Il trattamento preliminare del minore in comunità

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Dr. Michele Spalletti Psicoterapeuta, Psicologo

L'articolo esposto illustra delle strategie preliminari ed un particolare approccio al soggetto per favorire l'inserimento, la crescita ed il lavoro educativo e clinico con i minori in comunità. Il tema preso in esame è, in prima istanza rivolto agli specialisti del settore, ma è altresì applicabile, seguendo le stesse linee guida, al più generale rapporto pedagogico genitori-figli o insegnanti-allievi.

Quanto descritto è il frutto di anni d'esperienza come responsabile di comunità educative per minori dirette ispirandomi al modello teorico e tecnico della psicoanalisi lacaniana, in particolare alla pratique-à-plusieurs (letteralmente: pratica o "lavoro in diversi") introdatta da A. Di Ciaccia, alla quale faccio esplicito riferimento nel proseguo.

  

Il quadro d'entrata del minore in una comunità educativa

Rispetto al lavoro nelle comunità educative per minori c'è, innanzi tutto, da precisare come il "quadro d'entrata", in generale e a prescindere dai risvolti diagnostici, sia particolare e complesso. La tipologia di istituzione già implica, infatti, una specifica modalità di ingresso del soggetto ed un tipo di setting, che ha delle precise conseguenze sulla possibilità di effettuare un trattamento.

Nella fattispecie chi viene non viene perché lo vuole o perché soffre di un sintomo ma perché è l'Altro (inteso come legge ed entità simbolica preesistente al soggetto) che glielo impone, generalmente, per proteggerlo e per separarlo da un sintomo familiare o sociale. Tecnicamente, si può dire che il bambino arriva senza una motivazione interna e con molta conflittualità e rabbia di difficile gestione.

La richiesta d'ingresso non è, infatti, inoltrata dal soggetto, sarebbe anche improbabile vista l'età, ma dal Tribunale per i Minorenni e dai servizi sociali che sanciscono questa stessa scelta. Già nel quadro d'entrata, il minore vive quindi l'esperienza dell'essere deciso dall'Altro, un Altro che ha deciso, decide e deciderà per lui, al suo posto e generalmente senza il suo parere e consenso.

Un Altro che quindi sa e fa per lui e che, nonostante tutti i buoni propositi e la buona fede, spesso e nonostante tutto, almeno all'inizio, può risuonare come un padrone foriero di un godimento dalle tinte persecutorie che, almeno in origine, si riversano sulla comunità stessa vissuta come luogo straniero ed ostile.

In un certo senso, il bambino o l'adolescente spesso ce l'ha o è contro la comunità, proiettando su questa la colpa di ciò che sta vivendo e della separazione dalla famiglia.

 

Quando il minore non vuole niente è richiesto un lavoro preliminare

Il minore arriva quindi senza nessuna domanda, né di crescita né di educazione né tanto meno di cura, portando con sé la sua diffidenza ed ostilità verso l'altro che, nelle sue aspettative, deciderà per lui ancora ed anche qui.

È quindi necessario un lavoro preliminare per far si che il minore possa vivere ed investire gli educatori come delle valide alternative alle figure genitoriali, che sia disposto a dischiudersi per vivere ed agire non solo il transfert negativo, ma anche quello positivo ed eventualmente simbolico, in cui sia rimesso in circolo il desiderio e la fiducia verso il prossimo, a cui poter affidare il proprio destino e le proprie costruzioni.

 

Perché è necessario un lavoro preliminare?

Qui si pongono quindi diverse questioni: come far sì che l'Altro della comunità (da intendersi come regolamento interno, insieme dei precetti, degli obblighi e dei divieti su cui si basa il credo educativo profuso) non sia o non mantenga una valenza persecutoria?

