La terapia elettroconvulsivante (TEC): l'elettroshock oltre il nido del cuculo
Esperianza personale sull'utilizzo di una delle terapie più efficaci in psichiatria ma tra le più controverse e dimenticate, colpevolmente, in Italia a danno dei pazienti.
L'esperienza francese
Mentre scendo con l’ascensore che porta nel seminterrato della clinica provo un misto di curiosità e ansia. Non è la prima volta. Da studente, paziente, familiare o conoscente mi è capitato molte volte di entrare in una sala operatoria e la sensazione è stata sempre la stessa. Ovviamente prevale la curiosità quando non sono coinvolto, l’ansia se mi riguarda più da vicino.
Non si parla la mia lingua e ogni tanto mi sfugge qualche parola. Accompagno Philippe, lo psichiatra incaricato, io sono semplice spettatore.
Quando si apre la porta dell’ascensore sono un po’ smarrito, siamo in una grande anticamera in cui si aprono diverse stanze, in una si intravedono delle persone sedute, in una c’è scritto arte terapia, in un’altra dei paraventi azzurri coprono la vista di quelli che sembrano dei lettini operatori. Dietro un’altra porta c’è scritto farmacia. Entriamo in una grande sala, l’ambiente accogliente, il personale rilassato, vedo l’anestesista, non lo conosco, è seduto a una scrivania, scrive su una cartella clinica. Su un tavolo rotondo dei biscottini e un grande bricco di caffè attendono che qualcuno si serva. Sono le due del pomeriggio e veniamo direttamente dalla mensa. I pazienti invece sono a digiuno dalla mattina. Sul tavolo e accanto al caffé vedo le loro schede delle precedenti sedute con il consenso firmato. C’è anche scritto se sono mancini o no.
L’anestesista è già pronto, ha visitato tutti i pazienti due giorni prima.
Non usa la preanestesia perché l’intervento sarà brevissimo e perché le benzodiazepine hanno un effetto anticonvulsivo. Per lo stesso motivo vengono sospese tutte le terapie con antiepilettici usati come stabilizzanti dell’umore.
Le infermiere preparano le ultime cose. Riconosco Marie, grandi occhi azzurri e gran pancione (tra qualche giorno andrà in maternità), e Rose, la caposala responsabile del servizio, capelli corti, occhialoni con una grossa montatura bianca, aspetto severo da tedesca ma simpatica. Alcuni pazienti sono già pronti nel lettino, l’elettrocardiografo e l’ossimetro (una mollettina sul dito) sono collegati e in funzione, lo sfigmomanometro (l’apparecchio per la pressione) è infilato su un braccio, l’agocannula sull’altro, la maschera d’ossigeno li aiuta a respirare e rilassarsi.
Sul monitor si può seguire l’andamento dei vari parametri vitali: al centro si vede la frequenza cardiaca, i bip accompagnano il tracciato che si disegna sullo schermo, un numero in alto a destra indica la quantità di ossigeno presente nel sangue, subito sotto un altro numero indica la frequenza cardiaca, in basso la pressione arteriosa. Ogni lettino ha il proprio monitor, accanto un tavolino con la mascherina per l’ossigeno e un Pallone Ambu per ogni paziente. Accanto altri strumenti, siringhe, garze. Alcuni pazienti sono un po’ tesi, hanno i battiti accelerati, altri sono più rilassati: si vede chiaramente dal monitor. Qualcuno si è assopito e russa. La stanza è in penombra, per creare un ambiente con luce soffusa e far rilassare i pazienti. In sottofondo una musica accompagna il lavoro delle infermiere e dei medici.
Scorgo Guillaume, un vecchietto sui 70 anni. Accanto al suo lettino l’infermiera gli ha già fatto togliere la protesi dalla bocca. Mi ricordo giorni prima il suo ricovero. Seguivo il giro di Philippe per familiarizzare con la clinica.
