Interrompere la psicoterapia

Salve, sono una donna di 42 anni e da tre mesi ho scoperto che i miei problemi somatici erano dovuti a un disturbo di conversione.
Ho iniziato quasi subito un percorso di psicoterapia, come mi era stato consigliato in ospedale e inizialmente devo dire che è stato anche interessante.
Ho scoperto di avere un disturbo di personalità, ovvero istrionica e effettivamente ogni volta che avevo una seduta per me era sempre una valvola di sfogo.
Ora mi sto praticamente annoiando.
Ho già detto tutto ciò che avevo da dire di me, ho capito quali sono i modi che devo usare per risolvere i miei conflitti, perché a quanto pare, ne ho parecchi! Ma sento che nulla è cambiato, e che pensavo che il terapeuta mi desse anche gli strumenti per risolvere i miei conflitti che invece, resteranno.
Mi dispiace perché non voglio certo sminuire il mio terapeuta, ma sento che non abbiamo più nulla da dirci, che io non riesco a lavorare su di me cone lei vorrebbe e che è una noia tutte le volte che vado.
I miei problemi mi sembrano essere diventati sciocchi e mi infastidisce anche parlarne tutte le volte.
Tra l'altro non so neppure se abbia fatto bene a non affrontare i miei disturbi di conversione con una psichiatria come mi era stato consigliato.
Ora sono indecisa su cosa fare e se abbia senso continuare o se invece si tratti di una normale fase della terapia.
Vorrei un consiglio.
Grazie
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.3k 193
Gentile utente,
il consiglio che va dato in questi casi è quello di parlarne con il proprio terapeuta. Del resto lo ha già fatto la mia collega dott.ssa Bruniatti in una risposta precedente.
Personalmente apprezzerei il paziente che mi facesse leggere la lettera che ha scritto a noi, molto dettagliata.
Può darsi che la sua stanchezza nei confronti della terapia sia la manifestazione del disturbo di personalità di cui parla nelle lettere precedenti: spesso infatti questo disturbo comporta noia di tutto ciò che è costante e ripetitivo.
Può darsi che a deluderla sia invece il timore di sbagliare terapia, non avendone affrontata una psichiatrica.
Può darsi, altra ipotesi, che lei non stia sfruttando al meglio la terapia in atto: "io non riesco a lavorare su di me cone lei vorrebbe" scrive; e poco sopra, al contrario: "pensavo che il terapeuta mi desse anche gli strumenti per risolvere i miei conflitti che invece, resteranno".
Dunque, è il terapeuta che non le fornisce gli strumenti, o lei che non applica le sue prescrizioni in modo idoneo?
Nell'uno come nell'altro caso, e anche se si trattasse degli altri problemi elencati sopra, chi può discutere e rivalutare tutta la procedura meglio dello stesso terapeuta?
Soprattutto una visione scoraggiata come "i miei conflitti resteranno" non aiuta ad attuare il cambiamento.
Nel corso delle sue email, inoltre, lei sembra equivocare sia sulla diagnosi che le è stata fornita, sia sul percorso terapeutico che sta affrontando, per cui a volte parla di psicanalisi, a volte di terapia comportamentale, a volte di analisi comportamentale.
Qual è dunque la terapia che le hanno prescritta dopo i primi episodi del suo disturbo, e quale terapia sta attuando?
