Stress post traumatico e amore
Buonasera a tutti.
Cercherò di essere, per quel che mi è possibile, breve.
Ho conosciuto, un anno fa, un ragazzo del quale mi sono innamorata.
Abbiamo entrambi 29 anni.
Lui è africano (è in Italia dal 2014), ma, apparentemente, ben integrato nella nostra realtà (ha conseguito una laurea in Italia e lavora in prefettura).
Inizialmente andava tutto bene - anche se sin dall'inizio lui mi diceva sempre che, da quando ci siamo conosciuti, lui riusciva a dormire: a questa affermazione, ho sempre risposto che non essendo io il motivo per il quale non riusciva a dormire (non ci conoscevamo ancora), non potevo essere io la "soluzione".
Dopo qualche mese ha iniziato a diventare distante e freddo.
Al mio incalzarlo, ha risposto che era già qualche mese che non riusciva più ad essere felice, ma che io non c'entravo nulla e mi ha chiesto una pausa - che a malincuore gli ho concesso.
Ha iniziato a farsi seguire da uno psicologo, ma il suo isolamento è continuato: chiamate e messaggi sempre più di rado (viviamo ad 800km di distanza, ma, per via di un master, sono stata circa quattro mesi su da lui).
Al che gli ho proposto di lasciarci.
Lui ha accettato di buon grado - senza alcuna emozione.
Dopo mi ha scritto per degli auguri; io gli ho chiesto come stesse, ma le sue risposte rimanevano sempre sul vago.
Mi ha chiamato una volta (gli ho risposto cercando di essere il più delicata possibile), ma alle mie seguenti chiamate non c'è stata alcuna risposta, se non "non mi stressare" e "fammi respirare".
Dopodiché mi ha bloccato.
Ho parlato con un suo amico che mi ha confermato quanto già avevo intuito, ovvero che si tratta di fenomeni depressivi dovuti ad un probabile stress pos traumatico, con implicazioni identitarie, culturali e di integrazione (un percorso che lui non ha mai fatto essendo uscito dopo soli 14 giorni dal centro di accoglienza).
Io sono davvero innamorata di questo ragazzo - ed ero sicura lui lo fosse di me - e la differenza culturale, che pure c'è, la consideravo, così come lui, un ostacolo superabile (lo era un po' meno per me quella religiosa, ma lui non è affatto, così come non lo sono io, un praticante).
Ora, la mia domanda è: possono il percorso psicologico che sta conducendo ed il viaggio in Africa programmato di concerto con lo psicoterapeuta (a dire del suo amico) aiutarlo davvero?
Potrebbe, alla fine della terapia, ritrovare quelle emozioni, positive e negative, che si dice non più capace di provare?
Insomma, ha senso che io lo aspetti - nonostante questa apparente chiusura (a me sembra di stare a parlare con un'altra persona, con un muro...di cemento armato e rinforzato)?
Grazie in anticipo per l'attenzione.
Ps:non è passato dalla Libia, ma ha, alle spalle, eventi a mio modo di vedere traumatici per qualunque essere umano.
Cercherò di essere, per quel che mi è possibile, breve.
Ho conosciuto, un anno fa, un ragazzo del quale mi sono innamorata.
Abbiamo entrambi 29 anni.
Lui è africano (è in Italia dal 2014), ma, apparentemente, ben integrato nella nostra realtà (ha conseguito una laurea in Italia e lavora in prefettura).
Inizialmente andava tutto bene - anche se sin dall'inizio lui mi diceva sempre che, da quando ci siamo conosciuti, lui riusciva a dormire: a questa affermazione, ho sempre risposto che non essendo io il motivo per il quale non riusciva a dormire (non ci conoscevamo ancora), non potevo essere io la "soluzione".
Dopo qualche mese ha iniziato a diventare distante e freddo.
Al mio incalzarlo, ha risposto che era già qualche mese che non riusciva più ad essere felice, ma che io non c'entravo nulla e mi ha chiesto una pausa - che a malincuore gli ho concesso.
Ha iniziato a farsi seguire da uno psicologo, ma il suo isolamento è continuato: chiamate e messaggi sempre più di rado (viviamo ad 800km di distanza, ma, per via di un master, sono stata circa quattro mesi su da lui).
Al che gli ho proposto di lasciarci.
Lui ha accettato di buon grado - senza alcuna emozione.
Dopo mi ha scritto per degli auguri; io gli ho chiesto come stesse, ma le sue risposte rimanevano sempre sul vago.
Mi ha chiamato una volta (gli ho risposto cercando di essere il più delicata possibile), ma alle mie seguenti chiamate non c'è stata alcuna risposta, se non "non mi stressare" e "fammi respirare".
Dopodiché mi ha bloccato.
Ho parlato con un suo amico che mi ha confermato quanto già avevo intuito, ovvero che si tratta di fenomeni depressivi dovuti ad un probabile stress pos traumatico, con implicazioni identitarie, culturali e di integrazione (un percorso che lui non ha mai fatto essendo uscito dopo soli 14 giorni dal centro di accoglienza).
Io sono davvero innamorata di questo ragazzo - ed ero sicura lui lo fosse di me - e la differenza culturale, che pure c'è, la consideravo, così come lui, un ostacolo superabile (lo era un po' meno per me quella religiosa, ma lui non è affatto, così come non lo sono io, un praticante).
