Trasferirsi in un altro paese: il mal di casa e il processo di adattamento del migrante
L’articolo affronta il delicato tema della ”perdita” e i processi di adattamento psicologico e culturale delle persone che si trasferiscono in un altro Paese. Emigrare è una sfida difficile che mette alla prova le capacità individuali del migrante, al quale è chiesta una riorganizzazione importante del proprio bagaglio psichico, sociale e culturale.
Premessa terminologica
Di seguito si daranno alcune definizioni di termini che ricorrono all'interno dell’articolo.
Innanzitutto specifichiamo che quando parliamo di migrazioni intendiamo sia i trasferimenti sul territorio internazionale che non.
Migrante: si utilizza il participio presente per intendere quelle persone che stanno migrando, che stanno lasciando il luogo in cui sono nate o in cui risiedevano e che stanno cercando un nuovo luogo in cui vivere in maniera tendenzialmente stabile;
Immigrato: si utilizza il participio passato sostantivato, per intendere quelle persone che hanno compiuto la migrazione in passato e che risiedono in modo tendenzialmente stabile in un luogo diverso da quello in cui sono nate o da quello in cui risiedevano in precedenza.
Si aggiunge, infine, che ai fini della presente trattazione, si tralasceranno (ovviamente non per importanza) i casi di migranti costretti ad abbandonare il proprio paese per questioni vitali (ad esempio le persone in fuga dalle guerre e dal sottosviluppo). Oggetto della presente trattazione sono, invece, i casi di persone che decidono spontaneamente di trasferirsi, in modo più o meno definitivo, in un altro paese al fine di migliorare il loro benessere, progredire nello studio e nel lavoro.
1) IL FENOMENO MIGRATORIO: ALCUNI DATI STATISTICI
Il Centro Studi Immigrazione di Verona (CESTIM) stima che a livello mondiale il numero dei migranti nel 2015 ha sfiorato i 243,6 milioni di unità, corrispondente al 3,3 % della popolazione mondiale. Il 76,1 % di questi è distribuito in Europa.
I flussi di migranti nel nostro Paese hanno sfiorato il milione di unità.
Seppure rallentati nell’attuale fase di recessione, secondo le previsioni dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) l’ondata di migranti acquisterà nuovo dinamismo con la ripresa economica. I dati CESTIM attestano che i paesi europei principe dell’ accoglienza sono la Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Considerando queste statistiche, l’UE si conferma quindi come una forte area d’immigrazione, con il dato espressivo della Germania che nel 2015 vantava un numero di 316.115 milioni dei rifugiati al suo interno.
Nell’Unione Europea, a fine 2009, erano 32,5 milioni i residenti con cittadinanza straniera (incidenza del 6,5% sulla popolazione) e 14,8 milioni quelli nati all’estero ma diventati cittadini del paese in cui vivono, per cui quasi un decimo della popolazione non ha un’origine autoctona. I casi di acquisizione di cittadinanza nell’Unione Europea sono stati 776mila nel 2009, più di due mila al giorno.
Nell’anno dell’Unità d’Italia, nel nostro Paese, su 22.182.000 residenti, gli stranieri erano ottantanovemila, appena uno ogni 250 e rivestivano posizioni socio-occupazionali ragguardevoli. A differenza della Francia, interessata a combattere il calo demografico con una scelta politica d’insediamento e di naturalizzazione, e della Germania, bisognosa di sostenere il suo sviluppo con l’arrivo di polacchi e d’italiani, per l’Italia cominciava il periodo della forte ondata di emigrazione, durata più di un secolo con ben trenta milioni di espatri.
Al primo censimento del Dopoguerra (1951) gli stranieri erano centotrentamila su 47.516.000 residenti, e superarono l’incidenza dell’1% solo nel 1991 (625 mila su 56.778.000 residenti). Da allora, in Italia è iniziata la fase della grande immigrazione, che ha superato un milione di unità solo nel 2001 (1.334.889).
A inizio 2016, su 5.026.153 residenti stranieri nel nostro Paese, il 52,6 % erano donne e complessivamente incidevano sulla popolazione per l’8.3% (52 volte di più rispetto al 1861) ed esercitano un ruolo importante nel sopperire alle mancanze strutturali a livello demografico e occupazionale. Nell’ultimo anno l’aumento, nonostante la crisi, è stato di 11.706 unità, al netto dei casi di cancellazioni dall’anagrafe, trasferimento all’estero e irreperibilità) e dei 178.035 casi di acquisizione di cittadinanza.