Come far sì che il dispositivo fondamentale e richiesto per legge del progetto educativo non irretisca il soggetto in una griglia prestabilita ed uguale per tutti, definita PEP. (Progetto Educativo Personalizato), ma possa invece essere uno strumento efficace per la sua realizzazione e per rinfrancarlo da una condizione di assoggettamento, attraverso delle offerte che lo implichino?

Come far sì che le regole, esposte ed imposte in un setting educativo, si facciano garanti non dell'adulto ma del minore, contro il godimento ed il suo Altro sregolato (ad esempio dalla famiglia in cui ha subito dei maltrattamenti, delle incurie o degli abusi)?

Come, nel luogo dell'Altro che sa e che fa, si possa diventare partner per creare un posto in cui il soggetto decida da sé?

Come fare con l'Altro genitoriale per far si che non faccia da ostacolo e che tutto ciò si produca?

 

Come operarlo: una prima scelta di setting e di posizione da cui approcciarsi con il minore

Personalmente credo che la prima operazione necessaria, per permettere una "nascita del soggetto", sia di passare da un setting prettamente educativo, in cui la regola è imposta, il sapere è pieno e dal lato degli educatori, aventi come scopo precipuo quello di educare ed il progetto educativo anonimo, ad un setting analitico rivolto al trattamento, spostando il focus dall'educare all'accogliere la specifica struttura soggettiva del minore, alla quale rispondere in un modo che sia "particolarizzato" anziché standardizzato ed uguale per tutti.

Ciò è soprattutto cruciale quando si ha a che fare con minori che lasciano già trapelare una probabile struttura psicotica, per i quali è pericoloso che l'educatore si identifichi veramente con colui che sa e che educa, con il legislatore che gode dell'applicazione della legge in modo superegoico, imponendo la regola che alla fine diviene sregolata e persecutoria per lo psicotico.

In certi casi è, infatti, difficile relazionarsi a certi minori, vuoi perché sono provocatori, oppositivi o iperattivi ed il rischio per tutti gli educatori, stressati dal loro comportamento, è quello di volerli mettere a tutti i costi sulla "retta via", di volerli piegare allo "standard educativo", alla norma, alla regola, non riuscendo in tale anelito messianico a leggere la specificità della loro struttura, con il rischio di rispondere sul lato del controtrasfert aggressivo e con un atteggiamento rivendicativo ed oppressivo, usando il potere e la legge come strumento di godimento personale anziché come strumento simbolico atto a proteggere e tutelare l'individuo.

 

Dal lavoro preliminare sul minore alla rettifica del dispositivo comunitario

Si tratta quindi di operare una prima rettifica del dispositivo comunitario che permetta non di bastonare il bambino con la legge quando fa il "cattivo" ma di porsi come legge per difenderlo dal suo Altro sregolato, da chi esercita su di lui una cieca volontà di godimento. Ciò credo sia alla base dell'accoglienza "simbolica" del minore, prima ancora di quella reale al momento dell'ingresso, più improntata questa al maternage, all'espletamento delle cure affettive e, comunque, non meno importante.

Per esemplificare, quando non c'é lo spazio del soggetto ma solo della regola e della punizione, è possibile che il minore reagisca con atteggiamenti oppositivi o con dei passaggi all'atto, in cui cerca una possibile separazione dall'altro, come magari faceva a casa con la madre, con il padre e a scuola ogni qual volta che si confrontava con tale volontà di sopraffazione.

È quindi innanzitutto necessario seguire il minore svuotandosi di un sapere e di una legge supposta che lui può rifiutare e da cui si può difendere, cercando altresì di svincolarsi da un rapporto speculare con lui, che rischia di far scivolare il transfert nell'aggressione e nell'ostilità.

Senza questo passaggio, che implica una certa responsabilità etica nei confronti del soggetto, non sarebbe possibile nessun lavoro sul minore che, altresì, potrebbe rimanere alla mercé di un Altro istituzionale che sa, decide e fa al suo posto.

