Psicoterapia: chiedo l'impossibile?
Buongiorno,
ho 30 anni e ho seguito per molti anni una psicoterapia (orientamento psicanalitico), con grandi benefici.
Ora sono a un punto in cui sto molto meglio di quando ho iniziato: attenzione, non sto bene, ma ho raggiunto un certo equilibrio, seppur precario.
Il mio terapeuta però mi incalzava a "cambiare" ancora e quindi ho interrotto la terapia, che tuttavia mi manca perché non sono in grado di star bene senza sostegno.
Il punto secondo me è che ora ho abbastanza chiaro il quadro della mia situazione (cause del mio malessere, meccanismi più o meno consci con cui mi auto-saboto, ecc.
), ma non voglio cambiarla.
Come ho detto al mio terapeuta, sono una persona malata che rifiuta la cura (che so, l'operazione) risolutiva, e cerca un professionista che somministri cure palliative per sopportare il dolore.
Per me la cura palliativa è la psicoterapia: incontrare un professionista, sfogarmi, discutere dei miei problemi mi aiuta a renderli sopportabili e a controllare l'ansia.
Almeno al momento, però, non voglio fare nulla per cambiare la situazione in cui mi trovo e le cause del mio malessere (dovrei attuare cambiamenti che non desidero fare, per ragioni troppo lunghe e complicate da approfondire qui).
Quello che mi chiedo è se sia effettivamente una cosa che uno psicoterapeuta può o non può accettare di fare, eticamente, e quindi se posso trovare una psicoterapia che soddisfi questa mia richiesta.
Mi sono stati consigliati da conoscenti due nomi visto che sento il bisogno di riprendere la terapia, un cognitivo-comportamentale e un altro psicanalista: eventualmente quale sarebbe l'approccio più adatto alla mia situazione?
Credo lo psicanalista (il cognitivo-comportamentale è orientato a proporre strategie di cambiamento se ho ben capito), di contro essendo l'orientamento del mio precedente terapeuta ho paura di ritrovarmi nella stessa dinamica.
Grazie!
ho 30 anni e ho seguito per molti anni una psicoterapia (orientamento psicanalitico), con grandi benefici.
Ora sono a un punto in cui sto molto meglio di quando ho iniziato: attenzione, non sto bene, ma ho raggiunto un certo equilibrio, seppur precario.
Il mio terapeuta però mi incalzava a "cambiare" ancora e quindi ho interrotto la terapia, che tuttavia mi manca perché non sono in grado di star bene senza sostegno.
Il punto secondo me è che ora ho abbastanza chiaro il quadro della mia situazione (cause del mio malessere, meccanismi più o meno consci con cui mi auto-saboto, ecc.
), ma non voglio cambiarla.
Come ho detto al mio terapeuta, sono una persona malata che rifiuta la cura (che so, l'operazione) risolutiva, e cerca un professionista che somministri cure palliative per sopportare il dolore.
Per me la cura palliativa è la psicoterapia: incontrare un professionista, sfogarmi, discutere dei miei problemi mi aiuta a renderli sopportabili e a controllare l'ansia.
Almeno al momento, però, non voglio fare nulla per cambiare la situazione in cui mi trovo e le cause del mio malessere (dovrei attuare cambiamenti che non desidero fare, per ragioni troppo lunghe e complicate da approfondire qui).
Quello che mi chiedo è se sia effettivamente una cosa che uno psicoterapeuta può o non può accettare di fare, eticamente, e quindi se posso trovare una psicoterapia che soddisfi questa mia richiesta.
Mi sono stati consigliati da conoscenti due nomi visto che sento il bisogno di riprendere la terapia, un cognitivo-comportamentale e un altro psicanalista: eventualmente quale sarebbe l'approccio più adatto alla mia situazione?
Credo lo psicanalista (il cognitivo-comportamentale è orientato a proporre strategie di cambiamento se ho ben capito), di contro essendo l'orientamento del mio precedente terapeuta ho paura di ritrovarmi nella stessa dinamica.
Grazie!
[#1]
Buonasera, la questione che porta tanto interessante (dal punto di vista etico-deontologico) quanto complessa, quindi provo a darle il mio parere, con la speranza che altri colleghi vogliano partecipare alla discussione.
Ovviamente non conoscendo a fondo la situazione è difficile darle un vero e proprio parere in merito. Mi sto immaginando un intervento chirurgico che le porterebbe dei miglioramenti nello stile di vita. Se la situazione fosse un intervento "salvavita" la cosa cambierebbe notevolmente. Quantomeno dal mio punto di vista.
