Senso di competizione con rivale storico

Buongiorno, spero possiate aiutarmi a vedere con lucidità ed imparzialità il tarlo insinuatosi nella mia testa.

Ho sofferto e attualmente soffro la depressione.

Tale patologia diede le prime avvisaglie durante il passaggio tra scuola media e liceo.

Premetto d'esser seguito da un'eccellente psicoterapeuta, sfortuna vuole che io non abbia le facoltà economiche per usufruire del suo servizio quanto mi piacerebbe invece poter fare.

Ho quasi vent'anni e sto recuperando gli anni scolastici perduti, e seppure possa sentirmi grato ed orgoglioso del mio desiderio di rivalsa, sento sempre più di frequente una pressante ansia nei confronti del futuro e delle mie, altrui aspettative.

Settimane fa ho cercato sui social alcuni vecchi compagni di scuola, e ho notato come tutti abbiano percorso la stessa strada dei genitori.
Ossia: chi era di estrazione umile, non ha continuato gli studi universitari, o ha intrapreso facoltà che spesso vengono sminuite, considerate perlopiù da sfaticati.
I figli dei ricchi invece, frequentavano ambienti d'elite.

Sono riuscito a rintracciare anche il profilo di un mio rivale storico: sfacciatamente ricco ed antipatico, e la ricchezza esasperava la sua spocchia già naturale.

Eravamo i più bravi della classe.

Lui, per una mostruosa forza di volontà unita a una rara perseveranza.
Io, per brillanti capacità di esposizione e dialettiche che andavano a colmare la mia pigrizia sui libri.
Spesso i professori mi dicevano che avrei potuto "mangiarmelo a colazione", se solo avessi tentato di studiare con serietà.

Alle elementari cercai di essere suo amico, ma lui non fece altro che mostrare supponenza e miseria interiore nei confronti della mia miseria materiale.

Lasciai perdere.

Un mio caro amico riuscì invece a stringerci amicizia: finite le medie, le nostre strade si divisero.

Ora, questo mio rivale è diventato un giovanotto attraente, studia con profitto giurisprudenza.

La classica facoltà vista con un occhio di riguardo, specie in una realtà provinciale come quella cui appartengo.

Io devo ancora diplomarmi e mi spiace esser bloccato in queste meccaniche adolescenziali.

Non so nemmeno bene cosa potrei far da grande.

Temo di essere meno di successo, di non riuscire a "vendicarmi" per l'umiliazione provata da bambino.
Temo che resti tutto com'è sempre stato: i figli dei ricchi, ricchi.
I figli dei poveri, solo un po' meno poveri.

Come posso uscire da questo bisogno di paragonare la mia vita alla sua, e sentirsi soddisfatto e in pace con me stesso?

Vi ringrazio anticipatamente per il tempo dedicatomi, e aspetto con fiducia un vostro riscontro.