Preliminarmente si tratta quindi di come poter passare da un équipe che si pone con il minore come un Altro che sa, che può instillare i passaggi all'atto, prescrivendo precetti, elargendo punizioni ed interpretandolo aggrovigliandolo nelle sue categorie esplicative, ad un équipe che "sa di non sapere", fondamentale per poter avviare una pratica a più figure (à-plusieurs) e farsi partner del soggetto anziché solo suoi educatori.

 

La rettifica dei rapporti dell'équipe con il minore: uno svuotamento dell'adulto per poter seguire il bambino o l'adolescente

Per questo, parafrasando una formula di Lacan, è necessario un lavoro preliminare di "rettificazione dei rapporti" dell'équipe "col reale" del soggetto.[1]

Per far questo è importante operare sull'équipe per svuotarla del suo sapere supposto ed ostentato e dal rischio di usarlo in modo autoreferenziale e narcisistico nella relazione con i minori. Ciò, in un certo senso, equivale al superamento per ognuno del proprio sintomo e del proprio stile di godimento (modo peculiare che ognuno ha di approcciarci alla realtà e agli altri traendone un soddisfacimento del tutto particolare) nella relazione con i bambini e nel lavoro scelto, implicando con tali idiosincrasie personali e scivolamenti professionali delle regressioni e delle perturbazioni.

È quindi importante che, soprattutto il responsabile (o il genitore o l'insegnante), si ponga come almeno-uno diviso rispetto al sapere ed interessato a rimetterlo in circolo, a partire dalla destituzione di un sapere precostituito e difeso, ed instaurando rispetto a questo una enigmacità propositiva che lo rimetta in moto rispetto al singolo caso, per far sì che sia l'équipe a mettersi al passo del soggetto piuttosto che fare il contrario.

Ciò è in parte possibile facendosi sostenitori e veicoli non del potere acquisito, del privilegio sugli altri, ma di un desiderio che può aprire le fila ad una ricerca del sapere e ad una ristrutturazione dei rapporti dell'équipe con il proprio reale e con quello del soggetto.

Questo, in genere, produce una certa presa di coscienza, da parte dell'équipe, nella lettura del caso e del modo con cui confrontarvisi. Permette all'équipe, in un certo senso, di prendere consapevolezza della sua posizione di "anima bella", che incolpa il mondo esterno per il suo male senza implicarsi in esso, e di svelarne l'inganno, apportando un "rovesciamento dialettico", una responsabilizzazione ed un diversa posizione etica.[2]

Come dire, rende consapevoli che non è il minore che si diverte a provocare gli operatori con il suo comportamento da "schizzato", da "sclerato", da "oppositivo" ma sono gli operatori stessi ad essere responsabili del loro godimento, dell'uso che fanno del sapere e della legge e degli effetti che ciò comporta sul soggetto. Ne consegue la possibilità di apprendere che ciò che, in precedenza, denunciavano come proveniente dal minore in realtà era causato anche da loro stessi, avevano una parte nel disordine che lamentavano.

 

Il trattamento preliminare dell'équipe

In un certo modo, dalla parte del direttore della comunità, con l'équipe è come se si dovesse operare rispetto ad un soggetto nevrotico che non è conoscenza delle cause del suo sintomo e del suo malessere attribuendolo al mondo anziché a sé, non riconoscendone la compartecipazione. Si tratta quindi di agire preliminarmente sul sintomo dell'équipe che alimenta il sintomo del soggetto per far si che il suo ingresso in comunità sia effettivo, portando ad una domanda di presa in carico sull'educatore e sull'équipe e ad un transfert positivo sulla medesima, anziché ad una difesa dalla stessa.

Per esemplificare, soprattutto rispetto a dei casi in cui è palese una soggiacente struttura psicotica, il primo risultato tangibile, di tale ristrutturazione, è di legificare nel verbale dell'équipe che tale o talaltro minore non debba essere punito quando mette in atto trasgressioni irrisorie, che non debba essere forzato nel fare i compiti, sapendo che tanto li incomincerebbe a fare di sua iniziativa quando consapevole di non essere posto in obbligo dall'altro e pressato.