Entriamo nella stanza di Guillaume, appena arrivato, è seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto, siamo in quattro ma non si gira neanche a guardarci. Philippe lo chiama, “signor Guillame, come va?” Non risponde, gira appena la testa, guarda Philippe, lo sguardo assente, inespressivo, poi ritorna nel suo mondo. A parte quel movimento della testa quasi non reagisce agli stimoli, sembra poco interessato a quello che gli succede intorno e le infermiere devono aiutarlo e guidarlo per alzarsi dal letto, per l’igiene personale, vestirsi e mangiare. Si decide per una terapia elettroconvulsiva d’emblé. Cominciano indagini cliniche e strumentali che normalmente si praticano prima di sottoporre un paziente a una qualunque anestesia generale. Esami del sangue, visita neurologica, elettrocardiogramma e, in casi selezionati, anche la RMN per individuare l’eventuale presenza di alterazioni cerebrali che renderebbero pericolosa questa terapia. Anche adesso sembra che non gli importi molto di quello che accade.
Poi mi guardo intorno per cercarlo, finché vedo l’apparecchio: è posto sopra un carrello, ha l’aspetto innocuo. È un Thymatron System IV di ultima generazione, un po’ più piccolo di un vecchio videoregistratore; alcuni pulsanti, due manopoline, delle spie luminose. Fornisce uno stimolo elettrico che dura di solito da 0.5 a 8 secondi e di voltaggio compreso tra 50 e 150 V in grado di garantire una convulsione cerebrale generalizzata. Posteriormente esce il cavo di tensione che si collega alla presa, davanti un cavo più lungo che poi si sdoppia con gli elettrodi per somministrare la terapia; questi assomigliano alle vecchie cornette del telefono come quelle che si vedono nei film in bianco e nero degli anni ‘40 o ’50. Hanno un diametro di circa 3-4 cm l’uno.
In un altro carrello l’anestesista ha preparato le siringhe con gli anestetici: ne conto 54, quindi questa volta 18 pazienti. Una siringa contiene atropina da somministrare subito prima dell’anestetico, in un’altra siringa; si possono usare anestetici di vario tipo, di solito a breve durata d’azione per un risveglio rapido come il tiopentale sodico, la ketamina o il propofol. Infine viene iniettata la succinilcolina che determina paralisi flaccida con arresto respiratorio. In un cassetto scorgo delle siringhe di midazolam, un tranquillante. Sono pronte nel caso il paziente sia un po’ agitato dopo la terapia elettroconvulsiva. Ogni centro segue delle tecniche differenti.
Alcuni fanno un’anestesia profonda altri meno profonda per rendere più veloce il risveglio. Per il paziente è lo stesso, non sente niente ma si risveglia più velocemente e dopo è meno confuso e smaltisce più velocemente l’effetto dell’anestesia. Cambia per il medico che deve accorgersi della durata e intensità delle scosse; alcuni utilizzano un laccio emostatico in una delle estremità in modo che l’anestesia non passi completamente e si possano osservare le contrazioni. Qui invece fanno un’anestesia leggera e di breve durata, massimo 5 minuti sia per favorire il risveglio che per osservare l’efficacia della terapia.
Philippe posa la sua mano sul paziente per sentire le convulsioni. Alcuni si svegliano in fretta, tranquillamente, altri sono un po’ agitati ed è necessario sorvegliarli. Marc è un ragazzone alto e grosso. Per lui è necessario un’anestesia un po’ più forte. Dopo la terapia, ancora sotto anestesia è un po’ agitato, l’anestesista gli pratica l’endovenosa di midazolam e si rilassa.
Dopo, i pazienti rimangono nel lettino una mezz’ora circa per risvegliarsi, poi un’altra mezz’ora nella sala d’aspetto e infine vengono riaccompagnati nelle loro stanze.
