Disagio per l'università

Buonasera, gentili medici, purtroppo una situazione a casa che dura da tre anni sta minacciando gravemente la mia felicità presente e futura.
Oggi ho quasi 22 anni, e tre anni fa, dopo l'esame di maturità di un liceo che non mi è mai piaciuto, ho scelto quello che realmente mi ha sempre appassionato, cioè l'università di fisica.
In partenza, ero entusiasta, soprattutto perchè mi sentivo a capo di questa mia carriera, una sensazione diametralmente opposta a quella vissuta fino ad allora, di costrizione nel fare qualcosa che non apprezzavo.
Mi sentivo propositivo e felice.
Mio padre, però, conscio di tutto questo, dopo aver provato più volte a farmi cambiare idea, una volta iscrittomi, ha cominciato ad assumere un atteggiamento insensatamente dispotico riguardo questo aspetto: "stai studiando?! Tu DEVI studiare, perchè io pago! " "Papà, io studio, ma non mettermi pressione inutile! " "È come se fossi un mio operaio, dopo 5 anni (la scuola) che non studi non puoi permetterti il LUSSO di non farti imporre lo studio! ".
Il messaggio tra le righe è che io non ho ricevuto l'importante "regalo" dello strumento universitario per utilizzarlo al fine del libero compimento dei miei desideri e progetti, ma, al contrario, seppur nell'università che mi piace, mi trovo ad essere un semplice "operaio" che esegue un progetto che non è il mio ma di mio padre, e questo perchè "le tasse le paga lui".
La conseguenza è che ho perso totalmente la voglia di studiare e lo spirito creativo, entrambi indispensabili per studiare bene.
La fisica, come la psicologia, qui voi mi capirete bene, non è solo un insieme di fredde nozioni, è un'arte, e come ogni arte ha bisogno di due cose importanti: ispirazione e libertà creativa.
Non riesco a trovare l'ispirazione allo studio se mi viene accollato al suo posto il senso del dovere da un padre che si comporta come fosse l'unico a volere che studi, e non riesco a sentire la libertà creativa se sento di essere il mero servo di un progetto altrui.
So che potrebbe sembrare un capriccio ma tutto questo fa un'enorme differenza per me.
Immaginiamo un pittore che sogna di dipingere in base alle sue idee, per cui chiede al padre pennello, tela e colori, ma questi, una volta comprato l'occorrente, si mettesse a trattare il figlio come un artigiano al suo servizio.
Mio padre è un uomo molto frustrato, e credo che lui sappia il male che mi sta facendo, e che lo faccia apposta.
Le varie volte in cui ho provato a parlargli è finita molto male, senza alcun risultato.
Tecnicamente mi impone di fare ciò che voglio anche io, e non può certo influire sul modo in cui studio, quindi sembrerebbe che pur essendo teoricamente sbagliata, questa situazione nella pratica mi permetta di fare come voglio.
Tuttavia, non so perchè, sapendo che il mio controllo sullo studio non viene apertamente riconosciuto, mi sento psicologicamente condizionato e non riesco a toccare libro, è un blocco.
Sapreste spiegarmi come mai?
Secondo voi ha senso tutto questo o sono pazzo?
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
è stato chiarissimo nel descrivere il conflitto genitore-figlio, ma le devo dire che trovandosi nella sua stessa situazione, altri sono stati capaci, o hanno scelto, di puntare su sé stessi, proprio al fine di liberarsi al più presto del giogo familiare.
Avrà sperimentato, come tutti, che l'università, anche la facoltà che si ama, presenta luci e ombre. C'è il professore geniale, trascinante, quello che sembra pensare solo alla carriera, e anche quello che palesemente ricopre il suo ruolo senza merito.
Se tutti ci fossimo lasciati vincere dalla delusione, o peggio ancora, per metterci sui libri avessimo aspettato "ispirazione e libertà creativa", nessuno si sarebbe mai laureato.
Vengo al punto: l'università è un impegno che richiede uno sforzo personale. Non è come il liceo, dove il prof ci interrogava periodicamente su quattro paginette: qui la scansione dei tempi di una preparazione molto più estesa è interamente a nostro carico.
