Vivere in un mondo tutto proprio
Ho 26 anni e temo di avere un problema.
Sin da bambina soffro di una forma di distrazione a mio avviso patologica.
Vivo da sempre in un mondo tutto mio.
I miei genitori sono sempre stati molto apprensivi e ho vissuto un’infanzia piuttosto solitaria e casalinga.
Credo che da allora io abbia cominciato a vivere di fantasticherie come forma compensativa.
Fino a qualche anno fa la cosa non mi ha creato eccessivi problemi, probabilmente perché i miei successi scolastici prima e universitari poi tendevano a compensare i miei deficit pratici.
Attualmente invece, avendo iniziato a lavorare, mi sto rendendo conto di quanto io faccia molta più fatica degli altri a fare tutto: sono totalmente priva di senso dell’orientamento (ho bisogno di tornare almeno 3-4 volte in un posto per ricordare esattamente dove si trova), non so dare indicazioni stradali, sono lentissima nei conti, goffa nei movimenti, tendo facilmente a dimenticare le cose, soprattutto se si tratta di operazioni di tipo meccanico.
Ricordo che anche da piccola mentre giocavo a carte tendevo a giocare a caso, non ricordando ad esempio le carte già uscite.
Non riesco a mantenere l’attenzione e spesso ormai trovo anche le attività che un tempo avrei giudicato più congeniali alla mia personalità (leggere, vedere film) piuttosto stancanti (mi rendo spesso conto di vagare con la mente, di perdere dei passaggi, di non riuscire ad andare oltre il senso letterale di ciò che leggo o vedo).
Ormai sono abbastanza convinta che anche i miei successi universitari non derivino da effettive mie capacità, ma solo dal fatto che mi sono laureata in una disciplina umanistica dove non era necessario essere esageratamente brillanti, ma semplicemente padroneggiare un buon numero di nozioni astratte.
Anche nella vita personale ho la tendenza a fuggire le situazioni, anche positive: se mi succede qualcosa, anche di bello, piuttosto che vivere la situazione, tendo invece a non vedere l’ora che arrivi il momento in cui tornerò a casa e potrò rivivere quello che è successo, commentandolo con me stessa e magari fantasticando su eventuali conseguenze (che magari non si verificheranno mai).
Ecco, l’unica attività che effettivamente mi piace fare è questa: immaginare, fantasticare, dialogare continuamente con me stessa come se fossimo in due, tagliando completamente fuori il resto.
Non riesco a capire se sia questa tendenza psicologica a pregiudicare le mie capacità o se invece io possa davvero avere qualche deficit cognitivo, magari sottovalutato in questi anni.
Mi piacerebbe conoscere un vostro parere.
Grazie.
Sin da bambina soffro di una forma di distrazione a mio avviso patologica.
Vivo da sempre in un mondo tutto mio.
I miei genitori sono sempre stati molto apprensivi e ho vissuto un’infanzia piuttosto solitaria e casalinga.
Credo che da allora io abbia cominciato a vivere di fantasticherie come forma compensativa.
Fino a qualche anno fa la cosa non mi ha creato eccessivi problemi, probabilmente perché i miei successi scolastici prima e universitari poi tendevano a compensare i miei deficit pratici.
Attualmente invece, avendo iniziato a lavorare, mi sto rendendo conto di quanto io faccia molta più fatica degli altri a fare tutto: sono totalmente priva di senso dell’orientamento (ho bisogno di tornare almeno 3-4 volte in un posto per ricordare esattamente dove si trova), non so dare indicazioni stradali, sono lentissima nei conti, goffa nei movimenti, tendo facilmente a dimenticare le cose, soprattutto se si tratta di operazioni di tipo meccanico.
Ricordo che anche da piccola mentre giocavo a carte tendevo a giocare a caso, non ricordando ad esempio le carte già uscite.
Non riesco a mantenere l’attenzione e spesso ormai trovo anche le attività che un tempo avrei giudicato più congeniali alla mia personalità (leggere, vedere film) piuttosto stancanti (mi rendo spesso conto di vagare con la mente, di perdere dei passaggi, di non riuscire ad andare oltre il senso letterale di ciò che leggo o vedo).