Philippe fa il giro dei pazienti, parla con ciascuno, chiede come va, come si sentono. Qualcosa si muove, ci siamo, vedo l’infermiera mettersi sulla testa del paziente, gli controlla la bocca, mette il paradenti poi di nuovo la mascherina d’ossigeno, gli tira la testa un po’ indietro, l’anestesista di lato, si tira dietro il carrello con le siringhe; fa la prima iniezione nell’agocannula (atropina), lo psichiatra collega l’apparecchio alla rete, lo accende, un’altra infermiera tira il paravento per un po’ di riservatezza; io mi metto ai piedi del letto. L’anestesista fa la seconda iniezione (l'anestetico), controlla che faccia effetto, bastano pochi secondi; osservo il monitor e vedo alcuni parametri rallentare. Lo psichiatra toglie la coperta scoprendo le gambe del paziente per poter osservare le contrazioni, porge gli elettrodi all’infermiera che vi mette un po’ di gel conduttore, li posiziona ai lati della testa con l’interposizione di una garza, un elettrodo sulla tempia destra o sinistra a seconda dell’emisfero dominante, l’altro sul lato opposto o sulla fronte secondo le istruzioni dello psichiatra.
Sono due tecniche differenti, bitemporale e frontotemporale.
Secondo la letteratura internazionale la tecnica bitemporale è più efficace ma può dare più effetti collaterali, ma esiste anche la bifrontale, ancora da studiare meglio. L’anestesista fa la terza iniezione e poi da l’assenso, Marie poggia gli elettrodi sulla testa del paziente, Philippe sceglie il voltaggio, controlla l’impedenza quando l’infermiere ha posizionato gli elettrodi e dà l’impulso tenendo il dito premuto fino a quando il suono che indica la durata della somministrazione della scarica si interrompe. Guillaume ha una contrazione tonica, il suo corpo si contrae impercettibilmente poi si rilascia quando Philippe toglie il dito dall’interruttore, subentra una breve fase tonico-clonica seguita dalle scosse cloniche generalizzate, anche queste poco evidenti grazie alla curarizzazione.
Philippe mette la mano sulla gamba di Guillaume per sentire le contrazioni poi la sposta sul mento per captare fino all’ultima percettibile e quando l’ultima è scomparsa annota i secondi: numerosi studi indicano che più lunga è la durata della crisi convulsiva maggiore sarà l’effetto della terapia. In questo caso la valutazione è puramente clinica anche se nel Thymatron è prevista la possibilità di eseguire l’elettroencefalogramma che potrebbe dare una misura più efficace delle convulsioni subcliniche non visibili ma presenti e sufficienti per l’effetto terapeutico. Stanno aspettando di poter avere un elettroencefalografo digitale che occupa meno spazio e consente di mantenere un archivio.
L’anestesista si mette al posto dell’infermiera dietro Guillaume, scollega il tubo dalla mascherina e lo collega al Pallone Ambu, tira la mandibola indietro e in alto e comincia a premere lentamente e ritmicamente sul palloncino, sorveglia attentamente che il paziente riprenda a respirare normalmente. Dopo alcuni secondi è tutto finito, Guillaume comincia a russare e dopo 10 minuti si sveglierà.
Tra le ultime pazienti c’è Françoise. L’ho conosciuta il giorno stesso. Le ho fatto l’ingresso per la sua seduta di richiamo. È accompagnata dalla madre e la sorella. Mi accorgo che qualcosa non va, i familiari sono molto ansiosi, la paziente è un po’ assente, sorride fatua, è triste. Voglio parlarle da sola. Il discorso è un po’ confuso, si vede che è agitata; capisco che alcuni giorni prima ha avuto un’altra crisi, è diventata aggressiva, si è scagliata contro gli ospiti a casa sua e dopo ha tentato il suicidio. Infatti arriva dal Pronto soccorso dove era ricoverata da tre giorni. “Cosa è accaduto?” le chiedo. Non sa spiegarlo.
