La mente e i suoi strumenti, introduzione ai meccanismi di difesa
Sono numerosi i contributi provenienti dalla psicologia da quella dinamica a quella cognitiva che ci raccontano, attraverso il lavoro di ricerca e gli studi clinici, diversi meccanismi mentali che intervengono nella nostra quotidianità e non solo nella patologia psichica, influenzando la nostra lettura della realtà e di conseguenza il nostro comportamento e l’adattamento all’ambiente.
Sono strumenti mentali che nella maggior parte dei casi sono adattivi e ci permettono di affrontare con successo le sfide della nostra quotidianità anche se in alcune situazioni posso diventare dei veri e propri bug che causano errori di valutazione e a volte partecipano al mantenimento di uno stato di sofferenza psicologica.
Riporteremo, con degli esempi, solo alcuni tra i più importanti strumenti della nostra mente coinvolti nelle nostre scelte, decisioni, relazioni, più in generale influenti nella vita sociale, familiare e lavorativa: i meccanismi di difesa. Strumenti che già dal loro nome ci delineano la loro funzione ossia difenderci da aspetti “traumatici, conflittuali” interni (fantasie, pulsioni, pensieri, emozioni, etc) e/o esterni (persone, oggetti, animali, situazioni, etc) e partecipare alla costruzione del Sé dell’individuo e al suo equilibrio psichico.
Rimozione
Iniziamo con uno dei più famosi ed universali meccanismi di difesa: la rimozione, non è solamente il meccanismo di difesa basilare ma è anche quel concetto che pone le basi per la teoria dell'inconscio freudiano. Possiamo definire la rimozione come l’allontanamento dalla coscienza dei desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e insostenibili dall'Io, così pericolosi per il nostro stato mentale che possono provocare una perturbazione non tollerabile.
La nostra mente lavora per noi, ci protegge da elementi che ritiene troppo dolorosi per il nostro stato mentale. Gli esempi da fare sono diversi, uno che può anche non essere rilevante sul piano clinico, considerato da Freud (1901) in Psicopatologia della vita quotidiana, è la momentanea amnesia. Esempio: un giornalista dimentica il nome di un politico che sta citando in un contesto in cui è evidente che il giornalista prova qualche sentimento negativo inconscio verso quella persona.
Oppure gli atti mancati come il dimenticare di effettuare un colloquio di lavoro perché riattiva lo schema “non mi sento all’altezza, non farò mai nulla di buono” aspettativa appresa probabilmente nelle relazioni famigliari o più in generale sociali che la nostra mente tende a controllare con i strumenti che ha a disposizione.
Negazione
Un altro meccanismo interessante, collegato con la rimozione, è la negazione, un modo di prendere coscienza del rimosso, in verità è già una revoca della rimozione, non certo però un'accettazione del rimosso. Negare alcunché nel giudizio è come dire in sostanza: "questa è una cosa che preferirei rimuovere" e di conseguenza la nego. La negazione è la variante meno grave del diniego in cui vi è una completa scotomizzazione del dato di fatto conflittuale, senza alcuna consapevolezza di ciò.
Nella negazione di livello nevrotico quello che viene negato è solo l'affetto, mentre il rapporto con la realtà è di norma mantenuto. Un esempio è il “non vedere” alcuni atteggiamenti sadici di un genitore “base sicura” perché questo vorrebbe dire ridefinire gli aspetti affettivo/cognitivo dei propri legami e di conseguenza il proprio equilibrio psichico. Diversamente il diniego è un meccanismo di difesa considerato molto primitivo e generalmente associato a gravi disturbi della personalità, compresa la psicosi, viene utilizzato quando il pericolo potenziale per il mantenimento della struttura psichica è estremo. l’esperienza è governata dalla convinzione prelogica che “se non lo riconosco non succede”.