Esordirei con una frase sul cambiamento che di tanto in tanto cito ai miei pazienti e che secondo me in questa circostanza calza bene su tutti i piani: Se continui a fare ciò che hai sempre fatto, non aspettarti che accada qualcosa che non sia già accaduto.
Secondo me calza sia per ciò che riguarda il cambiamento riguardo all'idea dell'intervento che si è fatta che riguardo alla terapia.
Però, forse si dovrebbe necessariamente "ristrutturare" il suo pensiero in merito alla questione. Questo è ciò che a mio parere dovrebbe fare un buon terapeuta e che probabilmente ha provato a fare il suo psicanalista.
E' evidente che per ciò che la riguarda l'ansia in merito al problema, e quindi la fobia dell'affrontarlo, non sia ancora stata smontata. Questo lo si intuisce perchè la principale tentata soluzione (fallimentare) del fobico è proprio quella di evitare il problema. E' ciò che sta facendo e ciò che vorrebbe continuare a fare.
Lei ci chiede se scegliere un cognitivo o un altro psicanalista. Io sono "strategico", quindi conosco solo sufficientemente gli altri due approcci, quindi non posso darle un parere approfondito. Posso però dirle che in terapia breve strategica le manovre che si adottano per aggirare delle forti resistenze come le sue lavorano in modo che il paziente arrivi a "sentire" il cambiamento in modo quasi improvviso. Spesso i pazienti riportano di non essersi neanche resi conto del perchè e come, ma sentono di percepire la loro realtà in modo differente. Quindi credo che forse potrebbe valutare anche questo tipo di approccio.
Ora, passando alla questione etica, credo che il fine non ultimo di una terapia sia quella del benessere del paziente. Quindi la terapia auspica di lasciare al paziente la migliore possibilità di benessere psicologico possibile. Tuttavia, solitamente in prima seduta si definiscono quelli che sono gli obiettivi del paziente, che potrebbero anche non collidere con quelli del terapeuta. In quel caso se ne parla apertamente e si concordano insieme.
Detto questo, mi è capitato di avere dei pazienti che volessero lavorare su un obiettivo (nel suo caso sarebbe la gestione dell'ansia immagino) anche se avrei voluto portarli a lavorare su altro che ritenevo più importante e necessario. Lavorando bene sull'obiettivo portato dal paziente ho potuto guadagnare la sua fiducia e ho quindi potuto portarlo solo a quel punto a valutare anche l'altra prospettiva.
Immagino che lavorerei così con un paziente come lei (ovviamente impossibile da dirsi in questa sede comunque). Mi sembra di capire che anche il suo specialista ha cercato di fare così con lei, ma senza ottenere risultati, anzi, portandola a cercare un altro terapeuta. Credo che quindi non si astato in grado di aggirare le sue alte resistenze.
Personalmente, lo vedrei come un mio fallimento se non riuscissi a fare in modo che lei abbia una vita soddisfacente. Però potrei considerare invece un successo se il problema che ha non fosse così invalidante e se riuscissi a farcela convivere al meglio.
Spero di essermi spiegato.
Le faccio i miei saluti
resto a disposizione
Ovviamente non conoscendo a fondo la situazione è difficile darle un vero e proprio parere in merito. Mi sto immaginando un intervento chirurgico che le porterebbe dei miglioramenti nello stile di vita. Se la situazione fosse un intervento "salvavita" la cosa cambierebbe notevolmente. Quantomeno dal mio punto di vista.
Esordirei con una frase sul cambiamento che di tanto in tanto cito ai miei pazienti e che secondo me in questa circostanza calza bene su tutti i piani: Se continui a fare ciò che hai sempre fatto, non aspettarti che accada qualcosa che non sia già accaduto.
Secondo me calza sia per ciò che riguarda il cambiamento riguardo all'idea dell'intervento che si è fatta che riguardo alla terapia.
Però, forse si dovrebbe necessariamente "ristrutturare" il suo pensiero in merito alla questione. Questo è ciò che a mio parere dovrebbe fare un buon terapeuta e che probabilmente ha provato a fare il suo psicanalista.