Mentre prendo appunti mi guarda dubbiosa, poi sospettosa, mi chiede cosa faccio, smette di parlare, non si fida: “cosa ne fa poi di quello che scrive?”, “poi lo usa contro di me”, “non la conosco”, “al pronto soccorso volevano uccidermi”. Ha delle idee persecutorie, frequenti nelle manifestazioni psicotiche del disturbo bipolare. Smetto di scrivere e cerco di guadagnarmi la sua fiducia. I familiari confermeranno il racconto con più particolari. Dal momento che Françoise ha mangiato di notte e che ha fumato da poche ore viene lasciata per ultima. È necessario prendere alcune precauzioni anche se le ultime indicazioni in anestesia permettono il consumo di cibo fino a 6 ore prima e di liquidi fino a 2 ore prima dell’anestesia. Sono le 5 del pomeriggio, abbiamo finito, adesso si può prendere una tazza di caffè. Le infermiere scollegano le apparecchiature e disfano i letti.
Mentre mi allontano vedo gli ultimi pazienti andare verso l’ascensore accompagnati da un infermiere. Guillaume è già nella sua stanza da più di 2 ore.
Qualche settimana dopo vedo la signora Emilie. Torna per la seduta mensile di mantenimento. Si deve ricoverare per un giorno e devo farle la cartella di ingresso, è la regola. Mi presento, le chiedo come va e inizia a parlare come un fiume, mi vuole raccontare la sua vita.
La interrompo e le pongo delle domande specifiche riguardo alla terapia, alla sua malattia. Si lamenta di un lieve calo della memoria, non ha un’amnesia vera e propria, le spiego che con il tempo tutto tornerà come prima. Le chiedo se è preoccupata, mi risponde “un poco, è pur sempre un intervento, come un’operazione, ma prima stavo peggio”.
Rivedo anche Françoise. Sta meglio, senza farmaci, le avevo sospeso subito il valproato di sodio, un farmaco antiepilettico, visto che doveva fare la TEC. Ha fatto 4 applicazioni e adesso le stiamo distanziando in vista della dimissione e del mantenimento. Gli ultimi giorni era angosciata a causa di una denuncia che ha fatto contro il suo ex compagno le settimane precedenti quando era in una fase espansiva delirante. Ha telefonato alla polizia per ritirare la denuncia ma ormai la causa è già passata in procura e va avanti da sola. I pazienti bipolari si mettono spesso nei guai da soli. Ogni mattina mi parla di questi pensieri che la tormentano, ci rimugina e non vede l’ora di fare la terapia per stare meglio. Le chiedo se ha paura dell’applicazione: “no, non vedo l’ora di stare meglio”.
Incontro con la terapia
Non ricordo quando sentii parlare per la prima volta dell’elettroshock, ma lo conoscevo ancor prima di entrare all’Università. Nel reparto di neurologia francese che ho frequentato da studente sentii il professore parlare di elettroshock con assoluta naturalezza. Nessuno degli studenti presenti si stupì. Intervenni: “Scusi ma ha proposto l’elettroshock per una malattia di Parkinson?” – “Certo, è una delle possibili indicazioni di questa tecnica in assenza di risposta ad altre terapie, è molto efficace ma purtroppo il suo effetto nel Parkinson dura poco”.
Ricordo ancora la prima seduta cui ho assistito. Frequentavo a Lione uno degli ospedali psichiatrici più grandi di Francia, Le Vinatier. Conoscevo la tecnica solo teoricamente. Alla prima occasione mi presentai volontario per accompagnare Sylvette a fare la sua seduta mensile, sismo de rappel come la chiamano in Francia. Sylvette era schizofrenica con un lieve ritardo mentale. L’ho conosciuta sorridente e allegra e avevo difficoltà a credere che avesse passato quello che era descritto in cartella: degli episodi deliranti con allucinazioni e violente crisi di agitazione che avevano richiesto a più riprese una contenzione, la stanza di isolamento e lunghe e pesanti terapie farmacologiche prima di arrivare a una stabilizzazione con la terapia elettroconvulsiva.