Con il diniego l'individuo esclude dalla coscienza, in modo automatico e involontario, certi aspetti della realtà che altrimenti sarebbero causa di troppa angoscia o dispiacere. Un esempio di diniego è quello in cui una persona nega la gravità di una malattia che può riguardare se stesso oppure il coniuge, il figlio o il genitore. Ci sono dei casi in cui ad essere negata è la morte di una persona cara, come nel caso della signora che molti mesi dopo la morte del marito conservava le stesse abitudini, ad esempio, apparecchiare la tavola per due.
Idealizzazione
Passiamo a un altro meccanismo di difesa che è l’idealizzazione, processo mentale mediante il quale la persona costruisce immagini del Sé, di oggetti ed eventi esterni irrealistiche, totalmente positive e onnipotenti. Questo strumento della nostra mente è piuttosto comune nell’innamoramento, quando vediamo il partner come una persona senza difetti, perfetta, questo meccanismo potrebbe avere anche delle basi evolutive con l’obiettivo di facilitare la costruzione della relazione di copia e di conseguenza incrementare le probabilità della perpetuazione della specie umana.
L’idealizzazione dei genitori è però fondamentale nell’infanzia nella costruzione del Sé del giovane uomo. Nell’ottica di Kohut l’immagine interiorizzata di perfezione del genitore andrà a modellare la struttura dell’Ideale dell’Io che, con i suoi valori, rappresenta una guida interiore, che spinge l’Io alla realizzazione (…) influenzandone la salute psicologica.
Identificazione
Anche il meccanismo di difesa dell’identificazione è importante per lo sviluppo del bambino, per identificazione si intende un auto-attribuzione ed "assunzione" di caratteristiche e qualità proprie dell'oggetto stimato e amato. È fondamentale nello sviluppo del bambino che "copierà" caratteristiche dei genitori e di altre persone significative nel corso della sua educazione.
In sintesi l’identificazione è un processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un'altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest'ultima. Un'altra forma d’identificazione, che per prima Anna Freud tratta nel libro l'Io e i meccanismi di difesa, descrive un particolare tipo di identificazione, "l'identificazione con l'aggressore", osservando il fatto che tanto i bambini quanto gli adulti si identificano spesso con le persone che essi temono o odiano, soprattutto se simili persone sono in posizione di potere.
Il bambino fa fronte a una persona minacciosa identificandosi con essa e padroneggiando quindi l'angoscia. L’identificazione con l'aggressore: indica l'assumere il ruolo dell'aggressore e dei suoi attributi funzionali, o l'imitarne la modalità aggressiva e comportamentale. Un suo sottotipo particolare è la cosiddetta "sindrome di Stoccolma".
La “Sindrome di Stoccolma” è una condizione clinica il cui nome origina da un episodio dell’agosto del 1973 quando quattro impiegati di una banca di Stoccolma dopo essere stati presi in ostaggio da due rapinatori per quasi una settimana; dopo la loro liberazione testimoniarono a favore dei rapinatori. Sono diversi i casi di eventi criminali come abusi e violenze caratterizzati dall’identificazione con l’aggressore.
Questo meccanismo per il quale la vittima solidarizza con il suo carnefice, fino in alcuni casi all’innamoramento, può avere una valenza positiva di protezione del soggetto che subisce una violenza. In alcuni casi quando la vittima affronta uno stress molto intenso, che supera il suo livello di tolleranza, dove c’è il rischio di perdere la propria integrità fisica e psicologica si potrebbe innescare un processo d’identificazione ed empatico di alcune caratteristiche cognitive e comportamentali dell’aggressore.
Un processo che a livello interno psicologico può aiutare ad affrontare l’evento fortemente traumatico e intollerabile, ad un livello esterno, attraverso un comportamento collaborativo e sottomesso, ridurre l’aggressività e la fuga della vittima incrementando la sua aspettativa di vita.