E' evidente che per ciò che la riguarda l'ansia in merito al problema, e quindi la fobia dell'affrontarlo, non sia ancora stata smontata. Questo lo si intuisce perchè la principale tentata soluzione (fallimentare) del fobico è proprio quella di evitare il problema. E' ciò che sta facendo e ciò che vorrebbe continuare a fare.
Lei ci chiede se scegliere un cognitivo o un altro psicanalista. Io sono "strategico", quindi conosco solo sufficientemente gli altri due approcci, quindi non posso darle un parere approfondito. Posso però dirle che in terapia breve strategica le manovre che si adottano per aggirare delle forti resistenze come le sue lavorano in modo che il paziente arrivi a "sentire" il cambiamento in modo quasi improvviso. Spesso i pazienti riportano di non essersi neanche resi conto del perchè e come, ma sentono di percepire la loro realtà in modo differente. Quindi credo che forse potrebbe valutare anche questo tipo di approccio.
Ora, passando alla questione etica, credo che il fine non ultimo di una terapia sia quella del benessere del paziente. Quindi la terapia auspica di lasciare al paziente la migliore possibilità di benessere psicologico possibile. Tuttavia, solitamente in prima seduta si definiscono quelli che sono gli obiettivi del paziente, che potrebbero anche non collidere con quelli del terapeuta. In quel caso se ne parla apertamente e si concordano insieme.
Detto questo, mi è capitato di avere dei pazienti che volessero lavorare su un obiettivo (nel suo caso sarebbe la gestione dell'ansia immagino) anche se avrei voluto portarli a lavorare su altro che ritenevo più importante e necessario. Lavorando bene sull'obiettivo portato dal paziente ho potuto guadagnare la sua fiducia e ho quindi potuto portarlo solo a quel punto a valutare anche l'altra prospettiva.
Immagino che lavorerei così con un paziente come lei (ovviamente impossibile da dirsi in questa sede comunque). Mi sembra di capire che anche il suo specialista ha cercato di fare così con lei, ma senza ottenere risultati, anzi, portandola a cercare un altro terapeuta. Credo che quindi non si astato in grado di aggirare le sue alte resistenze.
Personalmente, lo vedrei come un mio fallimento se non riuscissi a fare in modo che lei abbia una vita soddisfacente. Però potrei considerare invece un successo se il problema che ha non fosse così invalidante e se riuscissi a farcela convivere al meglio.
Spero di essermi spiegato.
Le faccio i miei saluti
resto a disposizione
Dr. Francesco Beligni - PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA
Riceve su Siena-Arezzo oppure ONLINE
www.francescobeligni.it
[#2]
Gentile utente,
accolgo con piacere l'invito del collega a fornire altri pareri, anche perché nella sua lettera avverto due equivoci: uno sul concetto di cambiamento e guarigione, argomento complesso che ha già trattato il mio collega, e uno su dove può trovare il trattamento da lei richiesto.
Chiarisco prima il secondo punto, che è poi la sua domanda diretta.
Lei dice: "Per me la cura palliativa è la psicoterapia: incontrare un professionista, sfogarmi, discutere dei miei problemi mi aiuta a renderli sopportabili e a controllare l'ansia".
Attenzione: questa NON è psicoterapia.
La pratica che lei definisce "sfogarmi, discutere dei miei problemi" può essere svolta da un'amica, un conoscente, il parrucchiere e così via. Metterla in atto con un professionista che conosce il funzionamento della psiche è voler ingannare sé stessi -e forse altre persone?- fingendo di fare qualcosa per curarsi mentre manca l'ingrediente fondamentale: la volontà, l'impegno.
Chi cerca questo tipo di supporto corre il rischio di cadere preda dei counselor, dei maestri di meditazione orientale e simili persone con scarsa competenza, pochi scrupoli e zero controlli, non essendo la loro una professione regolamentata dallo Stato.
Tuttavia esistono casi in cui il paziente necessita davvero di qualcosa che assomiglia a quanto da lei descritto, ossia la "terapia di sostegno". Questa pratica può riguardare le prime fasi di un lutto o altro trauma, per esempio separazione e divorzio; una malattia oncologica, un morbo inguaribile o terminale; la perdita della vista, della capacità di camminare, etc.
La terapia di sostegno in certi casi precede la psicoterapia, in altri la sostituisce del tutto.
Viene erogata dallo psicologo anche non psicoterapeuta; guardi online la legge che regolamenta la professione di psicologo, la 56 dell'89, all'art. 1.
