Emetofobia più agorafobia, ricaduta: quale terapia?
Salve dottori,
sono un ragazzo alla soglia dei 30 anni.
Da quando ero adolescente soffro di emetofobia, poi intorno ai 20 anni ho iniziato a sviluppare sintomi sempre più invalidanti di agorafobia (i miei attacchi d'ansia arrivavano esclusivamente alla guida su strada, oppure all'aperto in spazi troppo angusti o troppo ampi, comunque senza una percepibile via di fuga).
5 anni fa intraprendo un percorso di terapia cognitivo-comportamentale per l'agorafobia: dà i suoi frutti, riesco a riguadagnare una buona libertà, ma probabilmente non ho osato chiedere troppo.
Durante la terapia è emerso che sono troppo attento anche al minimo segnale che proviene dal mio corpo, il che mi porta erroneamente a credere di essere sul punto di vomitare.
Tutto questo accade sempre negli spazi aperti, in altri contesti sono tranquillo.
La terapia dura circa 8 mesi, interrotta d'accordo con la terapeuta.
Poi, forse complice anche la pandemia e un periodo di stress, ho una ricaduta: stessi sintomi (ma meno invalidanti).
Provo un profondo senso di rassegnazione.
Ad aprile di quest'anno intraprendo un nuovo percorso di terapia, questa volta breve strategica: sono alla sesta seduta, ho ottenuto certamente dei risultati, una specie di primo sblocco, ma mi aspettavo di più, e anzi ora che è agosto e la dottoressa è in ferie, ho avuto un riacutizzarsi dei sintomi e una perdita di una parte dei risultati raggiunti.
Inizio a pensare che da queste cose non si guarisca mai.
La mia domanda è: sto sbagliando io?
Forse il problema da guarire è la paura di vomitare e non quella degli spazi aperti?
Durante l'esercizio della peggiore fantasia nella terapia attuale, le mie fantasie si svolgono in scenari diversi, ma tutte hanno in comune l'evento "catastrofico" del vomito, lontano da casa, da solo.
Si può reindirizzare una terapia in corso d'opera?
E poi, a me pare evidente che questi miei disturbi siano fortemente correlati con dei problemi ben più antichi e che per certi versi perdurano anche oggi: una madre che non sa esprimere le sue emozioni (come me), un padre ansioso, iperprotettivo e apprensivo (come me), la rabbia repressa di mia madre per problemi nella sua infanzia (e guarda caso spesso mi arrabbio per delle sciocchezze), non ho una vita sociale, non sono fidanzato, non ho amici, esco sempre da solo, ed essenzialmente perché manco di intelligenza sociale e/o emotiva e mi trovo a mio agio solo mantenendo rapporti superficiali con parenti o conoscenti.
Ho la sensazione di non vivere una vita autentica, per questo mi chiedo: forse una psicoterapia attiva non è quella indicata per me?
In che modo un percorso psicanalitico potrebbe giovarmi?
Devo curare i sintomi (le mie fobie) o andare alla radice del problema?
Non so che fare.
sono un ragazzo alla soglia dei 30 anni.
Da quando ero adolescente soffro di emetofobia, poi intorno ai 20 anni ho iniziato a sviluppare sintomi sempre più invalidanti di agorafobia (i miei attacchi d'ansia arrivavano esclusivamente alla guida su strada, oppure all'aperto in spazi troppo angusti o troppo ampi, comunque senza una percepibile via di fuga).
5 anni fa intraprendo un percorso di terapia cognitivo-comportamentale per l'agorafobia: dà i suoi frutti, riesco a riguadagnare una buona libertà, ma probabilmente non ho osato chiedere troppo.
Durante la terapia è emerso che sono troppo attento anche al minimo segnale che proviene dal mio corpo, il che mi porta erroneamente a credere di essere sul punto di vomitare.
Tutto questo accade sempre negli spazi aperti, in altri contesti sono tranquillo.
La terapia dura circa 8 mesi, interrotta d'accordo con la terapeuta.
Poi, forse complice anche la pandemia e un periodo di stress, ho una ricaduta: stessi sintomi (ma meno invalidanti).
Provo un profondo senso di rassegnazione.
Ad aprile di quest'anno intraprendo un nuovo percorso di terapia, questa volta breve strategica: sono alla sesta seduta, ho ottenuto certamente dei risultati, una specie di primo sblocco, ma mi aspettavo di più, e anzi ora che è agosto e la dottoressa è in ferie, ho avuto un riacutizzarsi dei sintomi e una perdita di una parte dei risultati raggiunti.
Inizio a pensare che da queste cose non si guarisca mai.
La mia domanda è: sto sbagliando io?
