Transizioni Psicopatologiche: ossessività e schizofrenia

ritaimbrescia
Dr.ssa Rita Imbrescia Psicoterapeuta, Psicologo

Nella pratica clinica, lavorare sulla peculiare modalità della persona di aderire all’accadimento psicopatologico che tocca la sua vita, incide sul suo decorso.


Introduzione

“I fenomeni di passaggio ossessivo - deliranti

costituiscono un’eventualità non rara sia sul piano ideativo,

dall’idea ossessiva all’idea delirante, sia sul piano ideativo- allucinatorio,

dal pensiero ossessivo alla voce allucinatoria.

L’ossessività si presenta come un crocevia,

un punto di snodo tra possibilità psicopatologiche diverse”

(Stanghellini, Ballerini, 1992, p. 23).

 

In questo scritto pongo l’attenzione sul complesso problema dei fenomeni di passaggio fra mondo ossessivo/psicotico e psicotico/ossessivo sia in termini di aspetti ossessivi nella schizofrenia che in termini di veri e propri passaggi o transizioni dal mondo del delirio al mondo dell’ossessività e viceversa. È questo un approfondimento sottile di un tema molto vasto, complesso e dibattuto. Un lavoro di questo tipo, oltre che interessante, mi sembra molto fruttuoso nella pratica clinica essenzialmente per tre motivi:

1- sottolineare l’eventualità clinica di transizioni psicopatologiche che segnano la modificazione di vissuti interni significa poter cogliere la peculiare trasformazione della dinamica con cui essi agiscono e si manifestano nella vita della persona;

2- si mette l’accento sul fatto che vissuti interni aventi in un primo momento determinate qualità specifiche possano in certi casi assumere forme tali per cui sembra opportuno parlare di passaggio da un quadro psicopatologico all’altro;

3-tenere a mente tali fenomeni contribuisce a farci avere, come professionisti, maggiore cura nell’identificare quei fenomeni che possono aver svolto il ruolo di ‘ponte’ facilitante la transizione da un luogo psicopatologico all’altro.

Aspetti ossessivi nella schizofrenia: intreccio fra psicosi e ossessione?

Iniziamo dicendo che all’interno della forma clinica denominata schizofrenia siamo in grado di rintracciare dei fenomeni che, a ben guardare, hanno caratteristiche ossessive.

Addentrandoci un po’ nel discorso possiamo sicuramente avvalerci del contributo di Reznik (Reznik, 2005) che, rispetto alla presenza di aspetti ossessivi nella schizofrenia sottolinea la necessità di fare attenzione all’emergenza cronologica dei sintomi per una comprensione adeguata del loro sviluppo. In particolar modo Reznik (Reznik,2005) individua tre tipi di interrelazioni possibili fra il disturbo ossessivo e quello psicotico:

  1. in un primo caso i disturbi ossessivi possono essere indipendenti dalla psicosi;
  2. in un secondo caso i disturbi ossessivi possono essere parzialmente collegati alla psicosi;
  3. in un terzo caso i disturbi ossessivi possono rappresentare un continuum delle psicosi.

Su queste basi Reznik coglie diverse possibilità di intreccio fra i due disturbi che possono essere adeguatamente osservate appunto facendo attenzione al momento preciso in cui compaiono i fenomeni ossessivi nella vita della persona. Egli distingue quindi le persone che esperiscono fenomeni ossessivi prima dello sviluppo del processo schizofrenico, dalle persone che fanno esperienza degli stessi fenomeni all’inizio o nel corso dell’avanzare della schizofrenia, dalle persone che hanno esperienze ossessive transitorie in fasi differenti del loro disturbo.

Queste differenze chiarirebbero sia le diversità a livello di manifestazioni cliniche che di sviluppi psicopatologici diversi oltre che ad avere importanti implicazioni a livello psicoterapeutico.

Egli evidenzia che mentre un disturbo ossessivo - compulsivo preesistente alla schizofrenia sembra avere un effetto protettivo e sembra portare a uno sviluppo meno distruttivo, i sintomi ossessivo- compulsivi che emergono all’inizio o nel corso della schizofrenia indicano una maggiore disorganizzazione, possono portare a sviluppi cronici e a esiti a lungo termine più sfavorevoli.