Tuttavia, che qualcuno cerchi una terapia di sostegno e rifiuti a priori la guarigione, specie una giovane donna che inevitabilmente coinvolgerà nel malessere la sua intera esistenza e quella di chi le sta vicino, per uno psicologo scrupoloso è inaccettabile.
Fra l'altro la non guarigione stabilita come obiettivo prevede la frustrazione di un fallimento auto-prescritto; inoltre il nostro codice deontologico dice che non dobbiamo accogliere pazienti che sappiamo di non poter curare e prescrive di inviarli ad altri colleghi se ci accorgiamo in corso d'opera della nostra insufficienza.
Lei ha parlato di "un professionista che somministri cure palliative per sopportare il dolore".
Provi a chiedere ad un chirurgo che abbia diagnosticato un'appendicite acuta questo tipo di terapia.
Ovviamente sono d'accordo col collega Beligni sul fatto che il paziente che non vuole cambiare, cioè non vuole completare il processo di guarigione, ha posto in essere dei "meccanismi di difesa" ben noti agli addetti ai lavori.
Prendere atto della nostra realtà è doloroso, e la costruzione di idee e comportamenti irrazionali è il meccanismo che fin da bambini ci siamo prescritti -e ci hanno prescritto- per andare avanti senza vedere, senza soffrire troppo e senza ribellarci in condizioni difficili.
Tuttavia l'adulto ha al suo attivo delle risorse che al bambino mancavano, e se rettamente orientato comprende che è più doloroso permanere nella malattia.
Uno degli strumenti per smontare dolcemente le resistenze -non so se il suo terapeuta l'abbia usato- è la biblioterapia: la lettura di saggi psicologici che meditati e discussi con il curante possono aprirci gli occhi.
Provi ad approfondire con uno specialista almeno le ragioni della sua resistenza. Ognuno di noi ha una vita sola da vivere, e spero che lei voglia concedere almeno questa chance a sé stessa.
Buone cose.
accolgo con piacere l'invito del collega a fornire altri pareri, anche perché nella sua lettera avverto due equivoci: uno sul concetto di cambiamento e guarigione, argomento complesso che ha già trattato il mio collega, e uno su dove può trovare il trattamento da lei richiesto.
Chiarisco prima il secondo punto, che è poi la sua domanda diretta.
Lei dice: "Per me la cura palliativa è la psicoterapia: incontrare un professionista, sfogarmi, discutere dei miei problemi mi aiuta a renderli sopportabili e a controllare l'ansia".
Attenzione: questa NON è psicoterapia.
La pratica che lei definisce "sfogarmi, discutere dei miei problemi" può essere svolta da un'amica, un conoscente, il parrucchiere e così via. Metterla in atto con un professionista che conosce il funzionamento della psiche è voler ingannare sé stessi -e forse altre persone?- fingendo di fare qualcosa per curarsi mentre manca l'ingrediente fondamentale: la volontà, l'impegno.
Chi cerca questo tipo di supporto corre il rischio di cadere preda dei counselor, dei maestri di meditazione orientale e simili persone con scarsa competenza, pochi scrupoli e zero controlli, non essendo la loro una professione regolamentata dallo Stato.
Tuttavia esistono casi in cui il paziente necessita davvero di qualcosa che assomiglia a quanto da lei descritto, ossia la "terapia di sostegno". Questa pratica può riguardare le prime fasi di un lutto o altro trauma, per esempio separazione e divorzio; una malattia oncologica, un morbo inguaribile o terminale; la perdita della vista, della capacità di camminare, etc.
La terapia di sostegno in certi casi precede la psicoterapia, in altri la sostituisce del tutto.
Viene erogata dallo psicologo anche non psicoterapeuta; guardi online la legge che regolamenta la professione di psicologo, la 56 dell'89, all'art. 1.
Tuttavia, che qualcuno cerchi una terapia di sostegno e rifiuti a priori la guarigione, specie una giovane donna che inevitabilmente coinvolgerà nel malessere la sua intera esistenza e quella di chi le sta vicino, per uno psicologo scrupoloso è inaccettabile.
Fra l'altro la non guarigione stabilita come obiettivo prevede la frustrazione di un fallimento auto-prescritto; inoltre il nostro codice deontologico dice che non dobbiamo accogliere pazienti che sappiamo di non poter curare e prescrive di inviarli ad altri colleghi se ci accorgiamo in corso d'opera della nostra insufficienza.
Lei ha parlato di "un professionista che somministri cure palliative per sopportare il dolore".