Ma dopo aver assistito personalmente a episodi simili in altri pazienti ci credevo. L’unità Thérapies Biologiques si trova in un’altra area dell’ospedale, dobbiamo attraversare il parco: lo facciamo in macchina perché la paziente è sotto la nostra responsabilità e non la si può accompagnare a piedi. Mentre ci avviciniamo al reparto sono un po’ teso, non so cosa aspettarmi. Suoniamo, le porte sono chiuse a chiave, ma è normale, anche il reparto da cui veniamo è chiuso. Dentro trovo un normale reparto d’ospedale, le stanze sono tutte aperte, c’è un gran via vai, nessuno fa caso a noi ma il medico che accompagno sa dove andare. Entriamo in una stanzina con due lettini. Anche qui le stesse apparecchiature descritte sopra. Tutto dura circa 10 minuti. Nei tre anni in cui ho potuto seguirne l’evoluzione, Sylvette è rimasta stabile conducendo una vita quasi normale a casa sua. Tornava in ospedale una volta al mese per la terapia.
Charlotte invece non è stata altrettanto fortunata. Conobbi anche lei al Vinatier. Era depressa, aveva perso la madre da poco e non si dava pace. I medici erano indecisi per l’elettroshock, tanto più che aveva una bambina di 2 anni di cui doveva occuparsi. Si decise una cura tradizionale e dopo più di un mese e mezzo di antidepressivi e psicoterapia sembrava stare meglio, sembrava avere accettato la situazione, riceveva le visite del marito con la figlia e venne dimessa: ma al primo controllo non venne, si era suicidata. Non sapremo mai se l’elettroshock l’avrebbe aiutata.
La disinformazione al pubblico
Mentre osservo le applicazioni della terapia elettroconvulsivante mi torna in mente il film di Milos Forman (1975) tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey del 1962. Quando lo vidi per la prima volta, più che restare impressionato, ebbi difficoltà a credere che la terapia venisse usata a scopo punitivo: era un’interpretazione troppo semplicistica pur se motivata da una parte della storia della psichiatria (Shorter, 1997; Valenstein, 1986) e dalla deriva eugenetica di alcuni psichiatri durante la seconda Guerra Mondiale (Lemoine, 2005).
McMurphy, il personaggio interpretato da Jack Nicholson, uno credibile psicopatico, viene prima punito con l’elettroshock per essersi ribellato a un guardiano e quando tenta di strangolare l’infermiera tiranna viene lobotomizzato. A quel punto l’amico indiano (nativo americano) che non è folle ma fa solo finta di esserlo, piuttosto che vederlo ridotto così e darla vinta agli oppressori lo ammazza e si ribella a quell’istituzione totalitaria scappando verso la libertà, via dal cuckoo’s nest, dalla pazzia (cockoo in senso traslato significa anche pazzia).
Così si chiude a effetto questo film che mette l’accento sugli aspetti negativi del manicomio con una caricatura dell’infermiera sadica, sulla terapia come punizione, sull’istituzione manicomiale come luogo di segregazione, sull’effetto della società sui malati che in realtà sono altrettanto sani di quelli fuori dal manicomio (la gita-fuga organizzata da McMurphy), sul sottile confine tra normalità e follia (McMurphy sta meglio del direttore e dell’infermiera) e la morte come estrema ratio verso la libertà.
Sia Kesey che Forman hanno messo nel racconto una parte della loro esistenza e del clima di rivolta che andava maturando in quegli anni (Shorter, 1997). Kesey, giornalista scientifico, aveva preso parte come volontario a un esperimento finanziato dalla CIA sulle droghe psicoattive (LSD, psilocibina, mescalina, cocaina e DTM). La base del suo romanzo deriva dai colloqui che ebbe con malati mentali nell’Ospedale psichiatrico di Menlo Park, California, e dalla personale esperienza con l’elettroshock cui venne sottoposto.