Interessante è anche il seguente dato sull’immigrazione nazionale: tre quarti degli immigrati risiedenti in Italia vive nelle seguenti cinque regioni: Emilia Romagna, Lombardia, Lazio, Veneto e Piemonte.
In Italia l’immigrazione costituisce una soluzione, seppure parziale, al continuo processo d’invecchiamento demografico e al basso tasso di fecondità e una risorsa per l’economia sebbene negli ultimi anni i lavoratori immigrati stiano soccombendo agli effetti della crisi incidendo per un quinto sui disoccupati del paese.
2) PSICOLOGIA DELLA MIGRAZIONE
I dati sul flusso migratorio ci consentono di avere una visione d’insieme della situazione che l’Italia e il resto del mondo stanno attraversando in questo momento: il fenomeno della migrazione si presenta come fattore strutturante della società contemporanea. Uomini e donne per motivi diversi, sembrano aver riscoperto le loro antiche origini di nomadismo. Se in passato le persecuzioni, le deportazioni e soprattutto i genocidi, si sono mostrate come l’esito di una logica razzista, oggi non meno dolorose e drammatiche sono le esperienze di provvisorietà, precarietà e anche di disperazione che caratterizzano i vissuti di altre figure rilevanti di questo periodo storico: i profughi, i rifugiati e i popoli migranti.
L’esperienza migratoria, specialmente quando vissuta come una scelta necessaria, è prima di tutto un fatto umano che comporta sempre una pesante e inevitabile alterazione della propria identità.
Si costituisce la categoria “immigrato”, in cui la dimensione individuale si annulla all’interno di entità collettive e indifferenziate e la peculiarità delle persone si perde nell’astrattezza del gruppo. In questa prospettiva, il termine “immigrato” appiattisce in un unico profilo le singole esperienze individuali, quelle biografie esistenziali che fanno capo a persone diverse, conferendo uno statuto dell’immigrato che rappresenta solo un aspetto dell’esistenza di questi. Il termine “immigrato” connota, infatti, i soggetti con un’etichetta unica, che semplifica e appiattisce il loro passato, il loro futuro e tutte le qualità che rendono ciascuno di essi unico e insostituibile nella moltitudine dl gruppo.
In effetti, nel linguaggio comune, gli immigrati rimangono “anonimi”, in altre parole non sono nominati o caratterizzati personalmente, bensì secondo una qualificazione che li massifica in un gruppo come “stranieri” e li separa dai cittadini del paese adottante. In questa dimensione sociale che è loro rispecchiata, l’immigrato fa l’ esperienza psicologica di una “spaccatura” tra quello che realmente è e quello che gli altri gli rimandano; si trova diviso, in senso psicologico, tra il proteggere l’’appartenenza e la necessità di integrarsi al nuovo contesto di vita, per poter poi sentirsi accettato e riconosciuto.
L’immigrato vive dunque in una sorta di sospensione, in altre parole nella posizione di chi pende verso due estremi: da una parte c’e’ la paura di essere fagocitato e omologato ad un gruppo che non sente proprio, e dall’altro c’è il timore di essere disconosciuto delle proprie peculiarità.
A questi sentimenti di ambiguità, si accompagna quello di perdita, in altre parole la percezione di non avere più un “luogo” stabile da poter calpestare e anche il ricordo nostalgico del proprio paese di provenienza, spazio di relazioni rassicuranti, un “luogo” in cui lui si era costruito il proprio modo di comportarsi e di rapportarsi con il mondo. Il sentimento della lontananza da casa rinvia quindi al legame affettivo con la propria terra e al ricordo di cose familiari. Spesso sottende qualcosa di perduto per sempre, a un tempo che non potrà mai tornare com’era. E’ proprio quest’aspetto dell’”irreparabile” che rende lacerante il vivere in un altro paese, per cui l’emigrato si trova a vivere il conflitto interiore di aver dovuto abbandonare il proprio paese e di sentirsi allo stesso tempo l’artefice della sua stessa “condanna”, come testimoniano le parole di questa immigrata argentina:“Tener que emigrar es una injusticia en la cual somos nosotros mismos a e legir la condena” (Dover emigrare è un’ingiustizia, della quale siamo noi stessi a emettere la sentenza.).
