Depersonalizzazione?

Buongiorno
Mi scuso in anticipo per l'argomento principale scelto, non vorrei essere stato inappropriato

Sono un ragazzo di 21 anni che ha spesso avuto problemi a socializzare.

La mia vita si può dividere in 2 periodi, uno fino ai 16 anni dove ho mantenuto un comportamento orientato all'accettazione altrui (totalmente sconnesso a un atteggiamento "autentico"), alla prevaricazione e al desiderio di dimostrarmi perfetto agli altri.

Tutto questo è stato osservato da me a quella stessa età e ho iniziato un rigido cambiamento dovuto alla mia fede religiosa.

Arrivato ai 18 anni però alcune di queste caratteristiche sono state casualmente osservate dai medici di mia madre (avente disturbo schizoaffettivo).

Non cerco attivamente di prevaricare, non ho più idee di dover ostentare grandiosità e non sono più dipendente dal commento altrui.

Credo però che, come suggerito dai dottori di mia madre, io abbia avuto un'intensa fase riscontrabile nella vita di un narcisista.


Scrivo per un certo disagio.

Non conosco i miei bisogni emotivi e non riesco a mantenermi autentico nelle conversazioni.

Mi lascio spingere da un'ansia generale di star facendo la cosa sbagliata con qualcuno e perdo la connessione con come mi sarei sentito di comportarmi.

Sento come se a volte perdessi le risorse interne per sostenere una conversazione e scattasse un me che è perfettamente capace di parlare per ore, ma non è niente di simile a quello che sarei stato e non provo soddisfazione o appagamento in quello che ottengo così.

Non sento di avere piaceri, ho una percezione ridotta delle emozioni (fino a poco tempo fa la tristezza era percepita senza sensazioni astratte, ma come un fastidio invadente al naso).

Tempo fa ho fatto un viaggio in cui mi è capitato di essere felice per un certo motivo, ho provato un "modo di essere" molto riservato, poco espressivo, mite e flemmatico che non sentivo da anni.

Appena tornato dal viaggio ho provato tristezza con una sensazione astratta molto marcata, come qualcosa che si trascinava dalla faccia come uno spirito.

Ricordo che da bambino sono sempre stato particolare per come somatizzavo le emozioni.

Oggi sento una totale assenza di impressioni astratte e raramente mi sveglio avendo l'impressione di un modo soddisfacente di esistere, che quando perde risorse contro le richieste esterne (dover parlare quando non voglio) invece di stancarsi diventa qualcosa di automatico.

Vedo rilevante a una riflessione che quando casa mia è vuota dalla mia famiglia provo "quel modo soddisfacente di esistere" con comportamenti involontari ma naturali, avendo anche soddisfazione di "sentirmi me" senza fare niente.

Sono sempre stato una persona che per un motivo o per un altro ha represso consapevolmente le proprie emozioni.

Ho l'abitudine a parlare a voce molto bassa, ma quando mi arrabbio le persone che ho intorno si fanno un'idea violenta di me che sento reale anche se non manifestata da oltre 6 anni.

Esistono dei tentativi, delle abitudini o degli esercizi per me?
[#1]
Dr. Stefano Cozzolino Psicologo 72 7
Gentile Utente,

ciò che mi arriva dalle sue parole è che lei compie quotidianamente un esercizio di confronto fra come lei pensa di doversi sentire rispetto a come si sente realmente.
Questo la porta a fare un confronto fra un Sé attuale, che lei quasi considera come irreale rispetto a chi vorrebbe davvero essere, tanto è vero che ci parla di
"un me che.. non è niente di simile a quello che sarei stato".
Chi sarebbe stato? Quando lo sarebbe stato? Che cosa le ha impedito di esserlo?

Ci parla poi spesso di "impressioni astratte", con questa espressione si vuole ricondurre al termine "emozioni" o intende qualcos'altro?

"quando casa mia è vuota dalla mia famiglia provo "quel modo soddisfacente di esistere" con comportamenti involontari ma naturali, avendo anche soddisfazione di "sentirmi me" senza fare niente".
Vive la sua famiglia con l'idea di doversi comportare in maniera innaturale rispetto a come vorrebbe?
E che cosa la porta a dire che i comportamenti che agisce quando è da solo sono "involontari"?
Questa "naturalità involontaria" la sperimenta solo in relazione al contesto familiare, o si sente così anche in altri ambienti sociali?