Da una riunione d'équipe all'altra, valutandolo caso per caso, con questo modo di procedere si può gradualmente sostituire il regolamento interno che legittima, con le prescrizioni in esso contenute, l'educatore a godere del minore con la legge, in nome dell'educazione e dello sviluppo normale del soggetto, con quello dell'educatore come Altro regolato, garante e partner del soggetto in nome della sua nascita, in cui semmai la legge sia al suo servizio come barriera contro il godimento dell'Altro sregolato (famiglia maltrattante o abusante).

 

"L'educante educato"

È quindi necessario che sia l'équipe a "regolarsi" e non il minore. Le poche regole, esclusivamente indotte anche per il suo stesso bene e a sua difesa, dovrebbero essere proposte, non come una nostra volontà che si faccia in un certo modo piuttosto che in un altro, che sia vietata o proibita questa o quell'azione, ma come un bene per lui. Raccomandazioni proferite appellandosi ad un "terzo esterno", ad esempio della salute o della medicina, al quale noi tutti dobbiamo sottostare, erigendo delle regole per noi stessi oltreché per lui, conformandoci anche noi ad esse in maniera egualitaria.

Tale atteggiamento misurato e disimpegnato da una relazione complementare e disparitaria in cui l'adulto comanda e il bambino subisce, solitamente, ha l'effetto di una riduzione spontanea di condotte inadeguate e a non portarlo a reagire violentemente a quando propostogli e non impostogli.

Ciò risulta altresì proficuo per sottrarre l'équipe dal rischio di essere percepita dal minore come una mera figura persecutoria da cui difendersi. Il metterla a lavoro nell'occupare il posto di un Altro più regolato e "docile" riduce sensibilmente la produzione dei passaggi all'atto autolesionisti ed eterodistruttivi fino alla loro totale estinzione in ambiente comunitario, inducendolo ad aprirsi ad una possibile dialettica del riconoscimento e a sfogarsi con un atto simbolico, con le parole, anziché con un transfert sul reale del corpo.  

 

Dal progetto educativo al progetto del e sul soggetto

Trattandosi di una comunità educativa per minori, lo strumento di valutazione e d'azione, richiesto dagli stessi servizi e dal Tribunale, come suddetto, è il PEP. Per quanto compete tale strumento, parallelamente allo scioglimento del sapere, del regolamento interno e della posizione radicale di educatore, è importante cercare di operare in modo tale da far si che il PEP possa costituire - per così dire - l'interfaccia di una patto, di un'alleanza educativa tra l'équipe ed il minore.

Non: "Noi ti abbiamo valutato e quindi sappiamo cosa fare e cosa farti fare, rispetto alle attività ed alla progettualità", ma si tratta di partire da lui per fargli fare ciò che lui desidera e vuole fare, adeguandoci alle sue scelte e, semmai, mettendo a sua disposizione il nostro stile e le nostre competenze, rispetto agli interessi coltivati da ognuno.

In questa opzione strategica è quindi anche importante mettere a disposizione del minore il proprio saper fare, i propri interessi precipui ed il proprio stile per agganciarlo ad una passione da condividere, che lo possa affrancare rispetto alla sua percezione dell'Altro e al modo in cui questi si è relazionato a lui.

Ciò è, inoltre, propedeutico per incanalare certi conflitti e tensioni in un attività che consenta una versione produttiva e costruttiva, dove il sintomo di ognuno, per così dire, si possa realizzare in una forma sublimata, mediante una pratica pacificante. Questo, credo, che sia altresì solidale allo spostamento della modalità di trattamento del godimento dal corpo, come dimostrano certi passaggi all'atto autolesionisti, al legame sociale.