Migrazione e processi di acculturazione
All’interno dell’ Unione Europea, il fenomeno migratorio appare disomogeneo.
Ci sono infatti motivazioni diverse che spingono a spostarsi in un altro paese diverso da quello di provenienza, eppure ci sono anche elementi in comune tra la popolazione migrante.
Partire è un’esperienza psicologica complessa per tutti. Essa comporta una crisi, un cambiamento radicale del proprio percorso di vita e si accompagna da un vero e proprio shock personale e anche culturale per la paura del possibile indebolimento di legami sociali e culturali. I migranti vivono spesso almeno all’inizio un sentimento di estraneità con il nuovo ambiente di vita.
Il fenomeno migratorio si caratterizza pertanto, oltre che per aspetti economici e politici, anche per le ripercussioni a carattere personale ed emotivo che lo accompagnano.
I legami con oggetti significativi come le persone, le cose, la lingua, il clima e le proprie abitudini sono perduti. Il nuovo “involucro” definisce spesso una condizione di solitudine molto forte e ciò è particolarmente sentito, ad esempio, tra gli africani nelle cui società è preponderante il valore della famiglia e della comunità allargata. Tale modello, di tipo collettivistico o centrato sulla società, si discosta dal nostro mondo occidentale, in cui predomina invece una società ego-centrata, di tipo individualistico, in cui un posto centrale è occupato dalla persona e dalla sua autonomia.
La persona che si sposta, qualunque siano le modalità con cui accede al nostro Paese, ha di fronte a sé una serie d’incombenze. In alcuni casi, soprattutto se si tratta di profughi di guerra, i primi contatti avvengono con militari e forze di polizia. Una volta lasciato il luogo di prima accoglienza, l’immigrato deve trovare una soluzione abitativa più stabile, dovrà inevitabilmente far fronte alla lingua del nuovo paese e apprendere le nuove regole di vita, gli usi e costumi locali, comprese i nuovi regimi alimentari.Non è detto che i valori e gli schemi della cultura di origine troveranno riconoscimento, potranno essere sostenuti come osteggiati dalla nuova cultura.
Nella normalità l’immigrato è spinto a migliorare la sua condizione di vita e perciò s’impegnerà a cercare un lavoro. Spesso trova posto con fatica in ambiti lavorati lasciati liberi dagli italiani, in altre parole quelle mansioni che loro non vogliono più fare, perché troppo gravose oppure poco remunerate.Il prezzo per l’inserimento dell’immigrato nel paese ospitante è alto. Spesso avviene la perdita di ruolo o di prestigio professionale riconosciuto dalla comunità di origine e ciò si va ad aggiungere al compito gravoso di dover “riaggiustare” i propri valori culturali e sociali continuamente messi alla prova dal fatto di dover ridefinire la propria identità.
Lo spostamento della propria vita in un altro paese significa, pertanto, trovarsi a vivere divisi a metà tra due mondi e culture in una patria nuova, cercando però anche di non rinunciare alla propria cultura.
E’ un’esperienza di grande impatto emotivo che dura tutta la vita, fino al momento in cui si diventa pienamente consapevoli di essere un emigrato e immigrato (Lèon e Rebecca Grinberg).
In particolar modo, quando ci si trasferisce in un altro paese, ci si trova immersi in un insieme di processi di acculturazione e transculturazione, collegati al contatto duraturo con persone di culture differenti.
Precisamente, il termine acculturazione deriva dall’antropologia e indica un movimento a doppia direzionalità. In altre parole, vi è una cultura “donatrice” che è modificata da ciò che le è trasmesso dalla cultura alla quale essa si permea. L’acculturazione è un processo dinamico che inizia con l’ingresso del migrante nel nuovo paese e il conseguente impatto con la nuova cultura. Dopo di ché si susseguono le vicende legate al processo di adattamento, che prendono il nome di acculturazione psicologica. Il processo è a due vie perché riguarda due gruppi etno-culturali che entrano in contatto continuativo l’uno con l’altro, s’influenzano reciprocamente e si modificano di conseguenza al contatto interculturale. L’acculturazione è un fenomeno multidimensionale perché coinvolge molteplici aspetti, ovvero la lingua, gli atteggiamenti, le abitudini alimentari, i modi di pensare, i mezzi di trasporto e complessivamente l’identità culturale del migrante.