Possiamo dunque pensare che ci siano sviluppi meno distruttivi nel momento in cui la riflessività può divenire per lo schizofrenico il motore che lo spinge a cercare di stabilire un diverso tipo di rapporto con le presenze allucinatorie di cui si popola il suo mondo. Forse in questo senso la “postura riflessiva” (Stanghellini, 2006) può incarnare il momento critico di presa di coscienza del mondo allucinatorio:“la guarigione o meglio il miglioramento degli psicotici non significa che essi non subiscano più alcun processo di disinvestimento […] ma che il loro Io arriva a padroneggiare questi processi” (Racamier, 1980, trad. it, p. 48).

Il contributo di Straus rispetto ai passaggi dal mondo del delirio al mondo dell’ossessività e viceversa

Volendo sintetizzare possiamo dire che Straus in uno studio sull’ossessione individua tre possibili declinazioni del modo di essere ossessivo. Le varianti sono di tre tipi: nevrosi compulsiva; psicosi da contaminazione; forma scrupolosa (intermedia).

Egli a partire dal riconoscimento della patologia come alterazione della normalità, analizza la struttura ossessiva attraverso la costruzione distorta di: tempo vissuto, spazio vissuto, movimento vissuto e materialità (Straus, 1948). L’innovazione sta nella presa in esame della caratteristica della materialità. La materialità è centrale nell’analisi di Straus perchè indica ciò che egli definisce col termine fisiognomico. Il fisiognomico è la qualità dell’oggetto, cioè la reazione emotiva che fa un oggetto sull’individuo che con esso entra in contatto. L’effetto rivela l’impatto che quell’oggetto ha su un’esistenza.

La portata di questo contributo, da un punto di vista fenomenologico- esistenziale e nella pratica clinica gestaltica, sembra evidente. Quattrini a questo proposito si esprime, secondo me, con linguaggio pregnante che, appunto, fa effetto su chi legge: “La qualità sta nel fenomeno, in quello che appare e  rivelandosi ai nostri occhi  fa senso. La grande differenza è che gli oggetti fanno segno, mentre i fenomeni fanno senso (Quattrini, 2004, p. 24). Proprio perché sia la persona schizofrenica che la persona ossessiva sono inclini a cogliere, per dirla sulla stessa linea di Quattrini, il senso prima ancora che il segno delle cose, l’analisi clinica strausiana nel distinguere le tre varianti di ossessività prende in considerazione il fisiognomico.

Secondo ciò che emerge da questa analisi strutturale gli ossessivi compulsivi, cioè le persone che rientrano nella prima variante, “combattono contro precisi istinti, localizzabili e identificabili, che contrastano con i loro convincimenti morali” (Straus, 1948, trad. it. p. 37), mentre gli ossessivi da contaminazione “sono impegnati in una lotta inesauribile contro il decadimento che è sentito come una ‘cosa materiale’ inafferrabile” (Straus, 1948, trad. it. p. 37). Questi ultimi sono persone che colgono negli oggetti le qualità della decomposizione. Il fisiognomico, vale a dire l’effetto, è per queste persone disgustoso.

La caratteristica importante che Straus evidenzia è che questo effetto diventa per queste persone materiale e in quanto tale acquista agli occhi degli ossessivi la possibilità del movimento. Questo movimento, da essi percepito, fa sì che il senso del disgusto si propaghi da un oggetto all’altro.

In questo tipo di mondo lo spazio vissuto si riduce per cercare di evitare il terrore della decomposizione e con esso il sentimento della libertà di movimento: “che gli oggetti non siano immobili, infatti- sottolinea Di Cesare- è rivelato in maniera emblematica dal fenomeno della polvere che, nel suo riproporsi dopo ogni pulizia parla proprio il linguaggio di un disordine e di un movimento di decomposizione interno agli oggetti stessi, testimoniando l’assoluta necessità di non distrarsi nemmeno per un attimo” (Di Cesare, 1997, p. 56).

In virtù della metamorfosi del mondo di questi ossessivi su cui Straus si è concentrato “la variante da contaminazione è considerata una forma di psicosi, con documentate transizioni verso la schizofrenia” (Straus, 1948, trad. it. p. 38).