Provi a chiedere ad un chirurgo che abbia diagnosticato un'appendicite acuta questo tipo di terapia.
Ovviamente sono d'accordo col collega Beligni sul fatto che il paziente che non vuole cambiare, cioè non vuole completare il processo di guarigione, ha posto in essere dei "meccanismi di difesa" ben noti agli addetti ai lavori.
Prendere atto della nostra realtà è doloroso, e la costruzione di idee e comportamenti irrazionali è il meccanismo che fin da bambini ci siamo prescritti -e ci hanno prescritto- per andare avanti senza vedere, senza soffrire troppo e senza ribellarci in condizioni difficili.
Tuttavia l'adulto ha al suo attivo delle risorse che al bambino mancavano, e se rettamente orientato comprende che è più doloroso permanere nella malattia.
Uno degli strumenti per smontare dolcemente le resistenze -non so se il suo terapeuta l'abbia usato- è la biblioterapia: la lettura di saggi psicologici che meditati e discussi con il curante possono aprirci gli occhi.
Provi ad approfondire con uno specialista almeno le ragioni della sua resistenza. Ognuno di noi ha una vita sola da vivere, e spero che lei voglia concedere almeno questa chance a sé stessa.
Buone cose.
Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com
[#3]
Fare terapia significa curare. Lei dice apertamente di non volere una cura, ma un sostegno.
Non ci dice qual è il problema, e ciò potrebbe fare tutta la differenza. Ma se *entrambi* fossero possibili per il suo caso, la cura e il sostegno, un professionista che accettasse di darle sostegno senza curarla sarebbe a mio avviso deontologicamente reprensibile.
E lei accetterebbe di tenersi un disturbo che potrebbe togliersi. Un po' come il drogato che accetta di restare dipendente invece di disintossicarsi, se mi passa il paragone un po' forte.
Ma dipende dal problema di cui stiamo parlando.
Non ci dice qual è il problema, e ciò potrebbe fare tutta la differenza. Ma se *entrambi* fossero possibili per il suo caso, la cura e il sostegno, un professionista che accettasse di darle sostegno senza curarla sarebbe a mio avviso deontologicamente reprensibile.
E lei accetterebbe di tenersi un disturbo che potrebbe togliersi. Un po' come il drogato che accetta di restare dipendente invece di disintossicarsi, se mi passa il paragone un po' forte.
Ma dipende dal problema di cui stiamo parlando.
Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com
[#4]
Utente
Innanzi tutto vorrei ringraziarvi per le risposte e per il vostro tempo.
Ci tengo però a dire che mi fate eccessivamente ingenua. Può non piacervi ciò che chiedo, ma vi assicuro che la mia è una richiesta consapevole, e che ne comprendo le implicazioni: non mi aspetto "risultati diversi" senza attuare un cambiamento, non mi illudo di curarmi né è ciò che mi aspetto succeda, e non confondo ciò che potrei avere da un amico con la terapia. Mi aspetto che mi aiuti a gestire l'ansia (che continua a manifestarsi non eliminandone le cause, ne sono consapevole) perché ha già funzionato in passato, e farlo con un professionista è ben diverso dal farlo con il parrucchiere, suvvia. Peraltro è una scelta che si fonda su valutazioni che vanno al di là della semplice fobia (pur riconoscendo, tra le altre motivazioni, che una componente di paura ci sia), che ha le sue ragioni e che non intendo mettere in discussione.
Detto questo, ammetto di trovare le vostre risposte deludenti. È impossibile pensare di (af)fidarmi a qualcuno che cercherebbe di "destrutturare" il mio pensiero in maniera inconscia, e per restare nelle metafore che mi avete proposto, un chirurgo che mi diagnosticasse un'appendicite acuta non potrebbe operarmi senza il mio consenso (pensiamo a chi, per credenza religiosa, rifiuta le trasfusioni), e sarebbe costretto a tenermi ricoverata e fare il meglio che può, ovvero somministrarmi antibiotici e antidolorifici. Allo stesso modo, se fossi una drogata che rifiuta di disintossicarsi, riceverei comunque assistenza medica per qualsiasi problema.
Ecco, io non chiedo niente di diverso. E poiché sono un'adulta che ha compiuto una scelta consapevole, credo che andrebbe rispettata.