Inoltre è utile porre l’accento sulla distinzione tra assimilazione e acculturazione. Mentre la prima consta in un processo trasformativo e di abbandono del proprio retaggio culturale, la seconda è connessa con il concetto di stress e trasculturazione. In altre parole, è quella condizione di tensione psicologica, propriamente detta “shock culturale”, cui il migrante deve far fronte nello sforzo di adattarsi al nuovo paese. Il processo di acculturazione va a caratterizzare le modalità con cui la cultura ospitante e quella donatrice riescano ad adattarsi l’una con l’altra e in ultima anche le modalità in cui i migranti s’identificano con il proprio “patrimonio” culturale.
Tale processo può giungere a due traguardi differenti: l’abbandono dell’identità culturale nativa oppure il mantenimento dell’identità isolata.
Esiste tuttavia una terza modalità di sviluppo dell’acculturazione, quella che porta all’identità “biculturale”, ovvero quella combinazione di forte identità etnica unita a un saldo legame con la nazionalità della nuova patria che sembrerebbe una soluzione ottimale di’adattamento.
Migrazione e identità culturale
L’individuo che vive l’esperienza migratoria si trova sospeso tra due “mondi”.
Da una parte egli avverte lo strappo delle proprie radici, dall’altra cerca di trapiantarsi nella nuova terra ospitante e sente il bisogno di non rinunciare a se stesso e alla propria identità. Che cosa può essere considerato veramente cultura? La storia personale e condivisa da un gruppo di persone, le credenze, i modi di comportarsi e la capacità di riconoscersi all’interno di un sistema coerente di valori e di rappresentazioni di mondo. La cultura è ciò che mette ordine alla vita dell' individuo, un sistema coerente di simboli e di rappresentazioni profondamente radicate, spesso inconsce e importanti per la storia dell’individuo.La cultura è, in sostanza, la struttura e le fondamenta dello psichismo umano.
La “contaminazione” di una nuova cultura è di per se un’esperienza umana arricchente, ma vivere a mezza via tra due culture è anche un’esperienza di estraneità e spaesamento. Il migrante può avvertire il nuovo ambiente come ostile o anche solo indifferente. Il contatto con la cultura “adottiva” fa vacillare la propria identità culturale, in altre parole quella parte della nostra identità che concerne i meccanismi di acquisizione e gli aspetti e caratteristiche individuali in cui riconoscersi e sentirsi riconosciuti.
L’identità è una struttura che si plasma continuamente in funzione delle nostre interazioni, dei rapporti che instauriamo con gli altri e della nostra cultura di appartenenza. E' l’esito di una complessa e continua elaborazione, la capacità dell’individuo di percepirsi costante pur nel continuo fluttuare delle situazioni e degli incontri che esperisce.
Secondo l’ ottica psicoanalitica, l’identità è un concetto in transizione, ovvero è legata all’integrazione dell’individuo di vincoli di tipo spaziale (relazione tra le diverse parti del sé), temporale (le rappresentazioni di sé nel tempo passato, presente e futuro) e dall’ integrazione sociale (che permette il senso di appartenenza al ambiente sociale). Il terzo parametro è quello più importante perché la sua alterazione può suscitare il senso di non appartenenza al gruppo che gli confermi la sua percezione di se (Grinberg Leon e Rebeca,1992).
3) IL MAL DI CASA DEL MIGRANTE
Verso una caratterizzazione del sentimento nostalgico
La sofferenza legata alla lontananza da casa, la cosiddetta “nostalgia”, è una parola che deriva dal greco. Deriva, infatti, da “nòstos“, cioè “tornare a casa, o alla propria terra natale” e “algos“, che si riferisce invece al “dolore, alla sofferenza” dello stare lontano. Il termine è stato coniato dal medico svizzero Johannes Hofer, il quale, nel diciassettesimo secolo, inserì questo concetto nella sua tesi di laurea.
Il contributo di Hofer è stato importante sia nel campo medico che psicologico in quanto è stato il primo studioso a rilevare la nostalgia come una condizione clinica e anche perché ha mostrato gli effetti della mente sul corpo. In realtà, ancor prima di Hofer, la nostalgia era già apparsa negli scritti di Omero, Ippocrate e Cesare.