 Ossessione, schizofrenia e metamorfosi delle parole: l’immagine non è la cosa

Nell’ossessione da contaminazione anche le parole subiscono una solidificazione e acquistano un potere magico diventando quindi minacciose. La parola non è più solo un termine tramite cui comprendere meglio il mondo, ma diventa qualcosa di materiale che presenti fica, rende reale, il suo significato.

Anche nell’esperienza schizofrenica le parole subiscono una profonda metamorfosi. Tale metamorfosi tuttavia si differenzia da quella che avviene nell’esperienza ossessiva per il diverso significato che ha rispettivamente nel primo e nel secondo tipo di esistenza.

La metamorfosi delle parole nell’ossessivo fa sì che un vocabolo possa scatenare la minaccia dell’attualizzazione, nel presente, del significato che la parola veicola o del senso a cui può alludere.

La minaccia, esperita come una cosa materiale, assume il potere magico di passare dalla parola scritta su un libro alla persona direttamente tramite la sola lettura, e assume il potere di contaminare la persona ossessiva portandola a contatto direttocon la morte in persona”. Nel vissuto ossessivo la parola da veicolo semantico prende concretamente le sembianze di ciò che in un mondo comune vorrebbe solo rappresentare.

Nella schizofrenia il trasformarsi del rapporto sé-mondo fa sì che i significati del mondo comune vengono messi tra parentesi (epochè) per cui le cose non hanno più il senso di prima e “dopo un’epochè così drastica anche la nostra netta distinzione tra le cose e i segni si dissolve. I segni e le parole diventano palpabili” (Stanghellini, 2006, p. 232- 233).

Credo che non si possa avvicinarsi ad immaginare cosa si prova quando i vocaboli si fanno materia se non partendo dalle parole con le quali chi tale metamorfosi l’ha vissuta, riesce a descrivere tale esperienza. Mi riferisco in particolare alle parole che Renèe, confida dopo la sua guarigione alla sua analista.

Racconta Renèe: “Ascoltavo le conversazioni, ma le parole erano senza senso e le voci mi sembravano metalliche senza timbro né colore. Ogni tanto una parola si distaccava dalle altre e si ripeteva, si scolpiva nel mio cervello, assurda” (Sechehaye, 1955, trad. it. p. 6). Il mondo che si sta prefigurando a Renèe è un mondo difficile da raccontare perché il vocabolario che noi utilizziamo è fatto per spiegare il nostro mondo.

Le parole della voce non sono cose materiali, che si possono staccare. La sensazione che ha Renèe rispetto al fatto che le parole si distaccano le une dalle altre ci aiuta a comprendere cosa succede ad una parola quando una persona la percepisce come staccata, tagliata, quando cioè la fa diventare un corpo. Quelli che inizialmente erano segni ora sono diventati cose che possono materialmente staccarsi: “Questo fenomeno è particolarmente evidente nei deliri di influenzamento dove dalla modalità come se (‘è come se un microchip cambiasse i mie pensieri’) si passa alla piena concretizzazione delirante (‘ho un microchip nella parte destra del cervello’) […] la coscienza è immersa nella forma concreta che hanno assunto le proprie ‘parole’ originariamente pensate per rappresentare i fenomeni e spiegarne il mistero. Le parole diventano cose” (Stanghellini, 2006, pp. 238- 239).

 Sonorizzazione del pensiero tra ossessività e schizofrenia: quando da un’idea si forma una voce

Continuando a soffermarci su alcuni fenomeni che rivestono grande interesse nella comprensione delle transizioni possibili fra ossessività e delirio, è importante sottolineare l’esistenza di esperienze che si situano a metà strada fra queste due possibilità di esistenze psicopatologiche.

Come sottolineano Stanghellini e Ballerini, da un estremo rappresentato dalle ossessioni a un altro rappresentato dalle allucinazioni uditive: “sono possibili tutta una serie di esperienze intermedie, situabili sugli assi ordinatori degli attributi di sensorialità- gradi di sonorità- e di spazialità, e questo nel duplice senso della localizzazione all’interno o all’esterno dei limiti corporei e della provenienza dall’Io o dall’Altro […] le pseudoallucinazioni (prevalentemente uditive) degli ossessivi- proseguono gli autori- hanno la forma di ‘pensieri sonorizzati’, localizzati nello spazio psichico e per definizione provenienti dall’Io, sebbene a contenuto egodistonico e disturbanti” (Stanghellini, Ballerini, 1992, p. 29).