Forse il problema da guarire è la paura di vomitare e non quella degli spazi aperti?
Durante l'esercizio della peggiore fantasia nella terapia attuale, le mie fantasie si svolgono in scenari diversi, ma tutte hanno in comune l'evento "catastrofico" del vomito, lontano da casa, da solo.
Si può reindirizzare una terapia in corso d'opera?
E poi, a me pare evidente che questi miei disturbi siano fortemente correlati con dei problemi ben più antichi e che per certi versi perdurano anche oggi: una madre che non sa esprimere le sue emozioni (come me), un padre ansioso, iperprotettivo e apprensivo (come me), la rabbia repressa di mia madre per problemi nella sua infanzia (e guarda caso spesso mi arrabbio per delle sciocchezze), non ho una vita sociale, non sono fidanzato, non ho amici, esco sempre da solo, ed essenzialmente perché manco di intelligenza sociale e/o emotiva e mi trovo a mio agio solo mantenendo rapporti superficiali con parenti o conoscenti.
Ho la sensazione di non vivere una vita autentica, per questo mi chiedo: forse una psicoterapia attiva non è quella indicata per me?
In che modo un percorso psicanalitico potrebbe giovarmi?
Devo curare i sintomi (le mie fobie) o andare alla radice del problema?
Non so che fare.
[#1]
Gentile utente,
comprendo il suo sconforto; la sua rassegnazione sembra portare con sé una difficoltà per lei nel riuscire a sopravvivere psichicamente -cioè a salvarsi dall'angoscia- causata dalla perdita di speranza e dal non potersi rappresentare una "via di fuga" da quel che la affigge.
Infatti, a parer mio, la verità sull'origine della sua angoscia è proprio nelle sue parole "via di fuga".
Credo che l'emetofobia e l'agorafobia sottendano, in un diverso modo, la paura di non avere scampo. Infatti, l'agorafobia è la paura dello spazio aperto, uno spazio tanto ampio, troppo, che non presenta limiti né confini. In esso lei sente di venir meno, quindi di non poter fuggire dalla e nella vastità, cioè da e in un luogo così tanto grande o illimitato da essere percepito come onnipotente, pericoloso, la cui forza preme da ogni dove e la minaccia nella sua sicurezza interna ed integrità.
L'agorafobia si alterna alla claustrofobia, che è l'altro suo volto. Così lei si dibatte tra queste paure opposte solo apparentemente, che condividono la medesima radice. Infatti, anche negli spazi angusti e chiusi non c'è "una percepibile" via di fuga.
La situazione della "guida su strada" è paradigmatica, in quanto mostra proprio l'impossibilità di sottrarsi alla situazione, di scappare, e la costrizione nel dover proseguire.
L'ematofobia invece, potrebbe sottendere la paura di perdere il controllo del suo corpo dal quale potrebbe fuoriuscire qualcosa come il vomito, di ripugnante per sé o per l'altro. Qualcosa che provenendo dal suo corpo non le lascerebbe scampo.
Quindi nel caso dell'agorafobia/claustrofobia il pericolo sarebbe collocato all'esterno, nel caso dell'emetofobia, al suo interno, ma in entrambi i casi lei non potrebbe scappare, dall'ambiente o da sé stesso.
Per venire alle questioni che pone, non c'è "un problema da guarire" piuttosto che un altro.
I nostri dolori e le nostre paure hanno pari dignità e sono collegati gli uni alle altre secondo una logica che sfugge alla ragione, ma non al nostro intimo sentire.
Io le consiglierei di intraprendere un percorso psicoanalitico, non solo per provare a sradicare le sue paure alla radice, ma anche e soprattutto perché lei sembrerebbe avvertire questo bisogno: il bisogno di inoltrarsi nel suo passato, ripercorrerlo.
Il percorso psicoanalitico potrà offrirle uno spazio d'ascolto in cui narrare la sua storia; sarà possibile lavorare nell'intrapsichico, sulla divisione interno/esterno per reintegrarli, oltre che giungere nel punto più intimo del suo vissuto angosciante e doloroso, causato da queste paure, che potrebbero sottendere una sensazione di sentirsi vergognosamente esposto.
Auguri di cuore.
comprendo il suo sconforto; la sua rassegnazione sembra portare con sé una difficoltà per lei nel riuscire a sopravvivere psichicamente -cioè a salvarsi dall'angoscia- causata dalla perdita di speranza e dal non potersi rappresentare una "via di fuga" da quel che la affigge.
Infatti, a parer mio, la verità sull'origine della sua angoscia è proprio nelle sue parole "via di fuga".