Verso la metà del secolo scorso, la nostalgia comincia a essere descritta come una vera e propria patologia: La nostalgia non è una malattia mentale, ma può svilupparsi in modo monomaniacale, diventando uno stato mentale ossessivo che causa infelicità intensa. Si manifesta di solito con un intenso desiderio di tornare al proprio Paese o alla propria città di origine”. (Nandon Fodor, 1950).
Tale condizione di infelicità può influenzare non solo la nostra psiche ma anche il corpo attraverso sintomi fisici tra cui le difficoltà del sistema respiratorio, i disturbi dell’appetito, la nausea e l’apatia. Nonostante il riconoscimento clinico gli studi scientifici dedicati a quest’ argomento non sono numerosi.
L’approccio psicoanalitico offre un’interpretazione del sentimento della nostalgia. Secondo il fondatore della psicoanalisi, nel bambino la nostalgia è una libido repressa e insoddisfatta verso la madre che lo porta allo sviluppo della paura. La causa più comune della cosiddetta nevrosi d’angoscia è un desiderio frustato (Freud, 1933).
Un’altra interessante lettura sul tema della nostalgia è quella di Fodor, che la concepisce come una “tendenza fetale“ di ogni essere umano, in quanto ricorda la condizione di sicurezza e di felicità perfetta della sua esistenza pre-natale, con sensazioni benessere supremo in cui si vorrebbe fare ritorno.
In tempi più vicini a noi, la nostalgia appare un termine obsoleto che poco si adatta a spiegare il sentimento scaturito dalla lontananza dal proprio habitat, visto che ormai le persone si spostano facilmente e le distanze non sono più sentite come un problema. In realtà il termine nostalgia connota un sentimento ancora molto attuale. La nostalgia consente di fatto agli esseri umani di mantenere la propria “unicità” anche di fronte ai passaggi più importanti che segnano la discontinuità del ciclo di vita, ad esempio il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza all’età adulta, dall’essere single al divenire parte di una coppia e così via. Non tutte le vicende che avvengono nel corso della nostra vita hanno la medesima capacità di evocare la nostalgia (l' impatto della propria adolescenza e dell’ingresso in età adulta, ad esempio, è emotivamente più forte rispetto a qualsiasi altro periodo).
Infine, la tendenza a provare questo sentimento varia in funzione di altri fattori individuali che vengono delineati nel paragrafo seguente.
Fattori di vulnerabilità
Differenze sull’impatto della nostalgia sulle persone sono dovute soprattutto a fattori di personalità. Normalmente ne sono colpite in primis i soggetti poco stabili emotivamente e soggette all’ansia. Inoltre, una classe a rischio è formata da coloro che hanno poca stima di se e scarse capacità assertive (di affermazione). Un altro fattore di rischio è l’incapacità di attribuire ai propri successi una causa interna, in altre parole le persone che confidano poco nelle proprie capacità personali. Al contrario, le persone che sono emotivamente stabili hanno un rischio minore di essere influenzate negativamente da sentimento nostalgico.
Inoltre la buona qualità dei rapporti con i coetanei, durante l’infanzia, sembra avere un effetto di protezione dal rimpianto e dalla nostalgia in età adulta.
La nostalgia “irrompe” in modo particolarmente violento in quei giovani o adulti che lasciano il loro paese in un momento della loro esistenza, in altre parole in un momento in cui sono presenti all'interno della rete sociale legami molto stretti (quando, ad esempio, vanno a lasciare un compagno oppure una compagna).
E un fattore ancora più importante: chi lascia il proprio paese non volontariamente, senza avere la percezione del proprio controllo, ha un rischio particolarmente alto di soffrire di nostalgia. Questo è quanto risulta dagli studi del 2012 condotti dallo psicologo e scienziato Christopher Thurber presso l’ Academy Phillips Exeter del New Hampshire (USA).
Analisi più recenti, condotte da Margaret Stroebe su popolazione mondiale, documentano che le donne sono nel complesso la classe con il minor rischio di soffrire di nostalgia di casa. Precisamente, le donne mostrerebbero inizialmente sintomi simili al rimpianto per il lasciato, ma poi sembrerebbero irrobustirsi e anche diventare più determinate nel modo di agire (ad esempio, attraverso l’uso di strategie di coping che mirano alla ricerca di sostegno sociale e psicologico).