 

"Dal colpo al solco"

Esemplificando, accade che il minore anziché passare all'atto autolesionista o eteroaggressivo, come il prendere a pugni il muro o tagliarsi, nei momenti di tensione, effettui delle attività atte a calmarlo, come suonare la chitarra, ballare, recitare, etc… Non è più lui a farsi del male o a fare del male, ma usa un medium autoterapeutico, scelto e costruito ad hoc caso per caso, in base all'incrocio del suo desiderio con quello dell'educatore.

Ciò ha, generalmente, come effetto di trasformare l'iniziale transfert negativo ed aggressivo in un transfert simbolico in cui il minore investe d'amore e di rispetto l'adulto, ristrutturando la relazione in corso. A ben vedere, in confronto alla configurazione iniziale in cui questi imponeva le regole e il suo sapere contro la volontà del ricevente recalcitrante, in questo modo è invece il bambino o l'adolescente che spera di trovare in lui un sapere che possa guidarlo nel suo processo di crescita. Risultato questo conseguibile solo a partire da una posizione di "svuotamento" da parte di chi educa e di messa al passo del soggetto.

Per concludere, utilizzando due felici espressioni del dott. V. Baio, l'auspicio è, per l'équipe, di essere docile con il soggetto e intrattabile con il suo Altro sregolato e, per ogni minore, di trovare una guida che lo segua

 

Dall'esclusione al legame sociale

Tale via ha, inoltre, il vantaggio di favorire un rapporto sociale basandosi su delle pratiche dal potere identificatorio, permettendo al minore di potersi proporre all'altro in un modo che lo implichi, che lo renda meno anonimo e che possa lasciare emergere qualcosa di sé, che quindi lo possa far riconoscere in un possibile discorso condiviso, evitandogli l'isolamento e l'emarginazione sociale.

 

E per i genitori e gli insegnanti?  

Facendo uno sforzo d'immaginazione, è possibile sostituire al concetto d'équipe quello di genitori o di docenti, ovviamente con i dovuti distingui di eterogeneità operativa e contingente. Analogamente per quanto concerne le regole, il sapere e le aspettative.

Per i genitori, resta valida la questione del sapere e delle regole che non dovrebbero essere imposti asetticamente soprattutto nel caso degli adolescenti onde evitare reazioni oppositive, tuttavia non venendo meno al ruolo di promotori di una legge che permetta al bambino una certa rinuncia pulsionale, quale aspetto fondamentale dell'educazione e della crescita come perdita secondo Freud. Come dire, in modo molto semplice, non imporre le regole con rigidità e senza spiegazioni ma anche non permettere di poter fare tutto ciò che si vuole.

È possibile adattare il discorso anche in merito alle aspettative. Se, infatti, traduciamo il PEP (progetto educativo personalizzato), che rappresenta l'anelito a cui si vorrebbe far tendere il minore in un preciso lasso di tempo, con le aspettative a cui padri e madri indirizzano i loro figli, il discorso non è molto diverso.

Ciò che semplicemente credo sia importante, rifacendomi esplicitamente alla teoria di J. Lacan, è che il desiderio nutrito verso il proprio figlio gli possa permettere di sentirsi particolarizzato nelle cure, non anonimo, non avvertendo altresì l'onere e l'oppressione di dover, con la propria vita, realizzare ostinatamente il desiderio dell'Altro, trovandosi a dover scambiare il proprio progetto di vita con quello di qualcun altro, per sentirsi accettato ed amato.

In un certo senso, dovrebbe essere il bambino ad assumere una propria domanda di crescita ed una motivazione interna a fare "questo" o "quello". A mio avviso, ciò è possibile quando non subisce continue pressioni esterne che celano una volontà dell'Altro di piegarlo alle sue aspettative, inducendolo a percorrere percorsi di sviluppo spersonalizzanti e finalizzati alla sola compiacenza dell'adulto, che potrebbero anche esporlo alla strutturazione di un Falso Sé.