Fare chiarezza, con l'aiuto del curante, le farà certamente bene.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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Utente
Utente
Per prima cosa la ringrazio per la risposta tempestiva. Tra psicoterapia oppure terapia comportamentale sono forse io a fare confusione. Quando ho avuto le paralisi totali ho faticato ad accettare che si trattasse di panico, così mi era stato diagnosticato, solo con la consulenza psichiatrica, fatta in ospedale si è poi classificato cone disturbo di conversione. La psichiatra mi consigliò di rivolgermi a un centro di salute e igiene mentale ma i tempi erano davvero troppo lunghi: 4 mesi di attesa per il primo colloquio. Ho deciso così, su consiglio del neurologo che inizialmente mi aveva seguito di iniziare con un psicoterapeuta. In principio ho trovato molte risposte ai tanti dubbi che avevo e ho dato un nome a tante cose che prima non lo avevano. I miei conflitti dipendono molto da situazioni familiari che mi legano e dalle quali non posso liberarmi. Ovvero una mamma che vive con me e dalla quale ero scappata che è oramai anziana, economicamente in difficoltà e con disturbo di personalità narcisistico. Un marito che non vuole lavorare e un bambino di sei anni e una figlia adolescente, un lavoro stressante, poco appagante professionalmente. Tutto sulle mie spalle, il peso che a volte credo di riuscire a sostenere, in realtà grava molto su di me. Logicamente quando parlo di strumenti in realtà cerco soluzioni. Riuscire a lavorare su di me con queste zavorre addosso mi sembra impossibile. Ho già parlato di questo con la dottoressa, lei è fiduciosa ma io non riesco ad andare avanti. Ne parlerò comunque nella prossima seduta.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.3k 193
Gentile utente,
certamente in terapia deve trovare soluzioni, altrimenti la terapia a cosa servirebbe?
Solo che le soluzioni non sono quelle rapide e sempliciotte che nei momenti di scoraggiamento desideriamo: vincere la lotteria, vedere un marito antipatico trasformarsi in un principe azzurro, e così via.
Purtroppo lei scrive: "Riuscire a lavorare su di me con queste zavorre addosso mi sembra impossibile".
Eppure, cara signora, non si va in terapia perché si sta bene e non si hanno problemi, quindi sono proprio le zavorre quelle che bisogna affrontare. Il suo corpo ci ha provato, opponendo ad un lavoro frustrante l'immobilità della paralisi isterica. Il suo terapeuta ci sta provando, immagino, col cercare i vari strumenti per fronteggiare la situazione: quelli fondati sul suo sistema di idee e di emozioni da un lato, e dall'altro quelli fondati sul problema, ossia le soluzioni pratiche.
Le faccio qualche esempio: lei ha preso in casa una madre con cui non andava d'accordo. Perché l'ha fatto? Quali idee e sentimenti l'hanno spinta a questa decisione? Siamo certi che abbia fatto il bene di tutti, con questa scelta? Quali sono le alternative?
Altro esempio: ha un marito che non vuole lavorare. Se è malato, si curi; altrimenti vada a lavorare, o esca di casa. Il suo terapeuta l'aiuterà a scegliere e a sostenere la sua fermezza, o perfino parlerà con suo marito, se ritiene sia il caso.
Non ci sono situazioni senza soluzione: esistono soluzioni prese da noi, sempre ricordando che dobbiamo contentarci del buono e non cercare l'ottimo che può essere inarrivabile; e in assenza delle nostre scelte, ci sono soluzioni prese dalla natura (ne è esempio la sua malattia) o dalla sorte. Se è religiosa può affidarsi all'intervento di Dio, sempre però ricordando il proverbio "aiutati che Dio t'aiuta".
Nei limiti di una consulenza online le sto dando ovviamente risposte troppo drastiche; ma in una buona terapia in presenza sono proprio i suoi problemi reali quelli che deve affrontare. Si accerti di aver scelto una terapia cognitivo-comportamentale.
Le faccio tanti auguri, signora, e spero che vorrà metterci al corrente di una vera guarigione.
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Utente
Utente
Grazie. Certamente lei ha ragione, il mio corpo alla fine ha reagito là dove io non sono riuscita o meglio non ci ho provato. Mia madre, mi è capitata. Lei dopo la separazione con mio padre è andata a vivere con una amica e io con la mia famiglia occupo la sua casa. Poi mia mamma è dovuta andare via, a causa della malattia dell'amica e aveva solo la sua casa. Con mio marito ho discusso parecchio sulla situazione lavorativa ma senza venirne a capo. E così se gli altri non collaborano, tu che fai? Ti adatti. È quello che ho fatto e che faccio con tutti. Perché ho paura di prendere decisioni, ho paura di essere giudicata...tanto mi dico sempre IO CE LA POSSO FARE!. Ma a quanto pare il mio corpo mi ha detto che non ce la faccio più.
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