Molti non ce la fanno a reggere questa responsabilità, salvo poi mangiarsi le mani quando vedono altri colleghi, che ritengono mediocri, macinare esami su esami, finire presto e fare poi una brillante carriera.
La differenza consiste proprio nel puntare su sé stessi, avendo le idee chiare su quello che si vuole, o invece cercare tutti gli alibi possibili per sentire disturbata la propria "arte".
Se i discorsi di suo padre le sono insopportabili, impari ad ignorarli. Dopo tutto è ancora una fortuna avere qualcuno che ci paga gli studi. Se poi non vuole vivere e studiare a spese di lui, si cerchi un lavoro.
Pur con la più grande comprensione per la difficoltà di questo suo conflitto, posso esserle d'aiuto solo invitandola a puntare su sé stesso, valutando con sincerità quali sono i suoi veri obiettivi; altrimenti sarà sempre vittima di suo padre, delle circostanze, della sfortuna, e così via.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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Utente
Utente
Gentile Dottoressa, grazie per la veloce risposta e per gli auguri,
mi sono chiesto anche io quanto questi sentimenti fossero giustificati e non delle semplici scuse a me stesso.
Quello che oggi è un discorso chiaro che deriva da una consapevolezza altrettanto chiara della problematica, tre anni fa era soltanto un ammasso informe di disagio, di questo problema percepivo solo gli effetti sullo studio e mi sono sentito anche molto in colpa e torto, pur sapendo che il nervosismo era innescato dai dialoghi con mio padre.
Se questa fosse una scusa che do a me stesso per non studiare allora mi sarei inventato tutto all'inizio e poi mi sarei arrampicato su questo specchio, invece che scardinare passo passo questa situazione con un lavoro introspettivo, mi creda, lungo e sfiancante. Oltretutto, nelle primissime fasi dell'università, prima che queste pressioni in famiglia si palesassero, io studiavo ogni giorno e con un entusiasmo. Dopo ogni litigio mi sentivo psicologicamente sabotato, ma poi col passare dei giorni mi riprendevo, poi però si ripresentavano in famiglia quelle discussioni, e la mia motivazione calava, per poi rialzarsi sempre più acciaccata, solo dopo vari episodi sono collassato in un blocco quasi totale nei confronti dello studio. Passo la giornata a non fare niente, sepolto nei sensi di colpa, poi ho bisogno di un po' di gratificazione e quindi mangio schifezze, pur promettendomi sempre di mangiare bene, anche perchè mi viene facilmente la colite. In questi anni ho giocato e mi sono allenato negli scacchi come un forsennato. A detta anche di colleghi, se avessi impiegato queste energie nello studio, sarei già stato a buon punto con gli esami. La fisica mi piace e la desidero più degli scacchi, che dovrebbero essere solo un hobby, ed anzi per la mente possono essere persino più faticosi, ma in questo gioco, a differenza che all'università, posso sentirmi in ballo in prima persona, riesco a percepirlo come qualcosa di mio, perchè a nessuno frega se gioco a scacchi, quindi posso sentire il piacere di allenarmi per mio volere, e giocare le mie partite. Ma come ho detto vedo questa cosa solo come un surrogato, paradossalmente ormai quasi li odio gli scacchi. Adesso che, come lei nota, ho le idee più chiare sui miei diritti/doveri, mi sento più pronto a cercare di recuperare la situazione studiando, ma ho paura che non appena si ripresenterà una conversazione con mio padre questo castello di carte cada di nuovo e debba ricostruirlo da 0, sprecando ulteriore tempo ed energie.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
la soluzione le è già stata indicata: pensi alla sua vita, non a far dispetto a suo padre.
Si rende conto, immagino, che frasi come: "si ripresentavano in famiglia quelle discussioni, e la mia motivazione calava, per poi rialzarsi sempre più acciaccata" non hanno senso.