Formazione reattiva
Può capitare che quando si presentano impulsi angosciosi e dolorosi, desideri inaccettabili per la nostra coscienza, si attivi il meccanismo di difesa denominato della formazione reattiva tramite il quale l’individuo evita e si difende accentuando e manifestando la tendenza opposta sostituendo un desiderio inaccettabile con un suo opposto come l’esibizionismo coperto da un atteggiamento di pudore, oppure l’ambizione coperta dalla modestia, oppure impulsi d’odio coperti dall’amore.
Ad esempio un bambino che copre la sua gelosia verso il fratellino appena nato attraverso attenzioni esagerate rivolte al neonato (i pizzicotti affettuosi, la vicinanza fisica eccessiva e il controllo) che spesso poco si distinguono da un vero e proprio tormento, ma permettono al bambino di gestire meglio i sentimenti verso il fratellino. A sostegno dei meccanismi reattivi possono essere messi in atto dei cerimoniali ossessivi che costituiscono una ulteriore barriera alla manifestazione degli impulsi aggressivi più profondi.
Proiezione
Ci sono situazioni dove tendiamo a trasferire all’esterno aspetti che riteniamo inaccettabili per la nostra mente, questi aspetti del nostro Sé vengono attribuiti su un altro oggetto o sull’intero ambiente. Questo processo mentale viene denominato proiezione è spesso alla base della paranoia, semplificando molto: le nostre insicurezze, ostilità, aggressività vengono attribuite, proiettate all'esterno, su altre persone, o sull'intero ambiente, che verrà così percepito come costantemente ostile e pericoloso per la sopravvivenza dell'individuo.
Un esempio più banale possiamo trovarlo in alcuni rapporti di coppia, quando il partner esprime poca fiducia e una paura immotivata di tradimento. Nell’ottica della proiezione questa paura può originare da un’insicurezza contornata da impulsi attrattivi, sessuali verso l’esterno di natura extraconiugale. Sentimenti che possono essere gestiti, dalla nostra mente, con il meccanismo della proiezione (trasferendo sull’altro le nostre pulsioni). In particolare questo può capitare in quei soggetti i cui impulsi creano conflitto, senso di colpa, rispetto ad aspetti di natura valoriale come la fedeltà, l’onestà, la correttezza o più in generale una discrepanza rispetto all’immagine che si ha di Sé.
La proiezione insieme allo spostamento sono meccanismi di difesa collegati alle fobie. Nel famoso caso di Freud del piccolo Hans con la fobia per i cavalli, i contenuti psichici di Hans erano, sì, d’amore nei confronti del padre, ma anche di odio. Il bambino non poteva tollerare la presa di coscienza di detti vissuti aggressivi verso la figura paterna, pertanto, li doveva proiettata all’esterno. Un angoscia che una volta proiettata veniva spostata sulla figura del cavallo, che diventa così l’oggetto della fobia del bambino.
Spostamento
Lo spostamento è un processo che ha una funzione di per se positiva non far sgretolare l’impalcatura psichica del soggetto davanti a sentimenti inaccettabili, questi verrebbero spostati su un oggetto "sostitutivo" che assume il ruolo di oggetto manifesto, o apparente, ed è in stretto rapporto simbolico con l'oggetto reale o la rappresentazione mentale che causa l'attivazione di questa difesa.
Ecco elencate alcune delle fobie più comuni divise in categorie:
- Fobia dello spazio
Si manifesta con la paura di uscire, angoscia delle strade, con la paura degli spazi aperti (agorafobia), o degli spazi chiusi (claustrofobia).Varietà di questa categoria sono la cosiddetta vertigine fobica (paura delle montagne, degli ascensori, dei piani alti); la paura dell'oscurità (vissuta come spazio minacciante); dei mezzi di trasporto (es. degli aerei o dei treni); paura della folla (ma anche di parlare o comparire in pubblico). - Fobie come residui della prima infanzia
Paura dei grossi animali conosciuti dal bambino per esperienza diretta o attraverso racconti (cani, cavalli, leoni, lupi ecc) immaginati in atteggiamenti minacciosi pronti a divorare e inseguire. - Fobie come residui della seconda infanzia
Paura degli animali piccoli (topi, insetti ecc.), la cui minaccia per l'integrità del corpo genera repulsione.