Buone cose
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
per risponderle in maniera adeguata occorrono dei chiarimenti da parte sua, quindi vedrà, leggendo, perché non affronto qui il problema del suo "rivale storico".
Cominciamo dalla sua depressione. Quando è stata diagnosticata e che tipo di depressione ha certificato, lo specialista? Quali farmaci ha assunto, o assume tuttora?
Quali conseguenze ha portato nella sua vita (in termini di relazioni, studio, lavoro compromesso)? Lei parla di anni scolastici perduti. Addirittura anni? Come mai?
La prego di essere dettagliato, altrimenti ci muoviamo nella nebbia e questo non può farle bene.
Per esempio, scrive che ha un'eccellente psicoterapeuta, ma conclude con la frase: "sfortuna vuole che io non abbia le facoltà economiche per usufruire del suo servizio quanto mi piacerebbe".
Delle cure non si fruisce a piacimento, gentile utente, ma secondo il piano terapeutico concordato con lo specialista. Una seduta in più non guarisce prima e meglio; presenze discontinue, invece, illudono il paziente e alimentano la sua tendenza a non curarsi. L'eccellenza di uno specialista consiste nel portarla fuori dal tunnel. Siete a buon punto?
Glielo chiedo perché lei parla di "pressante ansia nei confronti del futuro", stato d'animo che non si concilia con una terapia in atto.
Fa poi un'affermazione poco realistica a proposito dei suoi vecchi compagni di scuola: "ho notato come tutti abbiano percorso la stessa strada dei genitori".
Per la verità viviamo in un mondo dove i figli dei bidelli diventano ingegneri e professori universitari, e i figli degli industriali finiscono drogati; non lo ha notato?
Di seguito fa un'osservazione ancora più sorprendente: "chi era di estrazione umile, non ha continuato gli studi universitari, o ha intrapreso facoltà che spesso vengono sminuite, considerate perlopiù da sfaticati".
Provi a chiarire questi punti: quali sono le facoltà considerate per sfaticati e in base a quale caratteristica si definiscono tali? Come possono dei ragazzi di scarsi mezzi finanziari frequentare "facoltà per sfaticati"? Sprecherebbero i loro pochi soldi in lauree senza futuro?
La prego di soffermarsi a riflettere. La sua terapeuta le avrà certo detto che il primo strumento per affrontare la realtà è quello di non mistificarla ai nostri stessi occhi.
Un altro punto che appare inverosimile è la frase con cui i suoi professori avrebbero liquidato un altro loro alunno: "mi dicevano che avrei potuto "mangiarmelo a colazione", se solo avessi tentato di studiare con serietà".
Rimane da capire - ma questo è appunto il nodo da trattare in seguito - perché lei non ritenne, nemmeno alle scuole medie, di potersi impegnare un po' meglio nello studio.
Se crede, ne parleremo alla prossima.
Saluti.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