Egli riteneva che i malati di mente non fossero dei pazzi ma semplicemente individui rifiutati dalla società perché non conformi agli stereotipi convenzionali di comportamento e pensiero. Forman invece, di origine ceca, perse i propri genitori all’età di 9 anni perché deportati ad Auschwitz dalla Gestapo. Interessato ai temi sociali ha diretto diversi film di successo. Il suo film ha vinto tutti e cinque i più importanti Oscar agli Academy Awards nel 1975 e altri 28 premi negli anni successivi.
Ma l’elettroshock era osteggiato nella stessa comunità psichiatrica già dagli anni 1940 e 1950 soprattutto negli Stati Uniti dove la psicoanalisi era allora dominante.
Gli psicoanalisti insistevano sul fatto che l’utilità della TEC dovesse poggiare su una base psicodinamica e non biologica: ammettere che le cause delle malattie mentali fossero a livello neuronale avrebbe fatto cadere tutto il castello teorico della psicoanalisi (Shorter, 1997).
La scoperta degli psicofarmaci nel 1954 contribuisce alla riduzione dell’utilizzo della TEC anche se con la psicofarmacologia rinasce lo studio sui meccanismi biologici delle malattie mentali che porteranno dei dati biologici e non solo clinici a favore della TEC.
Negli anni ’60, i rivoluzionari anni della libertà e dell’antipsichiatria, nascono e si diffondono in tutto il mondo movimenti che si oppongono al manicomio e che negano l’esistenza della malattia mentale. Autori come Foucault (follia come creazione culturale e sociale, 1961), Szasz (il concetto di malattia mentale è inutile e socialmente pericoloso, 1960) e Goffman (l’istituzione come luogo di detenzione e di potere psichiatrico, 1961) contribuiscono alla diffusione nella classe intellettuale di una aperta ostilità nei confronti della psichiatria, delle terapie biologiche e della TEC. Kesey, Forman e gruppi religiosi come Scientology la diffondono al grande pubblico.
Disastri italiani
In Italia la nascita di Gruppi come il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani (CCDU) sorto nel 1974, fondato da Scientology che paragona la psichiatria al nazismo e nega l’esistenza delle malattie mentali; associazioni come la Società Italiana di Psichiatria Democratica che in un comunicato stampa del 1997 si opponeva alla TEC e ne collegava l’utilizzo ai concetti di incurabilità e controllo sociale del malato di mente; l’Osservatorio Italiano sulla Salute Mentale i cui soci psichiatri negano l’esistenza della malattia mentale, sono alcuni dei fattori che hanno contribuito all’abbandono in Italia della terapia elettroconvulsivante oltre ad aver influenzato parte della cultura psichiatrica italiana con la conseguenza che in quasi tutte le scuole di specializzazione non si insegna né si può fare esperienza con la TEC.
I pazienti che ho conosciuto in Italia hanno una storia esemplificativa.
Maria l’ho conosciuta a Firenze, aveva 32 anni, veniva dalla Sicilia, un viaggio lungo nella speranza di guarire da qualcosa che non capiva: “Dottore, ma perché non provo niente, perché non ho emozioni, ma è normale che non sento niente, perché?” mi chiedeva senza neanche piangere, senza emozioni. Passava il suo tempo a letto, lo sguardo perso nel vuoto.
Caterina, 23 anni, anche lei del profondo Sud, era depressa, ogni tanto si alzava dal letto e girava per i corridoi, fatua, perplessa, facendo discorsi sconnessi; un giorno la incrocio nel corridoio, mi saluta sbagliando nome (poi seppi che era quello del fidanzato), cerca di abbracciarmi ma la madre la ferma, allora incomincia a spogliarsi, si toglie i pantaloni del pigiama e la mamma interviene nuovamente, poi torna a letto per starci. Per entrambe, dopo mesi di ricovero e antidepressivi inefficaci, verrà proposto l’elettroshock: Maria è guarita, è tornata a casa sua; Caterina ha avuto un breve periodo di euforia al secondo elettroshock ma si è poi stabilizzata ed è tornata a casa.