Inoltre, il meccanismo dello spostamento lo possiamo anche trovare nell’atto creativo, dove alcuni aspetti come quelli di natura aggressiva o sessuale vengono trasformati in attività artistiche come la pittura e la scultura, più accettabili dalla nostra “realtà”.
Concluderei con due strumenti che evolutivamente sono ritenuti più primitivi ma altrettanto utili nello sviluppo psicologico dell’individuo. Questi sono la scissione e l’identificazione proiettiva.
Scissione
La scissione possiamo descriverla come la separazione degli aspetti in conflitto o degli stressor, un meccanismo che permette di tenere divisi gli stati affettivi opposti (parti buone e cattive), spesso vissuti come non integrabili ("tutto o nulla"). L’individuo affronta i conflitti emotivi considerando se stesso o gli altri come completamente buoni o completamente cattivi non riuscendo a integrare le caratteristiche positive o negative di sé e degli altri in immagini unitarie. “mio padre è una persona magnifica” , “mia madre è una persona sporca”, spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato.
Questi soggetti affrontano la complessità affettiva vissuta come distruttiva annientante dividendo le immagini cariche emotivamente per poterle meglio sopportare. Ad esempio, una donna con un disturbo di personalità borderline può percepire il terapeuta totalmente buono, mentre considera stupidi, ostili e indifferenti gli impiegati amministrativi che lavorano nello stesso contesto.
Oppure il terapeuta stesso può diventare improvvisamente il bersaglio di una rabbia incontrollata, nel momento in cui il paziente lo vede come una personificazione del male, mentre soltanto la settimana prima lo considerava assolutamente buono. Questo fenomeno può capitare anche con le persone affettivamente significative
La scissione originerebbe evolutivamente per affrontare la complessità emotiva interna del bambino nel rapporto con gli oggetti esterni e interni fase che la Melanie Klein ha identificato come schizoparanoide. Un meccanismo che affievolisce la sua importanza nel momento in cui il bambino assimila e fa convivere le parti scisse in un unico ambiente capace di mantenere e sostenere la pressione emotiva che nasce dalla mescolanza di aspetti contraddittori del sé e dei rapporti con gli oggetti esterni fase che viene identificata dalla Klein come depressiva.
La scissione è un meccanismo di difesa con una funzione adattiva per il bambino e che, nell'adolescenza e nell'età adulta, opera una separazione di qualità dell'oggetto o dell'Io, pur non compromettendo l'esame di realtà. Trattandosi di un meccanismo di difesa arcaico, che nasce in senso evolutivo, la scissione può presentare (in alcuni casi e con un impiego massiccio e rigido) aspetti fortemente maladattivi come avviene nelle psicosi.
Identificazione proiettiva
L’Identificazione proiettiva è un processo di proiezione spesso di qualità percepite come "cattive" (proiezioni di sensi di colpa, invidia, angosce varie, idee depressive, ecc) dell'Io sull'oggetto relazionale, e successiva identificazione al fine di esercitare un controllo (spesso aggressivo) su di esso. Proiettando sull'altro le proprie qualità inaccettabili l'Io può sviluppare l'illusione di poterle dominare dall'esterno. È un meccanismo di difesa complesso, che opera in seguito ad una scissione.
Partiamo da un caso clinico tratto da Ogden [cit., pp. 18-20; originariamente pubblicato sull'Int. J. Psychoanal., 1979, 60: 357-373] letto nel articolo sull’identificazione proiettiva di Paolo Migone.
Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all'analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall'analisi "ci guadagnava qualcosa", diceva "forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile", e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l'analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l'analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell'inizio di una seduta, l'analista pensò di accorciare l'ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l'analista. Gradualmente, l'analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente "il valore di quello che lui pagava".
Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l'analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo "inutile" lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l'essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l'analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico.
Il padre del Sig. K aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l'avidità del paziente per il tempo, l'energia e l'affetto della madre aveva provocato l'abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all'analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l'abbandono da parte del padre (transferale) e l'attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell'analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l'analista e l'analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L'interazione aveva sottilmente generato nell'analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all'inizio anch'egli cercò di negarlo e sconfessarlo.
Per l'analista, il primo passo nell'integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell'aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell'analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell'analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l'analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro.
Dopo un po' di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l'analista sembrava felice di ricevere "quel bel grasso assegno", e che ciò "non si addiceva molto ad uno psichiatra". L'analista sorrise un po', e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l'accettazione da parte dell'analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l'internalizzazione da parte del paziente. L'analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l'interazione terapeutica.
Si può vedere nel caso riportato le fasi della identificazione proiettiva, la proiezione sull’oggetto relazionale (il terapeuta), in questo caso viene proiettato il sentimento di avidità, proiettato perché ha una valenza conflittuale per il paziente. Questa condizione blocca la terapia, perché il paziente controlla e manipola tale sentimento una volta plastificato sull’altro, rendendo difficile il lavoro terapeutico. La capacità dell’analista di elaborare tale sentimento di renderlo naturale e innocuo a intaccato uno dei possibili modelli operativi interni che semplificando afferma: “se richiedo troppo, se sono avido, verrò colpevolizzato e abbandonato”.
Questi sono solo alcuni degli strumenti che la nostra mente può utilizzare per gestire gli stimoli che arrivano dal nostro mondo interno o dalla realtà esterna, una complessità di sollecitazioni che la nostra mente deve saper trattenere, allontanare, incentivare, utilizzare, investire, elaborare, distinguere e così a continuare.
Gabbard (2005) definisce i meccanismi di difesa come:
“Meccanismi diretti a preservare un senso di autostima di fronte a vergogna e vulnerabilità, a garantire un senso di sicurezza quando l’individuo si sente gravemente minacciato da abbandono o alti rischi e a proteggerlo nei confronti dei pericoli esterni”.
Attività che la nostra mente svolge in modo procedurale, autonomo, caratteristici della struttura dell’Io, inconsci, lontani dalla nostra attenzione. Un’attenzione che rimane deresponsabilizzata dal complesso lavoro che la nostra mente svolge. Un lavoro di organizzazione di semplificazione della realtà che permette all’uomo di mantenere un equilibrio psichico sufficientemente adattivo.
Se però i fattori di rischio interni ed esterni aumentano (vulnerabilità biologiche, eventi negativi di tipo psicologico e/o sociale) può capitare che i meccanismi di difesa si irrigidiscano, prevalgano quelli primitivi e non siano più gli strumenti utili e sufficienti al mantenimento di un equilibrio psicologico adeguato alla nostra società, cultura aprendo così alla psicopatologia.
Bibliografia
- Gabbard Glen O., (2005), “Introduzione alla psicoterapia psicodinamica”. Cortina Raffaello, Milano.
- Bowlby J., (1989), “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento”. Cortina Raffaello, Milano.
- Freud A., (1978), “L’Io e i meccanismi di difesa, tr. It. In Opere di Anna Freud”, Bollati Boringhieri, Torino.
- Freud S., ( 1971), “Psicopatologia della vita quotidiana”. Boringhieri, Torino.
- Klein M., (1978), “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, tr. It. In Scritti 1921-1958”. Boringhieri, Torino.
- Klein M., (1978), “Note su alcuni meccanismi schizoidi, tr. It. In Scritti 1921-1958”. Boringhieri, Torino.
- Kohut H., (1976), “Narcisismo e analisi del sé”. Boringhieri, Torino.
- Migone P., http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt49ip88.htm