Le ricerche americane evidenziano, inoltre, una correlazione diretta tra nostalgia ed età tale per cui, con l’avanzare degli anni, diminuisce la sofferenza per la lontananza di casa. Viceversa, tanto più giovane è l’individuo, tanto più è incline alla nostalgia e al dolore di separazione. Oltre a ciò si aggiunge che i bambini possono avere una visione distorta dello scorrere del tempo, nel senso che c’e’ la tendenza ad stimare le “finestre di tempo” come più lunghe rispetto agli adulti.
4) STRATEGIE PER COMBATTERE IL MAL DI CASA
Età evolutiva
Le ricerche sulla nostalgia e sulla sua possibile prevenzione con soggetti in età evolutiva sono numerose. A titolo d’esempio si riportano i risultati dello studio condotto del dottor Thurber su bambini, adolescenti e studenti americani di età compresa tra gli otto e sedici anni. Lo studio ha riguardato in particolare quei bambini e quei ragazzi che hanno partecipato per periodi più lunghi a ferie estive.
A quasi cento soggetti e loro genitori, è esteso un programma d’informazione riguardo la nostalgia di casa e le possibilità di fare fronte al disagio psicologico. Il sentimento di lontananza fu spiegato cercando soprattutto di comunicare un “approccio positivo”. Il programma riguarda il comunicare ai giovani la normalità della nostalgia, la quale è un sentimento che può interessare tutti e che migliora spesso già dopo una notte. Inoltre il messaggio che veniva dato era che i bambini potevano in qualsiasi momento rivolgersi all’assistente per fare domande.
Gli assistenti sono a loro volta istruiti al programma. Ad esempio devono esaminare con i ragazzi il calendario per dare una struttura al tempo e collegare possibilmente la singola giornata con attività piacevoli per il bambino stesso. Inoltre, per alleviare le emozioni negative connesse alla nostalgia, gli assistenti sono invitati a tenere impegnati fisicamente i ragazzi e a sostenere il loro legame sociale con gli altri compagni. Inoltre li aiutano a distrarsi, mantenendo l’obiettivo di restituire loro sempre la percezione di controllo sulle loro emozioni in modo da sostenerne la stima positiva su di se.
Anche i genitori dei soggetti sperimentali sono istruiti all’interno del programma con precise consegne: loro sono chiamati ad infondere fiducia e ottimismo nei confronti dei figli e a rapportarsi con loro trasmettendo la piacevolezza del fare un viaggio per se stessi. Soprattutto loro non dovevano passare il messaggio di presunte “azioni di salvataggio” perché avrebbero "viziato" la consapevolezza di se del bambino e la loro forza di resistenza.
I risultati dello studio evidenziano che l’informazione aiuta ad combattere la nostalgia e la sofferenza psicologica che ne scaturiscono. Quasi tutti i bambini dello studio sperimentarono in media per la durata di un giorno la nostalgia di casa. Tuttavia chi prese parte al programma riuscì a trarre beneficio dal programma contro la nostalgia in modo più duraturo, rispetto al gruppo di controllo.
Nell’ambito degli interventi psicoeducativi per combattere la nostalgia, è interessante l’esperienza di Iris Haak, direttrice di un asilo a tempo pieno di Berlino. L’educatrice ha alle spalle più di trenta anni di esperienza con bambini della scuola d’infanzia sofferenti di nostalgia. “Effettivamente il mal di casa colpisce prima di tutto i “grandi”, ovvero i bambini di cinque anni i quali hanno una più intensiva immaginazione”. Nel suo lavoro prende in considerazione il viaggio, come opportunità per allenare la separazione e sviluppare un rapporto equilibrato con la nostalgia. La cosa cui prestare attenzione, secondo la direttrice, è che loro cerchino l’ aiuto e non pensino che debbano crescere solo con la loro solitudine. Secondo la testimonianza della direttrice, cosa aiuta i bambini veramente sono i rituali come l’ accendere le candele e domandare come va ai bambini. Con altri bambini può essere d'aiuto anche il fare le coccole. Alcuni vogliono che gli assistenti dormano con loro nella stanza, mentre altri mettono le foto dei loro genitori sotto il cuscino.
Diversamente da quanto accade ad Heidy del romanzo di Johanna Spyri. La bambina gioviale e cresciuta nella natura comincia a divenire sonnambula a causa di una forma “logorante “di nostalgia. La sua fortuna fu quella di aver conosciuto un medico che aveva capito la gravità del suo malessere. L’unica cura era quindi di subito ritornare dal nonno nelle montagne svizzere.