Ormai sono abbastanza convinta che anche i miei successi universitari non derivino da effettive mie capacità, ma solo dal fatto che mi sono laureata in una disciplina umanistica dove non era necessario essere esageratamente brillanti, ma semplicemente padroneggiare un buon numero di nozioni astratte.
Anche nella vita personale ho la tendenza a fuggire le situazioni, anche positive: se mi succede qualcosa, anche di bello, piuttosto che vivere la situazione, tendo invece a non vedere l’ora che arrivi il momento in cui tornerò a casa e potrò rivivere quello che è successo, commentandolo con me stessa e magari fantasticando su eventuali conseguenze (che magari non si verificheranno mai).
Ecco, l’unica attività che effettivamente mi piace fare è questa: immaginare, fantasticare, dialogare continuamente con me stessa come se fossimo in due, tagliando completamente fuori il resto.
Non riesco a capire se sia questa tendenza psicologica a pregiudicare le mie capacità o se invece io possa davvero avere qualche deficit cognitivo, magari sottovalutato in questi anni.
Mi piacerebbe conoscere un vostro parere.
Grazie.
[#1]
Psicologo
Gentile Utente,
lei si descrive come una persona che ha la tendenza a vivere le esperienze più su un piano di fantasia che di realtà.
Questo modo di vivere, che in gergo clinico è correlabile ad una forma di rimuginio, sembra talmente "importante" da farle mettere in dubbio le sue reali risorse, come quando scrive che ha il dubbio che la sua laurea l'abbia ottenuta non per meriti proprio ma solo perchè non era difficile ottenerla.
Un altro passaggio che ritengo significativo è quando dice di utilizzare, come strategia di parziale evitamento delle esperienze, il ritiro nella sua fantasia.
Questo infatti le impedisce di vivere appieno le sue esperienze ed io mi chiedo: trae forse maggiore piacere nel vivere tali esperienze nella sua mente rispetto allo sperimentarsi all'atto pratico?
La tendenza a dialogare con se stessa è frutto sicuramente di una buona/ottima capacità di introspezione, tuttavia se diventa la modalità preponderante con cui vive le esperienze ciò può determinare un allontanamento dagli aspetti "reali" della sua vita e rischia di rinchiuderla in un circolo in cui lei diventa l'unico contraddittorio di se stessa.
Poichè potrebbero essercene le condizioni, le consiglierei di valutare la possibilità di iniziare un percorso con un professionista che le permetta, in uno spazio empatico e non giudicante, di sbrogliare i nodi creati da questo modo di rimuginare, comprenderne la funzione e trovare un miglior adattamento nella sua vita.
lei si descrive come una persona che ha la tendenza a vivere le esperienze più su un piano di fantasia che di realtà.
Questo modo di vivere, che in gergo clinico è correlabile ad una forma di rimuginio, sembra talmente "importante" da farle mettere in dubbio le sue reali risorse, come quando scrive che ha il dubbio che la sua laurea l'abbia ottenuta non per meriti proprio ma solo perchè non era difficile ottenerla.
Un altro passaggio che ritengo significativo è quando dice di utilizzare, come strategia di parziale evitamento delle esperienze, il ritiro nella sua fantasia.
Questo infatti le impedisce di vivere appieno le sue esperienze ed io mi chiedo: trae forse maggiore piacere nel vivere tali esperienze nella sua mente rispetto allo sperimentarsi all'atto pratico?
La tendenza a dialogare con se stessa è frutto sicuramente di una buona/ottima capacità di introspezione, tuttavia se diventa la modalità preponderante con cui vive le esperienze ciò può determinare un allontanamento dagli aspetti "reali" della sua vita e rischia di rinchiuderla in un circolo in cui lei diventa l'unico contraddittorio di se stessa.
Poichè potrebbero essercene le condizioni, le consiglierei di valutare la possibilità di iniziare un percorso con un professionista che le permetta, in uno spazio empatico e non giudicante, di sbrogliare i nodi creati da questo modo di rimuginare, comprenderne la funzione e trovare un miglior adattamento nella sua vita.
Questo consulto ha ricevuto 1 risposte e 13.3k visite dal 02/06/2020.
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