2002; Teasdale et al., 1995) e all’interruzione delle condotte di evitamento della propria esperienza (Hayes et Wilson, 1994; Kumar et al., 2008). Non è da escludere infine l’ipotesi che l’efficacia della pratica sia associata a fattori aspecifici, quali la personalità del conduttore, la sensazione di accoglimento e di supporto offerta dal gruppo esperienziale, l’azione dell’auto-apertura emotiva al termine della pratica, l’induzione di aspettative positive, l’auto-suggestione, etc.
COME NASCE LA MINDFULNESS
La Mindfulness trae la sua origine da un’intuizione di Jon Kabat-Zinn, biologo statunitense appassionato di yoga, meditazione e pratiche esperienziali orientali, che verso la fine del Novecento fondò la clinica per la riduzione dello stress presso l’Università di Medicina del Massachusetts. È qui che venne creato il primo protocollo d’intervento basato interamente sulla Mindfulness: il Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR).
Nato per ridurre la condizione di forte stress e migliorare la qualità di vita di persone alle prese con problematiche di dolore cronico (Kabat-Zinn, 1997), il protocollo MBSR integra le conoscenze mediche e psicologiche derivanti dal panorama scientifico occidentale, a pratiche esperienziali orientali ispirate alla meditazione buddista Vipassanā e all’Hatha Yoga. Nelle 8 settimane della sua durata, il programma prevede l’alternarsi di pratiche di gruppo, individuali e ritiri esperienziali.
Le pratiche di gruppo consistono in 8 incontri della durata di 120-150 minuti, durante i quali vengono proposte pratiche meditative di vario genere, quali la meditazione seduta, la meditazione supina, quella in movimento e quella integrata alla pratica di yoga. Al termine di ciascun esercizio, i partecipanti sono solitamente invitati a condividere l’esperienza percepita durante la pratica. Ogni incontro è inoltre arricchito dalla lettura di testi poetici o di brevi aneddoti tratti dalla letteratura, come pure dalla divulgazione di tematiche scientifiche di rilievo (es., dolore, stress).
Parallelamente alle pratiche di gruppo, durante le 8 settimane del programma ciascun partecipante viene invitato ad una pratica individuale quotidiana mediante audio-guida, per una durata compresa tra i 40 e i 45 minuti giornalieri. Tra gli esercizi principali proposti a casa si trovano la meditazione seduta (es., meditazione basata sul respiro) e quella supina (es., esplorazione del corpo).
Tra la sesta e l’ottava settimana del programma, viene solitamente proposta una giornata di ritiro esperienziale durante la quale i praticanti sono invitati a compiere per un periodo di tempo ininterrotto e prolungato (5-10 ore) pratiche di meditazione in gruppo o in modo individuale, in modo strutturato (es., meditazione basata sul respiro) o non strutturato (es., meditare consumando i pasti).
Nel complesso, le diverse evidenze disponibili mostrano come il MBSR sia utile per la gestione dello stress, del dolore, dei sintomi ansiosi e depressivi, ed in generale per il miglioramento della propria qualità di vita.
PER CHE COSA VIENE UTILIZZATA
Diversi sono gli studi che hanno mostrato come l’applicazione delle pratiche di Mindfulness si associ ad un effetto beneficio per specifiche condizioni di rilevanza clinica e non.
Da un punto di vista clinico, il ricorso alla Mindfulness ha comportato degli effetti positivi nel prevenire la ricaduta depressiva in pazienti con una lunga storia di disturbo depressivo maggiore (Ma et Teasdale, 2004; Segal et al., 2002; Teasdale et al., 2000), nel trattamento dei sintomi depressivi residui(Kingston et al., 2007), nella gestione dei sintomi nel disturbo d’ansia generalizzata (Evans et al., 2008), nel ridurre la ricaduta dell’episodio psicotico (Bach et Hayes, 2002; Gaudiano et Herbert, 2006), nel modulare le problematiche associate all’immagine corporea (Steward, 2004), nella gestione dell’abuso di sostanze (Hayes et al., 1999), nella gestione del trauma (Follette et al., 2006; Ogden et al., 2006), nel miglioramento clinico in caso di problematiche alimentari (Fairburn et al., 2003; Telch et al., 2000), nel trattamento della dipendenza da nicotina (Gifford et al., 2004), nella gestione del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Zylowska et al., 2008), nel trattamento della psoriasi (Kabat-Zinn et al., 1998) e del dolore cronico (Kabat-Zin, 1982), nel miglioramento dell’umore e del benessere percepito nelle persone affette da cancro (Spreca et al., 2000; Tacon et al., 2004), nel trattamento della fibriomialgia (Kaplan et al., 1993), etc.
Da un punti di vista non prettamente clinico, l’applicazione delle pratiche di Mindfulness ha invece messo in evidenza una riduzione dell’intensità e della frequenza dell’insorgenza di emozioni negative (Brown et Ryan, 2003; Chambers et al., 2008), una riduzione dell’ansia (Shapiro et al., 1998), un miglioramento della risposta di adattamento allo stess (Davidson et al., 2003) e delle relazioni sentimentali (Cardova et Jacobson, 1993), un incremento dei livelli di melatonina in chiave preventiva all’insorgenza del cancro (Massion et al., 1995), un miglioramento delle funzioni attentive e della memoria di lavoro (Chambers et al., 2008; Tang et al., 2007), etc. Benché le ricerche accumulate nel corso degli anni appaiano ad oggi pressocché sterminate
- ben pochi studi hanno fatto ricorso ad un’accurata metodologia di ricerca e ad un’accurata analisi statistica dei dati;
- molti dei cambiamenti riportati dalle persone che si sono sottoposte a training di Mindfulness non possono essere imputati in modo diretto alla pratica compiuta;
- non sono presenti prove convincenti a sostegno dell’ipotesi che gli esercizi migliorino effettivamente le capacità che si vorrebbe sollecitare con una pratica costante.
In linea con le raccomandazioni del National Institute of Mental Health (NIMH), l’applicazione della pratica trova chiare evidenze empiriche unicamente per la gestione della prevenzione della depressione in pazienti con una storia di almeno tre episodi depressivi (NICE, 2009), nella gestione della sindrome del colon irritabile (NICE, 2008) e nella gestione della fatica cronica associata alla sclerosi multipla (NICE, 2014). Diversamente, in tutte le altre circostanze la valutazione dell’effetto che questa pratica potrebbe avere per il miglioramento della salute mentale e della gestione dello stress richiederebbe il ricorso a design di ricerca più accurati e consistenti (Goyal et al., 2014).
Ciò naturalmente non esula da un suo utilizzo nell’ottica di incremento della qualità di vita, ma sarebbe bene che i praticanti venissero informati dell’impossibilità di offrire sufficienti prove a sostegno della reale efficacia sperimentale della pratica.
BIBLIOGRAFIA