[#2]
Utente
Utente
Buon pomeriggio! Intanto la ringrazio per avermi aiutato a riflettere. Ora provo a spiegarle un po'...
La depressione mi è stata diagnosticata da una psichiatra al centro di salute mentale . Lei mi ha proposto di assumere farmaci, ed io ho rifiutato pensando ingenuamente che a 18 anni fosse prematuro. Ero seguito in tale struttura a causa di problemi familiari gravi (mia madre soffre del disturbo borderline ed è violenta, durante dei litigi cercò di uccidermi, in più di un'occasione) che mi hanno portato ad atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Più tardi mi distaccai dalla struttura, non vivendo più insieme ai miei genitori.
Mio padre quand'ero piccolo mi ha sempre impedito di chiedere aiuto: forse non sarei arrivato a soffrire di depressione se avessi avuto un adulto capace al mio fianco.
La specialista che mi segue sa della mia situazione economica, e mi ha detto di contattarla all'occorrenza, dato che mi aveva visto molto migliorato rispetto all'inizio della terapia.
Sono stato molto disfattista e poco lucido nell'esporre i miei pensieri, forse complice la tristezza che faceva sì interpretassi tutto in una chiave negativa.
Credo di aver riflesso sugli altri, definendo da sfaticati alcune facoltà, il terrore che provo in prima persona per quel che potrebbe essere il giudizio degli altri sul mio conto, sulle mie scelte.
Con facoltà da sfaticato ho definito tutte quelle che non rientrassero nelle solite: ingegneria, medicina, giurisprudenza... sbagliando. Per certi versi credevo forse di esorcizzarla questa paura, criticando come non vorrei esser criticato.
La ringrazio perché con il suo commento mi ha fatto capire quanto stessi distorcendo la realtà pur di dare consistenza alle mie convinzioni.
Riguardo quel commento sul mio mio ex compagno di scuola....
Credo i miei insegnanti lo avessero detto per spronarmi a far di meglio. Penso che in un certo senso provassero empatia nei miei confronti, che ero uno studente brillante ma sregolato... che di certo avrebbe potuto essere fonte di soddisfazione per se stesso e gli altri, ma si perdeva in un bicchier d'acqua.
Forse credevano che instillando in me un senso di competizione, avrebbero potuto rendermi più diligente nello studio.
Il punto è che ai tempi, mi accontentavo di sapere di poter essere bravo. Mi piaceva sentirmi un po' come il talento che deve essere accudito o rovina se stesso. Mi piaceva essere rincorso, notato, sgridato.
Mi piaceva sapere che quel che agli altri riusciva difficile, a me veniva semplice.
Ad oggi non la penso più in questa maniera grazie al cielo, ma il mio processo di pensiero era pressappoco quello.
Il fatto di avere un "talento", notavo come mi rendesse piacevole agli occhi degli altri. Dacché ho memoria ho sempre cercato di "sedurre" gli adulti, specialmente gli insegnanti.
Infatti mi chiedo spesso cosa potrebbero pensare i miei insegnanti, paragonando il mio percorso di studi a quello del mio "rivale".
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
come sempre nei casi simili al suo lei dichiara la pericolosa scelta che ha fatto nel non assumere i farmaci, ma glissa sul motivo per cui ha perso anni di scuola. Tra l'altro, la decisione di non ottemperare alla prescrizione di uno specialista non è precisamente frutto di ingenuità.
A proposito degli anni scolastici perduti lei scrive: "Mi piaceva sentirmi un po' come il talento che deve essere accudito o rovina se stesso. Mi piaceva essere rincorso, notato, sgridato".
Quello che giace in fondo alla sua disperata richiesta di attenzione, fino a farsi del male pur di ottenerla, dovrebbe esserle noto... se fosse andato in terapia. Ma lei non l'ha fatto, a quanto pare.
La volontà di sedurre, il continuo confronto con vere o presunte eccellenze altrui, fanno parte del grido disperato del bambino che voleva capire cosa gli mancava per essere amato, per avere gli stessi diritti degli altri.
Di qui tutta una costruzione fittizia ancora basata sul confronto, sulla superiorità vantata ma sempre a rischio di essere smentita dal giudizio di chiunque; il corrosivo rancore per il passato e la rinuncia a misurarsi davvero con le prove dell'esistenza.
Caro utente, è venuto il momento di prendersi cura in prima persona di quel bambino che ancora grida, ancora piange.
Ha intelligenza, scrive bene, vive in una regione in cui non manca una buona assistenza sanitaria. Da sempre alle ASL, al Centro di Salute Mentale o al Consultorio Giovani esistono terapie gratuite o a prezzi irrisori.
Si prenda cura di quel bambino, e non pretenda di farlo da solo. Uno specialista, se lei si affiderà ai suoi sforzi professionali, avrà per lei quell'accudimento che ha sempre cercato.
Non si illuda però che la guarigione avvenga in un attimo, e nemmeno che sia un processo indolore.
Quando avrà trovato un bravo specialista, ci scriva ancora.
Le faccio i più vivi auguri.
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Utente
Utente
Gentile Dr.ssa, ritiene che dovrei cambiare specialista?
Credo di aver sottovalutato la mia condizione anche per via del giudizio della psicoterapeuta, la quale pensava avessi solo alcuni tratti depressivi, come la tendenza all'isolamento o l'apatia, e mi ha spesso suggerito che si potessero limare cercando di avere una vita sociale attiva, dandomi dei piccoli obiettivi e così via.

Per quanto riguarda gli anni scolastici, penso di averli persi anche per timore di non riuscire più ad avere gli stessi standard, il nuovo ambiente , realmente competitivo, mi ha messo a dura prova, anche perché nella mia mente si stavano affacciando problemi che prima non possedevo. Avevo appena iniziato un percorso di transizione, essendo io un ragazzo transgender. Le violenze in famiglia, i problemi di un'identità di genere incongruente col mio corpo, il disagio nello stare a contatto con le persone hanno fatto sì che mi sentissi vulnerabile e mi ritirassi dalla vita scolastica. Spero di esser stato più esaustivo.

