La colonscopia di "qualità"

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Dr. Felice Cosentino Gastroenterologo, Chirurgo apparato digerente, Chirurgo generale, Colonproctologo

Con l’avvio dello screening del cancro colo-rettale è nata l’esigenza di realizzare una “colonscopia di qualità”, ossia una colonscopia che permetta di vedere anche le lesioni più piccole, di anticipare la diagnosi ed evitare degenerazioni della malattia.

Con l’avvio dello screening del cancro colo-rettale è nata l’esigenza di realizzare una “colonscopia di qualità”, ossia una colonscopia con certi requisiti di garanzia per il paziente.

Fra questi requisiti ricordiamo:
- il raggiungimento del cieco (e noi aggiungiamo anche la visualizzazione del forame appendicolare) nel 97-99% dei casi;
- minimo fastidio per il paziente (e, quindi, colonscopia in sedazione);
- riscontro di polipi in almeno il 15% nelle donne e nel 25% degli uomini.

Quest’ultimo punto ha un particolare significato in quanto, è bene ricordare, che: la colonscopia tradizionale è gravata da una percentuale di lesioni non viste (“missing lesions”) alla prima esplorazione: il 6% degli adenomi sopra il cm ed il 4% degli adenocarcinomi. Dati che devono far riflettere quando viene eseguita una colonscopia di screening (...e non!).

Lo screening, quindi, ha spronato gli endoscopisti a migliorarsi e cercare nuovi accorgimenti per raffinare la propria “performance” endoscopica. In tale ottica è riemerso l’interesse verso la “Cromoendoscopia”.

La cromoendoscopia, ossia l’impiego dei coloranti in endoscopia, è una vecchia metodica nata in Giappone appena dopo l’avvento della fibroendoscopia.
Il primo impiego è stato rivolto alla ricerca del cancro gastrico superficiale (Ida, 1975) e a migliorare la definizione delle lesioni coliche (Tada, 1977). Dopo un periodo di scarso utilizzo della metodica, i coloranti sono entrati prepotentemente in uso negli anni ’90 grazie all’utilità che hanno dimostrato nello studio dell’Esofago di Barrett (Canto, 1996) e nella ricerca del cancro iniziale del colon (Kudo, 1994).

Endoscopio e colon

Per approfondire:La ricerca di sangue occulto nelle feci

Il colorante di maggior uso nel colon (ed in genere in tutto l’ambito endoscopico) è l’ Indaco di carminio. Tale colorante è detto di “contrasto” in quanto non viene assorbito, ma si stratifica sulla superficie mucosa mettendo in netta evidenza lo sbocco delle ghiandole ed ogni minima depressione o rilevatezza.
Quindi, colorante ideale per rilevare i piccoli polipi piatti, soprattutto frequenti nel colon destro. La tecnica è semplice e consiste nello spruzzare sulla mucosa del colon il colorante mediante catetere spray (o mediante la siringa collegata direttamente al canale operatore dell’endoscopio).
Il colorante si dimostra ugualmente di grande utilità nel definire le dimensioni e le caratteristiche dei polipi piatti più grandi (lateral spreading tumors - LTS).

Ma il vero progresso nella diagnostica si è avuto grazie al salto di qualità nell’immagine endoscopia con l’introduzione della Videoendoscopia che utilizza sofisticati CCD (Charge-Coupled Device). Tali CCD si sono evoluti nel tempo e dagli iniziali 100k-300k pixels si è passati in poco tempo ai 1000k pixels.
Maggiore è il numero di pixels migliore è la qualità (risoluzione) dell’immagine. Ecco per cui oggi possiamo parlare, rispetto ai videoendoscopi di prima generazione, di videoendoscopia ad alta risoluzione (high resolution endoscopy) legata, appunto, ad una più alta densità di pixels nel CCD.   Accanto al numero dei pixels altra variabile che può influenzare la qualità della visione endoscopica è la possibilità di ingrandire l’immagine (“Zoom/Magnificazione”) (Foto 1).

Visioni endoscopiche del colon
Foto 1. In queste sequenze è possibile notare la differenza fra la normale visione endoscopica,
l’endoscopia con colorazione e l’endoscopia con ingrandimento dell’immagine.