Prendo atto del fatto che la psicologia ritiene più giusto non aiutarmi affatto piuttosto che "aiutarmi poco", e farò a meno di affidarmici (in realtà vorrei provare a cercare la terapia di sostegno di cui mi avete accennato, se qualcuno mi desse un riferimento utile per trovare professionisti che se ne occupano gliene sarei grata), ma non trovo che sia etico né che faccia l'interesse dei pazienti, lasciati soli ad affrontare le difficoltà (nella nostra metafora equivale al malato di appendicite o al drogato che rifiutando di sottoporsi all'intervento viene abbandonato a morire per strada)
Ci tengo però a dire che mi fate eccessivamente ingenua. Può non piacervi ciò che chiedo, ma vi assicuro che la mia è una richiesta consapevole, e che ne comprendo le implicazioni: non mi aspetto "risultati diversi" senza attuare un cambiamento, non mi illudo di curarmi né è ciò che mi aspetto succeda, e non confondo ciò che potrei avere da un amico con la terapia. Mi aspetto che mi aiuti a gestire l'ansia (che continua a manifestarsi non eliminandone le cause, ne sono consapevole) perché ha già funzionato in passato, e farlo con un professionista è ben diverso dal farlo con il parrucchiere, suvvia. Peraltro è una scelta che si fonda su valutazioni che vanno al di là della semplice fobia (pur riconoscendo, tra le altre motivazioni, che una componente di paura ci sia), che ha le sue ragioni e che non intendo mettere in discussione.
Detto questo, ammetto di trovare le vostre risposte deludenti. È impossibile pensare di (af)fidarmi a qualcuno che cercherebbe di "destrutturare" il mio pensiero in maniera inconscia, e per restare nelle metafore che mi avete proposto, un chirurgo che mi diagnosticasse un'appendicite acuta non potrebbe operarmi senza il mio consenso (pensiamo a chi, per credenza religiosa, rifiuta le trasfusioni), e sarebbe costretto a tenermi ricoverata e fare il meglio che può, ovvero somministrarmi antibiotici e antidolorifici. Allo stesso modo, se fossi una drogata che rifiuta di disintossicarsi, riceverei comunque assistenza medica per qualsiasi problema.
Ecco, io non chiedo niente di diverso. E poiché sono un'adulta che ha compiuto una scelta consapevole, credo che andrebbe rispettata.
Prendo atto del fatto che la psicologia ritiene più giusto non aiutarmi affatto piuttosto che "aiutarmi poco", e farò a meno di affidarmici (in realtà vorrei provare a cercare la terapia di sostegno di cui mi avete accennato, se qualcuno mi desse un riferimento utile per trovare professionisti che se ne occupano gliene sarei grata), ma non trovo che sia etico né che faccia l'interesse dei pazienti, lasciati soli ad affrontare le difficoltà (nella nostra metafora equivale al malato di appendicite o al drogato che rifiutando di sottoporsi all'intervento viene abbandonato a morire per strada)
[#6]
>>> Mi aspetto che mi aiuti a gestire l'ansia (che continua a manifestarsi non eliminandone le cause, ne sono consapevole)
Non siamo noi a crederla ingenua, anche perché lei non sembra così consapevole. Sembra, semmai, che più parla e più mostra di non sapere nulla (o di non aver capito nulla, in anni di analisi) di come funziona l'ansia, se è di questo che sta parlando.
Perché per curare e risolvere l'ansia NON è assolutamente necessario conoscerne le "cause".
Ma non dovrebbe comunque interessarle, dato che si definisce "una persona malata che rifiuta la cura".
Personalmente sono ben lieto di imparare da chiunque. Anche dagli arroganti, purché ne sappiano più di me.
Non siamo noi a crederla ingenua, anche perché lei non sembra così consapevole. Sembra, semmai, che più parla e più mostra di non sapere nulla (o di non aver capito nulla, in anni di analisi) di come funziona l'ansia, se è di questo che sta parlando.
Perché per curare e risolvere l'ansia NON è assolutamente necessario conoscerne le "cause".
Ma non dovrebbe comunque interessarle, dato che si definisce "una persona malata che rifiuta la cura".
Personalmente sono ben lieto di imparare da chiunque. Anche dagli arroganti, purché ne sappiano più di me.
Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com
Questo consulto ha ricevuto 6 risposte e 3.3k visite dal 21/04/2022.
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Approfondimento su Cure palliative
Cosa sono le cure palliative? Una raccolta di video-pillole sui farmaci palliativi e la cura del dolore nei malati terminali.