Ho spesso domandato alla specialista che mi segue, di aumentare la frequenza delle sedute, quando ancora il denaro me lo consentiva, ma lei non lo ritenne opportuno quindi ho pensato che fosse forse la scelta migliore.
Diciamo che il percorso che sto affrontando con lei, se così si può definire data la poca continuità, non è molto incentrato sul mio passato, quanto sul presente.
Pensavo che dovrei piuttosto ridefinire la relazione terapeutica già iniziata, piuttosto che cambiare specialista, o come Lei mi suggeriva, di farmi seguire in qualche centro.

Spero di essermi fatto capire abbastanza bene, un saluto
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
come lei fa capire in quest'ultima email, un percorso psicologico al momento non c'è, e sembrerebbe di avvertire che non ci sia mai stato.
Eppure due indicazioni lo richiedevano: il primo è la diagnosi di depressione con tentativi di suicidio, il secondo la transizione di genere, prima della quale, in teoria, una terapia psicologica è obbligatoria. Mi sembra anche strano che all'età che dichiara, lei abbia completato il percorso di transizione, e che lo abbia iniziato nella prima adolescenza.
Ripeto che deve prendersi cura di sé stesso con l'aiuto di un terapeuta, con costanza.
La psicoterapeuta di cui parla in quale ramo è specializzata? Le consiglio di verificarlo sull'Albo degli Psicologi della sua regione, che trova in rete. E' una libera professionista o dipende da un centro, pubblico o privato?
Certamente può ridefinire il percorso con lei, se tutti e due siete d'accordo.
Il fatto che tale percorso "non è molto incentrato sul mio passato, quanto sul presente" può essere bene, ma senza mai dimenticare che il presente è figlio del passato, e se incontriamo degli intoppi, dei nodi, in terapia questo emerge, e va affrontato. Anzi per l'esperienza sia mia che di numerosi colleghi, il passato si ripresenta con più forza proprio nel corso di una ristrutturazione cognitiva e comportamentale rivolta al presente che nel tentativo di catturarlo con un esercizio di memoria.
Ancora auguri.
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Utente
Utente
Gentile Dr.ssa,
intuiva bene, il mio percorso di transizione non è ancora concluso, ma lo avevo iniziato privatamente, in maniera non ufficiale, per tentare di capirmi. Ad oggi mi sento più sereno per aver iniziato la t.o.s, che ha di molto appianato la disforia per il mio aspetto.
Solo dai 17 anni in poi ho potuto mettermi in regola affidandomi a un centro riconosciuto dallo stato.
Ho controllato sull'albo ma non c'era scritto nulla.
In compenso, in un sito per la ricerca di psicologi, ho trovato il suo profilo e risulta essere specializzata in: Psicologia della Gestalt, in terapia Strategica Breve, EMDR
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
"sull'albo ma non c'era scritto nulla" sarebbe più che strano.
In Italia si è psicologi solo ed esclusivamente se si è iscritti all'Albo, sezione A. Sull'Albo è riportata l'età, il luogo di lavoro, l'eventuale specializzazione e anche la foto, quest'ultima a discrezione del professionista.
Altrimenti non si è psicologi.
Un accertamento lo può fare cercando sull'Albo Nazionale Psicologi: lì ci sono meno dati, ma il nome e cognome ci devono essere, e anche la regione di appartenenza.
Forse non l'ha trovata nella sua regione perché è iscritta in un'altra.
Nel centro statale dove sta completando il cambiamento di genere non le hanno prescritto un percorso psicologico?
In realtà avrebbero dovuto farlo anche nel centro privato. E' lì che ha incontrato la sua attuale psicoterapeuta?
Mi faccia sapere.
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