Michele invece è toscano, apparentemente è più fortunato perché nella sua regione vi è un importante centro per la cura e la ricerca dei disturbi dell’umore. Ma vive a Firenze e deve recarsi sempre a Pisa per ricevere le cure che non trova nella sua città, anche perché affetto da una forma grave di disturbo bipolare.
Viene da una famiglia di bipolari, nonno, padre, zio e fratello, tutti malati. Molti di loro hanno fatto l’elettroshock, sono ancora vivi e non hanno nessun disturbo se si eccettuano quelli legati alla malattia cronica e ai farmaci che devono continuare a prendere. Parla dell’elettroshock come di una terapia che gli ha salvato la vita.
Diversa l’esperienza del poeta, giornalista e scrittore statunitense Jonathan Cott (2007), sottoposto a 36 elettroshock nel giro di 2 anni (1998-2000) (un numero tre volte superiore a quello degli attuali protocolli di trattamento) per una profonda depressione.
A causa di questa terapia ha sviluppato una amnesia retrograda perdendo 15 anni della sua vita, tutti i ricordi dal 1985 al 2000. Anche la poetessa italiana Alda Merini (Galli 2008) non ne ha un buon ricordo ma si riferisce a un’epoca diversa e non sembra che abbia perso la memoria. Purtroppo sono i pochi casi che fanno notizia a scapito dei molti nei quali la terapia è stata efficace e non ha avuto effetti collaterali.
In Italia esistono solo 6 centri pubblici e 3 privati in cui si pratica la terapia elettroconvulsiva (dati AITEC, 2008), cercare di aprirne altri sembra impossibile.
Oltre all’ignoranza dei medici ci si scontra sempre con la demagogia politica. “Non ho mai sentito dei discorsi tanto demagogici come in Italia” mi ha detto un giorno il cordinatore francese del settore psichiatrico del gruppo per cui lavoro. E ogni volta che mi vengono poste delle domande sulla psichiatria in Italia, cosa che capita spesso all’estero, ho difficoltà a rispondere alle naturali obiezioni che nascono: ma è vero che in Italia utilizzate pochissimo l’elettroshock? è vero che una legge l’ha proibito? Ma allora che terapie avete per le depressioni gravi e resistenti? È vero che avete chiuso gli ospedali psichiatrici? Ma i malati dove vengono curati? Pensando al calvario dei malati che ho conosciuto in Italia mi mancano le risposte: “da voi in Italia ho visto delle cose che non vedevo in Francia da 30 anni” ha concluso lo stesso psichiatra.
Settanta anni fa (1938) due italiani, Ugo Cerletti (1877-1963) e Lucio Bini (1908-1964) hanno inventato questa tecnica che velocemente si è diffusa in tutto il mondo per la sua efficacia. Nonostante ciò questa terapia ha incontrato subito molte opposizioni ideologiche (Shorter, 1997) che continuano ancora oggi nonostante i notevoli miglioramenti che sono stati apportati nella metodica. In tutto il mondo si pratica la TEC e la vasta letteratura scientifica è concorde nel ritenerla tra le più efficaci (Conca et al. 2007). Ma in Italia questa terapia è ancora associata alla tortura e al manicomio (Giannicchedda, 23 febbraio 2008) e la classe dirigente è più interessata a trovare consensi che alla risoluzione dei problemi.
Nel 1999 la circolare del Ministero della Sanità (15 febbraio 1999) restringeva ancora di più le indicazioni per l’utilizzo della TEC nonostante la stessa circolare, citando la letteratura scientifica internazionale, ne riconoscesse la validità, utilità e tollerabilità, suscitando l’ilarità della comunità scientifica internazionale (Abrams, 2000). Ai giorni nostri quando la comunità scientifica italiana si sveglia e cerca di riproporre l’utilizzo della terapia elettroconvulsivante (petizione AITEC, 2008) subito l’opinione pubblica insorge punzecchiata da giornalisti solerti (si veda ad esempio Forum Salute Mentale, 2008; Ovadia, 2008).