In base alla localizzazione della percezione si individua una distinzione tra allucinazioni e pseudoallucinazioni. Le pseudoallucinazioni sono percezioni esperite come provenienti dall’interno della mente, contrariamente all’allucinazione, sono riconosciute come localizzate nello spazio interno mentale. È, quella delle pseudoallucinazioni, un’esperienza intermedia in quanto, sebbene ci sia una percezione essa rimane localizzata all’interno dei propri confini corporei.

Al di là di questa esperienza intermedia le allucinazioni uditivo-verbali che le persone schizofreniche chiamano “voci” emergono, come se si strappasse la tela sulla quale è proiettato il film della realtà: “Le allucinazioni non sono, dunque, corpi estranei precipitati all’interno della normale sfera sensoriale. Le voci vengono udite, ma diversamente dalle voci normali, e così le impressioni visive del delirante sono diverse dalle normali impressioni. L’intera sfera sensoriale muta insieme al sentire” (Straus, 2001, trad. it., p. 103). Le allucinazioni schizofreniche hanno a che vedere con la coscienza in quanto fenomeno globale del rapporto della persona con se stessa.

Quello che interessa evidenziare tenendo conto di queste importanti distinzioni è che in certe esistenze ossessive il pensiero, pur rimanendo di proprietà della persona, può assumere la caratteristica di sonorità. Sulla base di tali considerazioni viene da chiedersi: come può un pensiero diventare sonorizzato e cioè trasformarsi in una voce che parla?

Considerando che ogni prodotto della coscienza ha sia una forma che un contenuto, possiamo meglio comprendere che nel caso della sonorizzazione, il contenuto di un pensiero si manifesta alla coscienza con una modalità specifica che prende la forma della voce.

La presenza di una sonorità del pensiero ci indica quindi che può esistere una continuità sotto il profilo del contenuto, ma una discontinuità sotto il profilo della forma cioè del modo in cui quel contenuto si presenta alla coscienza.

Nelle persone schizofreniche il contenuto ideativo che assume la forma di voce si inscrive all’interno di un dialogo interiore che viene fuori. Le voci emergono da un dialogo interiore che si palesa e si fa concreto.

Nell’ossessivo invece l’esperienza della sonorizzazione del pensiero ha significati diversi. La persona sente il proprio pensiero come una voce interna arcana ed inquietante, cioè è consapevole che queste voci disturbanti nascono dentro di lei e non le ritiene come provenienti da fuori di sé, cioè provenienti dagli altri.

Come sottolineano Stanghellini e Ballerini: “Il fenomeno della sonorizzazione del pensiero, che in alcune sue declinazioni configura un sintomo schizofrenico […] ha tuttavia nella propria estensione complessiva una nebulosa collocazione psicopatologica, in virtù della quale sembra effettivamente costituire uno dei ponti di transizione tra ossessività e psicosi o, se si preferisce, una delle brecce che si aprono tra la cittadina ossessiva e quella delirante” (Stanghellini, Ballerini, 1992, p. 30).

 Ossessività e schizofrenia: transizioni possibili?

Se dunque “è esperienza comune osservare come un medesimo disturbo di base può declinarsi ora come un’idea ossessiva, ora come un’idea delirante” (Stanghellini, 1997, p. 16), andiamo ora a guardare da vicino cosa accade.

La possibilità di transizioni da un mondo psicopatologico all’altro può essere meglio compresa alla luce del concetto di vulnerabilità. Questa nozione può essere intesa in due sensi diversi: in primo luogo può indicare un fattore di rischio, una base pre-esistente all’affacciarsi di una malattia e in secondo luogo può essere intesa in senso dinamico come qualcosa che è in stretta relazione con la persona. La vulnerabilità può essere intesa quindi come substrato dal quale i sintomi acuti possono o meno emergere; e al contempo può essere utilizzata in senso dinamico cioè considerando la forte relazione tra ciò che accade dal punto di vista della patologia e le risorse della persona. La dinamicità e l’utilità pratica di quest’accezione del termine si rivela essenzialmente nell’importante possibilità di cogliere quel “movimento individuale che modula il percorso individuale di malattia” (Stanghellini,1997, p. 18).