Età adulta
Le strategie testate finora su persone adulte non sono molto ampie e hanno prodotto esiti discordanti (Christopher Thurber, 2012).
Tuttavia, i risultati di tutti gli studi sulla popolazione adulta, fanno emergere in modo univoco che l’uso smoderato dei media moderni come Skype e Facebook sono più che utili controproducenti.
L’esercizio fisico è dimostrato, invece, un fattore particolarmente importante, ancora di più delle attività concettuali. Infatti, spiega la studiosa Margaret Stroebe, l'allenamento del corpo consente di rilasciare nel cervello potenti e benefici neurotrasmettitori che risollevano l'umore e la sensazione di tristezza. Inoltre, secondo la stessa psicologa, un altro fattore che aiuta ad attenuare il mal di casa è la ricerca di nuovi contatti. Fanno bene, soprattutto, i contatti con persone con le quali sussiste un “sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda”.
Diversamente, coloro che nel nuovo paese si trovano ad avere a che fare "solo" con persone appartenenti al proprio ambiente d’origine, non solo non combattono la nostalgia nel lungo periodo ma la rafforzano verso forme acute. "Per far fronte alla nostalgia, serve un giusto bilanciamento tra il vecchio e il nuovo contesto di vita" (Thurber, 2012)
Inoltre, un utile "antidoto" contro la sofferenza nostalgica è quello del diario quotidiano. Questo aiuta a tenere memoria della giornata, a dare continuità alla propria vita e a conservare una visione positiva di ciò che accade. Sulle pagine del diario, si possono descrivere le esperienze positive che si sta vivendo da quando si è lasciato casa. Annotando ciò che ci fa sorridere durante la giornata, consente facilmente di “recuperare” gli aspetti costruttivi che legano l’esperienza nel paese ospitante. Il diario può servire a trovare dentro la persona il lato buono di una situazione che ha recato sofferenza.
Quando le sensazioni legate alla nostalgia di casa diventano più forti per intensità e la loro frequenza peggiora sensibilmente nel tempo di due settimane, è necessario cercare l'aiuto di un professionista. La psicoterapia può dare una mano a elaborare la sofferenza nostalgica nello stesso modo in cui aiuta a superare una perdita o un dolore. Può appoggiare la persona nel trovare le risorse necessarie per organizzare la sua vita quotidiana, può sostenerla nel prendere le decisioni difficili e avviarla verso la sua autonomia nel soddisfare da sola i suoi bisogni.
5) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Il presente lavoro è nato dalla motivazione a conoscere ed analizzare l’esperienza migratoria, come un vissuto che psicologicamente potrebbe essere problematico e che inevitabilmente comporta un grande cambiamento nella vita di tutte quelle persone che hanno deciso di trasferirsi in un altro paese.
Si è voluto pensare ad un "migrante” che decide liberamente di spostarsi, in modo più o meno definitivo, al fine di migliorare il suo benessere personale e professionale. Di conseguenza sono stati trascurati, non certo per motivi d’importanza, i casi di persone mosse alla migrazione da questioni vitali (ad esempio i migranti poveri in fuga dalle guerre e dal sottosviluppo).
La motivazione che spinge una persona ad allontanarsi dalle proprie abitudini e dalla propria cultura non è quindi una sola. Esistono svariati motivi per cui ci si trasferisce. Ecco, dunque, che ogni migrazione diventa una frattura da un territorio e quindi da una popolazione e da ordini e sistemi di vario tipo.
La stimolo che è stato alla base di questo lavoro è l’importanza riconosciuta alle dinamiche psicologiche specifiche di ciascuno in un epoca che richiede un grande sforzo di adattamento, anche in termini di flessibilità e di plasticità.
L’incontro con lo sconosciuto, se da una parte può evocare curiosità e nuovi impulsi per il migrante, dall’altro può trasmettere smarrimento e precarietà soprattutto se l’altro, diverso di cultura e di assetto relazionale, condivide "aree di convivenza sociale” diverse dalle nostre. Di qui è nato il desiderio di parlare delle sofferenze emotive di queste persone.