Analogamente, in ambito scolastico, in un periodo storico e culturale in cui al rispetto della legge sembra prevalere il diritto al godimento legittimando gli studenti a comportarsi in modo sempre più autoreferenziale e riducendo la possibilità di porre dei limiti da parte del personale scolastico, risulterebbe proficuo un atteggiamento dell'adulto che possa conferirgli "credibilità" e "rispettabilità" per agganciare il desiderio dell'alunno d'imparare.

Ciò significa anteporre la capacità di trasmettere il sapere sulla necessità di imporre un sapere o un dato comportamento "adeguato". La differenza tra le due impostazioni è che nel primo caso si cede all'allievo la propria passione particolare mentre nel secondo si pretende dall'alunno l'adattamento ad uno standard, nella logica dell'enumerazione, dell'adeguamento ad un programma e a delle performance da sottoporre a valutazione. In quest'ultima ottica, analogamente ad un certo modo di concepire il PEP in comunità o di apprendere un figlio, non c'è spazio per il desiderio del soggetto ma un suo doversi piagare alle aspettative dell'Altro

Sarebbe importante quindi che il docente riuscisse a porsi e a rappresentare la sua materia in modo da rendersi un ideale a cui tendere piuttosto che il portatore di un impegno da assolvere o un rivale a cui opporsi.

 

Bibliografia d'approfondimento:

  1. Dalla fondazione dell'uno alla pratica in diversi, in Antenna 112, Opere riunite Buon Pastore di Venezia, Venezia 1997.
  2. Una pratica al rovescio, in Quaderni Veneziani. Autismo e Psicosi infantile - Clinica in istituzione, Borla, Roma 2006.
  3. A proposito della pratica à plusieurs, intervento al convegno PIPOL, Parigi, 14 giugno 2003, inedito.
  4. Le réel nous école, in Attualità lacaniana, n. 6/2006, Francoangeli, Milano 2008.
  5. "La legge del desiderio" e il farsi campo, in Le patologie della legge, 1° congresso scientifico della Scuola lacaniana di psicoanalisi del Campo freudiano tenutosi a Torino il 20-21 maggio 2000.
  6. La bussola del controllo: la fiducia nei controllori, in Attualità lacaniana, n. 6/2006, Francoangeli, Milano 2008.
  7. La cura del bambino autistico, Astrolabio, Roma 2006.
  8. Quale legge per il lavoro à plusieurs, in Le patologie della legge, 1° congresso scientifico della Scuola lacaniana di psicoanalisi del Campo freudiano tenutosi a Torino il 20-21 maggio 2000
  9. Il bambino psicotico e il suo Altro persecutore. Come il quadro d'entrata determina un possibile trattamento nella cura del bambino psicotico?, in Il sintomo Psicotico, La conversazione di Roma, Astrolabio, Roma 2000.
  10. Intervento sul transfert, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. 1.
  11. La direzione della cura, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. 2.
  12. La Sagna, Quadro invisibile e principi della cura oggi, in La psicoanalisi n. 37, Astrolabio, Roma 2005.
  13. Il Villone e le leggi della città, in Le patologie della legge, 1° congresso scientifico della Scuola lacaniana di psicoanalisi del Campo freudiano tenutosi a Torino il 20-21 maggio 2000.
  14. Mamma di nome, Antonia di cognome, in Attualità lacaniana n. 5/2006, Franco Angeli, Milano 2007.
  15. La psicosi e l'al di là del padre, Franco Angeli, Milano 2001.
  16. Il controllo e la clinica nelle istituzioni, in Attualità lacaniana n. 6/2006, Franco Angeli, Milano 2008.

 

Note:

[1] Cfr., J. Lacan, La direzione della cura, in Scritti vol. 2, op. cit., p. 593.

[2] Cfr., J. Lacan, Intervento sul transfert, in Scritti, vol. 1, op. cit., p. 212 e La direzione della cura, in Scritti vol. 2, pp. 591-593.

Data pubblicazione: 27 settembre 2013

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