Sebbene ci siano delle aree di sovrapposizione tra il mondo ossessivo e quello psicotico schizofrenico e sebbene siano presenti anche differenze che possono giustificare i diversi modi di costruzione del mondo in senso psicotico o in senso ossessivo, si è evidenziato come le differenze tra questi due modi di esistere e di abitare il mondo siano da ricercare nel peculiare peso che alcuni aspetti assumono per l’esistenza ossessiva da un lato e per quella schizofrenica dall’altro.

Questa visione delle cose non solo“può rendere ragione dell’estrema eterogeneità e variabilità dei quadri clinici senza ridurli meramente a entità nosografiche” (ivi, 1997, p. 18), ma può diventare preziosa in Psicoterapia della Gestalt nel momento in cui teniamo presente che “nelle transizioni tra ossessività e delirio si rivela essenziale l’atteggiamento della persona nei confronti di un medesimo nucleo tematico o affettivo” (Stanghellini,1997, p. 16). Considerare la vulnerabilità in senso dialettico vuol dire quindi vedere che alcuni fenomeni presenti in più psicopatologie possono assumere ruoli diversi in diverse esistenze e possono contribuire a formare un mondo patologico con alcune caratteristiche piuttosto che un altro a seconda di come l’apparato psichico della persona filtra gli accadimenti della sua esistenza.

L’idea alla base è che “le caratteristiche dei fenomeni finali tipicamente schizofrenici dipende dall’impronta dell’amalgama personologico, vale a dire dal tipo di meccanismi di compenso messi in atto consapevolmente e non dal soggetto” (Stanghellini,1997, p. 26). Il concetto di vulnerabilità così inteso può aiutare a comprendere meglio i diversi percorsi schizofrenici.

Come sottolineano Rossi Monti e Stanghellini: studi longitudinali sui decorsi delle sindromi schizofreniche hanno rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia come disturbo a decorso cronico ed esito defettuale. […] Alla luce dei risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro di riferimento teorico nessuno è più autorizzato ad identificare schizofrenia e cronicità. […] Al di là della dicotomia acuzie-cronicità- proseguono- si situa il concetto di vulnerabilità secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici conclamati” (Rossi Monti, Stanghellini, 1999).

Se volessimo velocemente guardare alle implicazioni pratiche di quanto detto, potremmo osservare che confrontarsi con persone che incarnano modalità psicopatologiche di vivere come quelle ossessive o schizofreniche vuol dire essere aperti alla complessità di mondi-altri rispetto al nostro e rispettare questa complessità umana significa anche tener conto di come la persona si confronta più o meno consapevolmente con la propria patologia. Gli effetti di quest’apertura all’altrui complessità possono essere di enorme utilità da un punto di vista psicoterapeutico nel momento in cui all’interno di questo contesto il cambiamento è mediato dalla persona che in tal senso dimostra- parafrasando Stanghellini- “la non ipotecabilità degli esiti sulla base di presunte diverse etiologie” (Stanghellini, 1997, p. 40).

La conseguenza è che si guarda al fatto che la persona può prendere posizione nei confronti della sua malattia. Dire questo significa dire che la persona e la malattia non sono la stessa cosa e che c’è un margine entro il quale essa può posizionarsi. In base alla sua posizione, al suo atteggiamento verso la malattia può determinarsi un decorso anziché un altro.

La genialità di Binswanger quando afferma che “l’esistenza psicotica è una “possibilità d’essere dell’esistenza umana” (Binswanger, 1956, trad. it. p. 16) è in questo contesto un’affermazione di importanza cruciale perché equivale sostanzialmente a dire che non ci sono gli schizofrenici ma ci sono le persone con la schizofrenia.

L’accento è messo sulla dialettica della persona con la sua schizofrenia e sulla sproporzione fra la persona e la sua vulnerabilità: “se la follia è ‘parziale’, cioè se nella alienazione sussiste sempre in qualche parte del soggetto la possibilità di un distanziamento dall’alienazione stessa, e dalla vulnerabilità, allora nel soggetto stesso si trovano le risorse per la sua curabilità” (Stanghellini, 1997, p, 62).