La sua motivazione allo studio non c'entra nulla con le critiche di suo padre. Queste possono addolorarla, offenderla, irritarla, farle perdere tempo nel cercare di superare il malumore, ma non certo incidere sulla sua motivazione allo studio. Altrimenti lei sarebbe come il bambino viziato che seduto a tavola coi genitori, alla prima osservazione incrocia le braccia dice: "E allora io non mangio!".
Dalla sua ultima email emerge però anche una tendenziale ludopatia. Lei solo può sapere quanto gli scacchi abbiano preso il posto dello studio, e correre ai ripari.
Anche la consultazione diretta di uno psicologo può giovarle, se l'interesse per la laurea è reale.
Ci pensi.
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Utente
Utente
Mi scusi Dottoressa per il ritardo della risposta, in questi giorni ho riflettuto molto sulle sue parole.
Escludo innanzitutto una tendenza ludopatica nei confronti degli scacchi. Giustificato o meno, è il disagio nei confronti dello studio e il conseguente, interminabile, ma letalmente veloce "tempo libero" che mi rimane a spingermi verso il gioco, che non è d'azzardo e non mi mancherebbe affatto se trovassi un modo migliore per spendere le mie giornate.
Detto questo, volevo descriverLe il carattere di mio padre: una persona secondo me molto insoddisfatta dei suoi risultati, sempre pronta ad intavolare litigi per banalità, per poi, con altrettanta imprevedibilità, tornare almeno in apparenza buono e amorevole, quasi indifeso. Poche volte ammette il proprio torto, se ne ha, e quando ha ragione non transige minimamente. I suoi sbalzi d'umore, se così li si può chiamare, influenzano la serenità della famiglia, che quindi lo asseconda sempre per paura della sua "testa calda". Quando qualcuno non risponde alle sue telefonate si arrabbia molto e a lungo, mentre più volte è capitato che resti irreperibile mentre si trova in luoghi dove è facile essere in pericolo, come da solo in campagna o da solo in auto in piena notte, facendo spaventare mia madre. In questi casi, non avendo ragione accampa delle giustificazioni e se non vengono accettate siamo noi "esagerati". Con me ha sempre alternato l'atteggiamento, a parole, di un padre buono, che desidera il meglio per me, ama le carezze, l'affetto eccetera a momenti di critica estrema. Nel mio periodo adolescenziale è stato un continuo di litigi e questioni che apriva per sciocchezze per poi arrivare al dire cose come "vali 2 lire", "non hai regole", "sei strano e presuntuoso", "sei tutto da rifondare", "stupido" e chi più ne ha più ne metta. Spesso, quando doveva andare a lavoro di prima mattina, mi attaccava prima di uscire, come se lo facesse apposta per lasciarmi arrabbiato. In alcuni momenti, paonazzo in viso, mi diceva "D'ora in poi ti starò addosso, giuro che ti cambio!". Ora, però, voglio mettermi in dubbio prima di etichettarlo come brutta persona, anche perchè se avessi ragione significherebbe di trovarmi davanti ad una specie di mostro, senza sconti. Ultimamente ho l'impressione che utilizzi un comportamento manipolatorio nei miei confronti. Mi sono documentato a riguardo su internet e sembra rientrare generalmente nella descrizione del padre narcisista. Suo padre è stato un uomo molto controllante ed egoista nei suoi confronti, e questo è un dato di fatto. C'è da dire che io, facendo introspezione, mi sembro un po' paranoico: quando vedo qualcosa che non va cado spesso preda di sospetti, sono una persona che si fa molti dubbi, a volte vedo del marcio in alcune sue semplici parole o occhiate, quindi sono nel pallone più totale, in un limbo tra il dubbio nei miei confronti e quello nei confronti di mio padre. A parte il consulto di uno psicologo faccia a faccia, che al più presto mi attiverò per ricercare, cosa potreste dirmi di questa situazione? Ve lo chiedo per diradare anche solo di poco la nebbia di confusione che ho in testa. Sarebbe già molto. Mi creda, non mi reputo una cattiva persona e non amo puntare il dito sugli altri, men che meno su mio padre. Se potessi scegliere vorrei essere io il pazzo tra i due, perchè almeno così curandomi si risolverebbe tutto.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Caro ragazzo,
le sue parole mi hanno interessata, a tratti divertita, e mi hanno dato anche l'impressione -spero non sbagliata- che lei in fondo voglia bene a suo padre.