In alto, un polipo adenomatoso, in basso, un polipo iperplastico.

Cromoendoscopia ed Endoscopia ad alta risoluzione hanno entrambi contribuito allo sviluppo della tecnica operativa che ha rivoluzione l’endoscopia digestiva, la tecnica di resezione della mucosa o Mucosectomia (EMR = Endoscopic Mucosal Resection), tecnica che consente di rimuovere in uno o più pezzi le lesioni piatte, anche di grandi dimensioni (5-6 cm ed oltre), consentendo in tal modo una corretta analisi istopatologica della lesione.

I polipi piatti, per il loro sviluppo orizzontale, sono difficilmente rilevabili con l’endoscopia standard, mentre l’impiego combinato della cromoscopia (indaco di carminio) e dell’endoscopica ad alta risoluzione consente, rispetto all’endoscopia tradizionale, di elaborare sull’analisi dettagliata del “pit pattern” (sbocco delle cripte ghiandolari di Lieberkuhn) una diagnosi pre-istologica delle lesioni neoplastiche del colon.

La classificazione del pit pattern (che comprende 5 classi) presuppone che nella maggior parte delle neoplasie “piatte” le alterazioni che si sviluppano negli strati più profondi si riflettono con anomalie negli strati superficiali (Foto 2). Di conseguenza l’endoscopista, applicando tali criteri di studio, può definire l’istologia della lesione e decidere se la lesione potrà essere asportata endoscopicamente (Foto 3) o dovrà essere affidata al chirurgo.

 

CLASSIFICAZIONE DELLA MORFOLOGIA GHIANDOLARE “PIT PATTERN” PROPOSTA DA KUDO (1994)

• Pit Pattern Tipo I Corrisponde alla mucosa normale

• Pit Pattern Tipo II. Si riferisce ad una mucosa di tipo infiammatorio o  iperplastico.

Pit Pattern Tipo IIIL E’ tipico degli adenomi protrudenti

• Pit Pattern Tipo IIIS L’aspetto ghiandolare é tipico dei tumori di tipo depresso.

• Pit Pattern Tipo IV Nella maggior parte dei casi si tratta di lesioni neoplastiche.

• Pit Pattern Tipo V Comprende i cancri sottomucosi e/o avanzati.


Foto 2 Confronto fra: schema del “pit pattern”, immagine endoscopica e quadro istologico corrispondente

Tale classificazione consente di differenziare le lesioni neoplastiche e quelle non neoplastiche con buona accuratezza (93% di sensibilità e specificità). I Pit Patterns I e II sono tipici delle lesioni infiammatorie ed iperplastiche, mentre i Pit Patterns III-IV-V si riferiscono alle lesioni neoplastiche intraepiteliali o invasive.   I tempi dell’esame endoscopico, ovviamente, si allungano con l’impiego della cromoendoscopia e della magnificazione, ma non in modo significativo (5 min circa).

Lesioni piatte all'endoscopio
Foto 3: Lesione piatta (LST) del colon discendente di circa 3 cm.
Dopo colorazione con indaco di carminio viene messo in evidenza un “pit pattern” tipo IIIS e IIIL di Kudo.
Rimozione “en bloc” con tecnica EMR. Diagnosi istologica di adenoma tubulo-villoso con displasia grave.
La terapia endoscopica è stata considerata definitiva.

 

In conclusione

La cromoendoscopia consente di rilevare lesioni che, con l’endoscopia tradizionale, potrebbero sfuggire (“missing lesions”), mentre accoppiando colorazione ed ingrandimento dell’immagine (magnificazione) sugli adenomi piatti, è possibile ottenere una valutazione pre-istologica e decidere se asportare la lesione o indirizzarla direttamente al chirurgo.

 

Riferimenti bibliografici

FU K. Et ali. Chromoendoscopy with Magnification. Endoscopy 2004; 36:1089 – 1093

Colorectal Cancer Screening - Guidelines - Word Gastroenterology Organization; 2007

High resolution and High-magnification endoscopes. Gastrointestinal Endoscopy, 2009; 3:399-407

Data pubblicazione: 12 luglio 2011