L'esercizio che mi sento di darle è questo:
si prenda dei momenti in cui accantona l'idea di un Sé ideale, o di un Sé che è esistito nel passato.
In questi momenti, dia spazio e considerazione al suo attuale modo di essere, di pensare, di vivere le emozioni con l'intensità e il livello di espressione corporea con cui arrivano. Cosa succede se non giudica questo modo di essere attuale? Lo sente sempre estraneo o vede una possibilità di identificarsi con esso?

Dr. Stefano Cozzolino - Psicologo
cozzolinostefanopsy@gmail.com

[#2]
Utente
Utente
Grazie della riflessione.

Sinceramente non sono sicuro di cosa sarei stato.
Ho la certezza di averlo "perso" in una continua corsa per adeguarmi a quello che sarebbe piaciuto a gli altri, raggiunta a volte dalle mie simulazioni di personalità ma più spesso rovinata dai miei tentativi di prevaricazione.
Riconosco di "non essere me" perché solo dopo tanti anni ho sperimentato l'impressione di atteggiamenti più automatici che sento il normale corso di me, ma che per rispondere a un'altra domanda non riconosco pienamente come "me".
Non ho un motivo, semplicemente dopo anni come un "soldato da discussione e conversazione" mi sembra irreale sentirmi di stare in silenzio e senza pensieri se sono felice.

Perché non sono stato me inizia da piccolo, ho sempre preso come modello mia madre, una persona molto lontana dai momenti dove deduco di essere me (deduco perché comunque non mi capisco, credo dovrebbe esserci una marcata sensazione a distinguere una corretta espressione di me rispetto a fingermi più estroverso o estroverso a seconda delle occasioni, ho sempre "eseguito" delle personalità).

Ma il punto più forte che mi ha portato a non essere me è stata l'inaccettazione e la intrusività di mio padre.
Come se avesse avuto la volontà di cambiarmi usando come incentivo ignorare ogni cosa che venisse "da me".

Nel periodo recente c'è stato un'episodio dove riflettendo su quegli anni (13-15) non ho pensato consapevolmente di essere stato cambiato da lui, ma concepita la frase "va bè, ma tu non c'entravi niente con come ti ha trattato" ho sentito un rilassamento totale del corpo.
Come se fosse stato rigido per anni senza accorgermene.
Onestamente da bambino pensavo che ci dovesse essere una scelta "sicura" o "giusta" di come dovessi essere e la eseguivo.

Non so dare un "quando sarei stato me", perché il mio cambiamento consapevole è sempre stato più intrusivo possibile.
Compreso cercare di avere delle precise movenze anche quando ero da solo.

Le mie impressioni astratte sono ricondotte alle emozioni, sono una persona più tosto metodica e cerco di spiegare i cambiamenti che fa sentire il mio corpo durante le emozioni.
Sempre dopo averli vissuti.

Non vivo la pressione di dovermi adeguare alla mia famiglia al momento.
Credo sinceramente che il mio comportamento "eseguito" sia diventato come una catena di montaggio per un'operaio che non esegue pause.
Esegue anche quando non è il caso, o basta il minimo movimento simile a rimandargli il riflesso del movimento compiuto per lavoro.

Per esempio non ho un modo di parlare a gli altri che implichi "dedurre di essere me" perché probabilmente non avrei parlato.
In assenza di un'opzione inizia l'abitudine appresa di un registro linguistico e un eloquio particolarmente riconducibili a quando volevo piacere a tutti, ma senza questo desiderio.

Mi sento così anche in molti altri ambiti sociali, forse più marcatamente davanti ad autorità.

Gli atteggiamenti che riscontro come "involontari" sono semplicemente non riconducibili ad altri e trovano una corrispondenza con il vissuto comune di alcune persone.
Ci trovo qualcosa di autentico, a volte sto tanto tempo senza pensare a niente e senza voler parlare, ma appena mi si cerca in quei momenti sento di diventare come in passato perché non è emotivamente esigenze.
Da lì si contraddice il normale corso di uno stato psichico comune.

A volte sento come se la mia personalità non implicasse proprio comunicare se non per versi che prendono senso in base al contesto, parlare mi stanca.

Proverò i suoi suoi esercizi, la ringrazio.
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