Credo che l'emetofobia e l'agorafobia sottendano, in un diverso modo, la paura di non avere scampo. Infatti, l'agorafobia è la paura dello spazio aperto, uno spazio tanto ampio, troppo, che non presenta limiti né confini. In esso lei sente di venir meno, quindi di non poter fuggire dalla e nella vastità, cioè da e in un luogo così tanto grande o illimitato da essere percepito come onnipotente, pericoloso, la cui forza preme da ogni dove e la minaccia nella sua sicurezza interna ed integrità.
L'agorafobia si alterna alla claustrofobia, che è l'altro suo volto. Così lei si dibatte tra queste paure opposte solo apparentemente, che condividono la medesima radice. Infatti, anche negli spazi angusti e chiusi non c'è "una percepibile" via di fuga.
La situazione della "guida su strada" è paradigmatica, in quanto mostra proprio l'impossibilità di sottrarsi alla situazione, di scappare, e la costrizione nel dover proseguire.
L'ematofobia invece, potrebbe sottendere la paura di perdere il controllo del suo corpo dal quale potrebbe fuoriuscire qualcosa come il vomito, di ripugnante per sé o per l'altro. Qualcosa che provenendo dal suo corpo non le lascerebbe scampo.
Quindi nel caso dell'agorafobia/claustrofobia il pericolo sarebbe collocato all'esterno, nel caso dell'emetofobia, al suo interno, ma in entrambi i casi lei non potrebbe scappare, dall'ambiente o da sé stesso.
Per venire alle questioni che pone, non c'è "un problema da guarire" piuttosto che un altro.
I nostri dolori e le nostre paure hanno pari dignità e sono collegati gli uni alle altre secondo una logica che sfugge alla ragione, ma non al nostro intimo sentire.
Io le consiglierei di intraprendere un percorso psicoanalitico, non solo per provare a sradicare le sue paure alla radice, ma anche e soprattutto perché lei sembrerebbe avvertire questo bisogno: il bisogno di inoltrarsi nel suo passato, ripercorrerlo.
Il percorso psicoanalitico potrà offrirle uno spazio d'ascolto in cui narrare la sua storia; sarà possibile lavorare nell'intrapsichico, sulla divisione interno/esterno per reintegrarli, oltre che giungere nel punto più intimo del suo vissuto angosciante e doloroso, causato da queste paure, che potrebbero sottendere una sensazione di sentirsi vergognosamente esposto.
Auguri di cuore.
Psicologa e Assistente Sociale
www.psicosocialmente.it
[#2]
Utente
E' impressionante quanto io mi rispecchi in quello che ha scritto, grazie dottoressa Di Taranto per le sue parole. Vorrei chiederle, secondo la sua esperienza (capisco bene che ogni paziente è un caso a sé), quanto tempo in media ci vuole per risolvere questo tipo di problemi? Inoltre non riesco a immaginare COME questa cosa possa avvenire, viviamo in una società che insegna ad affrontare attivamente le paure, sono sinceramente curioso di capire come la psicanalisi intervenga per sbloccare (è il termine giusto?) una paura.
[#3]
Gentile utente,
ha ragione, ogni paziente è un caso a sé. Ed è anche molto più che un caso; è una persona con un mondo interno pieno di vissuti, emozioni, pensieri, ricordi; fragilità e risorse, singolari capacità di risollevarsi dal dolore, di ricominciare o di ricostruire sui suoi detriti.
Quindi possono volerci giorni, mesi o anni. Ma generalmente la "guarigione" non avviene improvvisamente, bensì gradualmente e come effetto secondario della conoscenza di sé e della liberazione dai propri dolori, dalle proprie paure, dal proprio passato.
Sul come la risoluzione dei propri problemi possa avvenire, io credo che un ascolto profondo alla sua parola possa di per sé liberarla dal peso delle emozioni inespresse o inelaborate che si celano dietro la stessa.
Inoltre, ritengo che nel suo caso sarebbe opportuno lavorare sulla percezione del mondo circostante e di sé. Infatti, l'onnipotenza e la forza dello spazio esterno a cui facevo riferimento, lei le percepisce in relazione a sé.
Quindi, secondo me, il lavoro si dovrebbe focalizzare sulla percezione della sua inermità.
Si dovrebbe dare ascolto a tale sensazione di impotenza e a partire da ciò, costruire una solidità interna che possa farle percepire che non è in balìa del mondo o del suo corpo, o che comunque, è in grado di reggere su di sé e dentro di sé la paura, il rischio di non poter fuggire, l'esposizione alla vergogna, senza esserne schiacciato.
Può scoprire la sua forza e le sue risorse.