Del resto, se è come lo descrive, è più impulsivo che tortuoso, più mutevole che malevolo, e in ultima analisi ha i suoi momenti teneri, il che è una qualità non scontata.
Rimane il fatto che lei:
1) si mostra troppo sensibile ai suoi malumori e alle sue intemperanze verbali, che da come li descrive hanno più un tono teatrale che un vero risvolto in azioni nocive (come sarebbe sottrarle il mantenimento, non pagarle più gli studi, etc.);
2) non accetta ancora che forse è caduto nella trappola della ludopatia, la quale non riguarda necessariamente il gioco d'azzardo ma qualunque "distrazione" dalle attività necessarie che si offra immediatamente come alternativa e si protragga per troppe ore al giorno.
Le due cose, specie se abbinate, fanno temere che si sia aperta qualche falla tra lei e i suoi studi, anche solo relativamente al metodo.
Riflettendo alle difficoltà da lei incontrate al liceo, alla sua tendenza a non concretizzare, vogliamo proprio escludere che suo padre abbia ragione, ogni tanto, a cedere alla preoccupazione e alla rabbia?
Auguri.
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Utente
Utente
Dottoressa, grazie per la veloce risposta,
lei mi chiede se voglio bene mio padre.
Certo che glie ne voglio, o per meglio dire glie ne vorrei volere.
Mi riferisco al fatto che, magari per una mia paranoia, mio padre è ai miei occhi o un padre con i suoi pregi e i suoi difetti, quindi un padre normale, degno di tutto il bene che è giusto ci sia, e che non avrei intenzione di fargli mancare, o l'esatto opposto. E questo dubbio mi fa stare male.
Come le ho detto, forse è stato questo a divertirLa, tra i due preferirei essere io il pazzo, perchè significherebbe riscoprire di essere al sicuro, l'allentarsi di tutte le tensioni superflue e il poter tornare a vedere mio padre come mio alleato, e non come un sabotatore o un despota, per poi sentirmi libero di dedicarmi come si deve allo studio, ma finché non ci vedrò chiaro rimarrò in questo insopportabile limbo che non si capisce se sia paranoia o gaslighting.
Per quanto riguarda gli scacchi, non mi credo dipendente da questo gioco più di quanto non lo sia per il buon cibo, per quello sì che dovrei darmi un freno! Forse sono stato esagerato nel descriverlo, ma il mio giocare a scacchi è ben al di sotto della definizione di dipendenza che Lei ha descritto. Detto questo, mi ritengo ormai soggettivamente stufo di questo gioco, che non ho abbandonato del tutto solo per non vanificare il sudato allenamento, ma che ormai è ridotto ai minimi termini (massimo un paio d'ore al giorno, giusto perchè siamo in quarantena, anche se potrei fare di più). Quello che lei dice mi rassicura, ma ho un forte bisogno di certezze.
Su internet ho trovato vari articoli, video, pagine che parlavano di narcisismo, che ho ricollegato al comportamento di mio padre, notando vari punti in comune. Cosa mi dice di queste fonti? Generalmente vale la pena fare delle ipotesi a partire da esse, o si tratta di materiale potenzialmente fuorviante?
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 194
Gentile utente,
si farebbe da solo un'operazione di appendicite guardando un video su Internet?
E venendo ad un campo a lei più vicino, pensa che chiunque possa acquisire competenze di fisica leggendo degli articoli divulgativi?
Con questo io ho concluso tutto quello che posso fare per lei da questa postazione. Ora dev'essere lei stesso a prendere in pugno la sua vita, anche cercando un aiuto psicologico diretto.
Infiniti auguri.
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Utente
Utente
Grazie per le informazioni e gli auguri, Dottoressa. Spero di trovare le risposte che cerco e soprattutto di rimettere ordine a questo caos senza perdere ulteriormente tempo. Buona giornata.