Questo discorso è naturalmente valido allo stesso modo anche per l’ossessivo. La vulnerabilità intesa in senso dinamico può quindi essere, nella prospettiva fenomenologica del continuum ossessivo- delirante, una chiave di lettura per quanto riguarda i passaggi da un mondo di natura schizofrenica a un mondo di natura ossessiva e viceversa.

Conclusioni

“La storia reale della vita

non coincide mai con quella potenziale.

In psicoterapia agiamo

sulla base del concetto secondo cui

la storia vera non esaurisce tutte le potenzialità”

(Straus, 1948, trad. it, p. 128)

 

Ci si è chiesti se a partire da un vissuto psicopatologico appartenente ad una forma morbosa, ossessiva o psicotica, ci potessero essere trasformazioni tali da evidenziare a ben guardare caratteristiche non più appropriate (o sempre meno appartenenti) alla forma morbosa di partenza.

In effetti, si è mostrato che accanto ad imprescindibili differenze ci sono anche aree di sovrapposizione a reggere il discorso sulla possibile accessibilità di una persona nel mondo psicopatologico contiguo al proprio, accessibilità che può esistere in senso bidirezionale.

In questa mutabilità un ruolo di primo ordine spetta alla persona chiamata in causa: centrale è il modo con cui questa si pone in relazione con la forma morbosa da cui è toccata. Ogni persona oltre ad affrontare in maniera consapevole un evento, in questo caso quello morboso, si accosta ad esso con il suo bagaglio di aspetti inconsci che in modo fondamentale contribuiscono a plasmarlo. Tutto ciò di cui la persona non è consapevole agisce al di sotto del livello di consapevolezza lasciando la sua invisibile impronta nei modi con cui fronteggia le situazioni. Ancora, la ricchezza della persona comprende tutti quegli aspetti che pur non appartenendo direttamente a lei, la coinvolgono e assumono un significato che ha importanza per la sua esistenza nel momento in cui, anche a dispetto delle motivazioni esterne da cui sono legittimati, vengono interiorizzati e simbolizzati in un modo piuttosto che in un altro dalla soggettività della persona.

A partire da questa consapevolezza abbiamo utilizzato il concetto di vulnerabilità sottolineando che esso quando inteso in senso euristico (e non in senso di fattore di rischio): “enfatizza la struttura dialettica del rapporto tra la persona e quei fenomeni basali che incarnano la condizione di perdita del senso comune. Enfatizza in sostanza l’idea che tali fenomeni e la persona che ha cura di confrontarsi con essi non coincidono, così che la persona può disporre o acquisire la capacità di sperimentare, descrivere e oggettivare tali fenomeni, e infine difendersene, o storicizzarli” (Stanghellini, 1997, p. 187).

Questo ovviamente non vuol dire che la persona è onnipotente rispetto al suo destino:

“è fuori d’ogni lecito dubbio che, se da un lato la persona è in grado di assumere un atteggiamento di fronte alle manifestazioni elementari, primarie e basiche del processo morboso, dall’altro tale atteggiamento non può non essere condizionato dal processo stesso” (Stanghellini, 1997, p. 131).

Nel corso di questo articolato discorso riguardante il mondo psicopatologico ossessivo e il mondo psicopatologico psicotico schizofrenico, è emersa la concatenazione esistente tra rapporti-transizioni-metamorfosi di fenomeni all’origine distinti.

Tenendo a mente ciò che era stato precedentemente detto sulla vulnerabilità e quindi su “l’azione patoplastica esercitata dalla personalità sui fenomeni primari” (Stanghellini, 1997, p. 131), è stata messa in risalto la possibilità di trovare anche nelle condizioni psicopatologiche una certa libertà di manovra che sola può garantire un cambiamento di direzione.

Mi sembra importante concludere sottolineando che questo discorso ha evidentemente conseguenze pratiche nell’ambito d’intervento clinico e psicoterapeutico in cui nell’incontro con l’alterità sofferente si lavora con gestalt aperte che prendono forma.

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Data pubblicazione: 24 febbraio 2016