Il disagio psicologico del migrante è spesso poco pensato e riconosciuto anche perché non vi è una lingua comune che possa esprimere i pensieri e le emozioni a livello sociale. Diventa, quindi, necessaria la possibilità di costruire una dimensione empatica di dialogo, nel riconoscimento dell’alterità, uno spazio anche psicologico dove la persona immigrata possa collocarsi e consentire dunque la coerenza del proprio vivere. In questa coralità di intenti si richiede sempre più un profondo impegno, soprattutto a livello istituzionale, nell' organizzazione concreta di nuovi “ponti” dove potersi confrontare su punti di vista ed abitudini anche molto diverse tra loro.
Spunti di riflessione
Come più volte menzionato, ai fini del presente lavoro si è voluto optare una restrizione della classe migrante, ovvero considerare le persone che mosse da desideri di acculturazione, autorealizzazione, carriera, decidono consapevolmente di lasciare la propria terra, spesso sapendo che vi torneranno solo per brevi vacanze.
L’ immagine sociale di un tale profilo è compatibile con indici di mobilità e adattabilità che sono oggi molto apprezzati nella nostra cultura.
“In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l’esperienza dell’emigrazione: un essere umano su sette […] Un terzo dell’umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”. Cosi descriveva la portata del fenomeno migratorio, Federico Ramponi, autore dell’articolo “Il mal di casa dei nuovi migranti” (“La Repubblica” del 28 Marzo 2012) offrendo al lettore l’occasione per una riflessione comune sulla figura del migrante nell’epoca della globalizzazione.
Nel Ventunesimo secolo siamo davvero diventati tutti cittadini del mondo cosmopolita e flessibile? Oggi si riflette su un quadro “complesso” del sentimento nostalgico per indicarne anche i risvolti sul piano sociale e culturale che porta la scelta di vita di chi si trasferisce all’estero. Viviamo in un’ epoca in cui, attraverso l’uso degli Smartphone e delle nuove tecnologie, è di fatto possibile accorciare le distanze fisiche e superare le barriere spaziali.
L’idea comune è, dunque, di cittadini del mondo che si muovono senza limiti, persone facilmente adattabili e avulse da emozioni. Sembra quasi che le sensazioni connesse alla nostalgia e in generale i “danni” affettivi dell’emigrazione, siano uno scomodo intralcio sulla strada del progresso e della crescita individuale.
In realtà cosa significa “sentirsi a casa propria”? Soprattutto, è una condizione psicologica che si può effettivamente raggiungere? Possiamo arrivare a percepirci a casa in svariate circostanze della vita, ad esempio quando siamo in procinto di sposarci, ma anche quando siamo stanchi dopo una giornata di lavoro, oppure quando atterriamo in un luogo nel quale le persone parlano una lingua diversa dalla nostra. Sono situazioni comuni, ma anche molto diverse tra di loro, in cui la differenza è data dalle emozioni, i sentimenti che si muovono dentro di noi e non dalla mera presenza di quattro mura.
Cosa significa “sentirsi a casa propria” ha dunque un carattere privato e ha anche a fare con la nostra personalità e le nostre origini. Anche se possiamo spostarci ed adattarci a vivere praticamente ovunque, il sentimento di solitudine, che cerchiamo di coprire mediante il ricorso ai più svariati mezzi tecnologici, costituisce il richiamo arcaico ad uno spazio altro fatto di persone, oggetti, ricordi con le loro valenze emotive.
La casa dunque rappresenta il legame inscindibile con le nostre origini, anche se questo concetto può sembrare inappropriato e non sintonizzato rispetto ai valori moderni di cosmopolitismo e omogeneità.
Per una riflessione psicologica comune appare dunque una scelta quasi condizionata, ripensare al tema della nostalgia nell'ambito di una concettualizzazione di casa, che resituisca valore all'unicità dell' "involucro" migrante con le sue componenti affettive. Una casa che, nella sua complessa fenomenologia, rappresenta la struttura della psiche umana.
BIBLIOGRAFIA
- Fodor Nandor “Varieties of nostalgia.”Psychoanalytic Review, Vol 37, 25-38, 1950.
- Grinberg Leon e Grinberg Rebeca, “Identità e cambiamento”, Armano Editore,1992.
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SITI DI INTERESSE IN ITALIANO
http://www.cesevoca.it/documenti/tesi-rainone.pdf/
http://www.cestim.it/
http://www.psicolinea.it/nostalgia/