A Firenze ho conosciuto Mario, un professore di psichiatra molto noto che insegna psicoterapia. Durante una lezione si è vantato di far parte del Comitato Etico di un grande ospedale universitario in cui lavora e di opporre parere contrario a ogni protocollo in cui si contempla l’uso dell’elettroshock come terapia.
Quand’ero specializzando, nonostante fossi in un ospedale universitario, non si è mai parlato di elettroshock se non in occasione di alcuni pazienti inviati in altre città per essere curati con questa tecnica; nessuno dei miei colleghi, salvo quelli andati all’estero, ha mai visto come si esegue, pochi sanno di cosa si tratta. Nessun professore ce ne ha mai parlato.
L’informazione su questa tecnica, spesso condizionata da quotidiani e luoghi comuni, è lasciata alla libera iniziativa del singolo studente che comunque raramente potrà averne un’esperienza diretta. Ma in Italia è una situazione che dura da tempo e ormai la generazione che non conosce la TEC, cresciuta nel clima ideologico della cura-tortura, è arrivata a insegnare alle nuove generazioni di psichiatri, anche se alcuni fortunatamente utilizzano ancora un metro scientifico per i propri giudizi (Pallanti, 1999). Altri, come il professor Mario, preferiscono l’ideologia e nelle loro lezioni non portano mai dati, mai fatti ma solo facili opinioni. In questo clima culturale di apparente libertà nasce e si sviluppa la disinformazione anche medica. Invece quando si parla di terapie come l’elettroshock bisognerebbe tenere presenti non solo i rischi legati alla terapia ma anche quelli relativi alla malattia mentale e alla mancata somministrazione di terapie di provata efficacia.
Sarà difficile promuovere un serio dibattito che lasci da parte fantasmi e ideologie: in un paese a prevalente vocazione umanistica la scienza non trova spazio. Galileo docet.
Bibliografia:
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- AITEC (Associazione Italiana per la Terapia Elettroconvulsivante): http://www.terapiaelettroconvulsiva.it/index.htm
- Conca A, Pycha R, Giupponi G, Sani G, Koukopoulos A. Terapia elettroconvulsivante.
- Razionale per lo sviluppo di future linee guida da parte dell’Associazione Italiana per la Terapia Elettroconvulsivante (AITEC). Giorn Ital Psicopat 2007; 13: 504-522.
- Cott J. Sul Mare della Memoria, Frassinelli 2007 (On the Sea of Memory: A Journey from Forgetting to Rememberin).
- Forman M: Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975.
- Forum Salute Mentale, 2008: http://www.forumsalutementale.it/elettroshock/txt_elettroshock.htm
- Foucault M. Histoire de la folie à l’age classique, Gallimard 1961; trad it: Storia della follia, Rizzoli 1963.
- Giannicchedda MG. Il Manifesto, 23 febbraio 2008.
- Galli A. Intervista ad Alda Merini; Corriere della Sera, 15 febbraio 2008.
- Goffman E. Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi 1961(Asylums: Essays on the social situation of mental patients and other inmates, Random House, Inc 1961).
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- Kesey K: https://en.wikipedia.org/wiki/One_Flew_Over_the_Cuckoo%27s_Nest_(novel)) e https://en.wikipedia.org/wiki/Ken_Kesey.
- Lemoine P. Alexis Carrel et l’eugénisme psychiatrique. In: Lemoine P, L’enfer de la médecine… est pavé de bonnes intentions; Lafont 2005.
- Ministero della Sanità. Dipartimento della Prevenzione, Ufficio VI. La terapia elettroconvulsivante (TEC). Circolare del 15 febbraio 1999.
- Ovadia D, 2008:
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- Shorter E. Storia della psichiatria. Dall’ospedale psichiatrico al “Prozac”, Masson 2000 (A history of psychiatry. From the era to the asylum to the age of Prozac; John Wiley & Sons, Inc. Books, Inc 1997).
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