Le consiglio di cercare un professionista che le ispiri fiducia per intraprendere questo percorso.
ha ragione, ogni paziente è un caso a sé. Ed è anche molto più che un caso; è una persona con un mondo interno pieno di vissuti, emozioni, pensieri, ricordi; fragilità e risorse, singolari capacità di risollevarsi dal dolore, di ricominciare o di ricostruire sui suoi detriti.
Quindi possono volerci giorni, mesi o anni. Ma generalmente la "guarigione" non avviene improvvisamente, bensì gradualmente e come effetto secondario della conoscenza di sé e della liberazione dai propri dolori, dalle proprie paure, dal proprio passato.
Sul come la risoluzione dei propri problemi possa avvenire, io credo che un ascolto profondo alla sua parola possa di per sé liberarla dal peso delle emozioni inespresse o inelaborate che si celano dietro la stessa.
Inoltre, ritengo che nel suo caso sarebbe opportuno lavorare sulla percezione del mondo circostante e di sé. Infatti, l'onnipotenza e la forza dello spazio esterno a cui facevo riferimento, lei le percepisce in relazione a sé.
Quindi, secondo me, il lavoro si dovrebbe focalizzare sulla percezione della sua inermità.
Si dovrebbe dare ascolto a tale sensazione di impotenza e a partire da ciò, costruire una solidità interna che possa farle percepire che non è in balìa del mondo o del suo corpo, o che comunque, è in grado di reggere su di sé e dentro di sé la paura, il rischio di non poter fuggire, l'esposizione alla vergogna, senza esserne schiacciato.
Può scoprire la sua forza e le sue risorse.
Le consiglio di cercare un professionista che le ispiri fiducia per intraprendere questo percorso.
Psicologa e Assistente Sociale
www.psicosocialmente.it
[#4]
Come la terapeuta le avrà detto la Terapia Strategica Breve cerca lo "sblocco" dei sintomi generalmente entro dieci sedute. A mio avviso i risultati divengono stabili quando, spesso per via retrograda o più indiretta, arrivano a modificare anche dimensioni profonde della personalità. Certamente un'integrazione con approcci maggiormente volti alle relazioni, come ad esempio anche la Gestalt, accelererebbe questo processo.
L'agorafobia come la claustrofobia potrebbero anche rappresentare situazioni in cui è difficile sfuggire allo sguardo altrui e rimandare perciò ad aspetti relazionali.
Mi darebbe un riscontro?
L'agorafobia come la claustrofobia potrebbero anche rappresentare situazioni in cui è difficile sfuggire allo sguardo altrui e rimandare perciò ad aspetti relazionali.
Mi darebbe un riscontro?
Valentina Sciubba Psicologa
www.valentinasciubba.it Terapia on line
Terapia Breve Strategica e della Gestalt
Disturbi psicologici e mente-corpo
[#5]
Utente
Gentile dott.ssa Sciubba, è vero: ho grossi problemi relazionali, nel senso che finché si tratta di instaurare un rapporto "superficiale" non ho problemi, e anzi gli altri mi reputano una persona molto simpatica e piacevole; ma quando qualcuno mostra interesse verso di me, allora tendo ad allontanarmi, cerco di evitare, ho paura di andare a fondo, ho paura di aprirmi per paura di essere giudicato (questo aspetto era venuto fuori già con la prima psicoterapia, una costante paura del giudizio altrui).
Mi spiegherebbe cosa intende con "per via retrograda o indiretta"? Lavorare solo sui sintomi in qualche modo può alterare positivamente anche la personalità?
Mi spiegherebbe cosa intende con "per via retrograda o indiretta"? Lavorare solo sui sintomi in qualche modo può alterare positivamente anche la personalità?
[#6]
No, lavorare solo sui sintomi non altera la personalità, però potrebbe essere insufficiente ai fini dei risultati cercati se non avviene appunto questa modifica che ho chiamato "retrograda ed indiretta". Le scrivo il link della pagina del mio sito dove, parlando degli approcci usati ed in particolare della Terapia Strategica Breve, cerco di chiarire questo concetto che è più implicito e meno dichiarato nella teoria di questo approccio, per il fatto che essa non usa il lessico della terapia psicodinamica e quindi poco o nulla la parola inconscio.
https://www.valentinasciubba.it/terapia-breve-integrata/
cordiali saluti
https://www.valentinasciubba.it/terapia-breve-integrata/
cordiali saluti
Valentina Sciubba Psicologa
www.valentinasciubba.it Terapia on line
Terapia Breve Strategica e della Gestalt
Disturbi psicologici e mente-corpo
Questo consulto ha ricevuto 6 risposte e 1.7k visite dal 31/08/2023.
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Approfondimento su Ansia
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