Ora, la mia domanda è: possono il percorso psicologico che sta conducendo ed il viaggio in Africa programmato di concerto con lo psicoterapeuta (a dire del suo amico) aiutarlo davvero?
Potrebbe, alla fine della terapia, ritrovare quelle emozioni, positive e negative, che si dice non più capace di provare?
Insomma, ha senso che io lo aspetti - nonostante questa apparente chiusura (a me sembra di stare a parlare con un'altra persona, con un muro...di cemento armato e rinforzato)?
Grazie in anticipo per l'attenzione.
Ps:non è passato dalla Libia, ma ha, alle spalle, eventi a mio modo di vedere traumatici per qualunque essere umano.
[#1]
Gentile utente,
tutte le Sue domande occorrerebbe porle al di lui Psicoterapeuta.
Che forse però potrebbe rispondere:
"ci stiamo lavorando, ma non ho la sfera di cristallo per prevedere il futuro"...
Di conseguenza nessuno può ragionevolmente prevedere se ".. ha senso che io lo aspetti..":
sarà Lei a prendere tale decisione assumendosene tutto quanto ne consegue.
Una piccola notazione:
Le "differenze culturali" non riguardano solo la mente e la cultura stricto sensu (usanze, opinioni, ideologia, valori, religione, ecc.),
bensì anche le modalità con cui si strutturano i legami affettivi e di attaccamento.
Saluti cordiali.
Dott. Brunialti
tutte le Sue domande occorrerebbe porle al di lui Psicoterapeuta.
Che forse però potrebbe rispondere:
"ci stiamo lavorando, ma non ho la sfera di cristallo per prevedere il futuro"...
Di conseguenza nessuno può ragionevolmente prevedere se ".. ha senso che io lo aspetti..":
sarà Lei a prendere tale decisione assumendosene tutto quanto ne consegue.
Una piccola notazione:
Le "differenze culturali" non riguardano solo la mente e la cultura stricto sensu (usanze, opinioni, ideologia, valori, religione, ecc.),
bensì anche le modalità con cui si strutturano i legami affettivi e di attaccamento.
Saluti cordiali.
Dott. Brunialti
Dr. Carla Maria BRUNIALTI
Psicoterapeuta, Sessuologa clinica, Psicologa europea.
https://www.centrobrunialtipsy.it/
[#2]
Utente
Gent. Le Dott. Ssa Brunialti, innanzitutto La ringrazio per la celere risposta.
Effettivamente ho posto una domanda alla quale sapevo non potesse esserci risposta ragionevolmente rassicurante - ho fatto prevalere le mie emozioni nel porla.
Quando Lei dice che la cultura riguarda anche il modo di strutturarsi dei legami affettivi, coglie nel segno: appena si è presentata questa anaffettività, infatti, ho più volte chiesto al mio ragazzo se questo fosse un problema che inerisse la sua sfera personale, o se fosse, piuttosto, caratteristica dell'uomo africano (e sicuramente in parte lo è) l'essere restii a manifestazioni d'affetto visibili.
Ecco, il fatto culturale, che pure c'è e sul quale bisogna che si lavori entrambi, può spiegare in parte il fenomeno apatico nel quale è coinvolto. Sicuramente non è mai stato Leonardo di Caprio in Titanic(e, mi creda, nemmeno mi interessa che lo sia), ma non è mai stato così: si è spento piano piano. Tanto che quando gli facevo notare il suo distacco ribatte a che, se in quel momento non ci riusciva, dovevo avere io questi gesti per entrambi.
Comprenderà, a mia difesa, che il parthner in queste situazioni è portato a pensare di essere lui stesso il problema.
Ora, sostanzialmente, riformulandole, le mie domande sono due:
- Può il suo status psicologico attuale averlo effettivamente portato ad essere così distaccato anche nei confronti della persona che diceva di amare (lo è stato anche con gli amici)?
- Può questo viaggio in Africa, a prescindere da me, aiutarlo nel suo percorso di riconquista dell'essere?
In attesta di un Suo cortese riscontro, La ringrazio ancora e Le porgo i miei saluti.
Effettivamente ho posto una domanda alla quale sapevo non potesse esserci risposta ragionevolmente rassicurante - ho fatto prevalere le mie emozioni nel porla.
Quando Lei dice che la cultura riguarda anche il modo di strutturarsi dei legami affettivi, coglie nel segno: appena si è presentata questa anaffettività, infatti, ho più volte chiesto al mio ragazzo se questo fosse un problema che inerisse la sua sfera personale, o se fosse, piuttosto, caratteristica dell'uomo africano (e sicuramente in parte lo è) l'essere restii a manifestazioni d'affetto visibili.
Ecco, il fatto culturale, che pure c'è e sul quale bisogna che si lavori entrambi, può spiegare in parte il fenomeno apatico nel quale è coinvolto. Sicuramente non è mai stato Leonardo di Caprio in Titanic(e, mi creda, nemmeno mi interessa che lo sia), ma non è mai stato così: si è spento piano piano. Tanto che quando gli facevo notare il suo distacco ribatte a che, se in quel momento non ci riusciva, dovevo avere io questi gesti per entrambi.
Comprenderà, a mia difesa, che il parthner in queste situazioni è portato a pensare di essere lui stesso il problema.
Ora, sostanzialmente, riformulandole, le mie domande sono due:
- Può il suo status psicologico attuale averlo effettivamente portato ad essere così distaccato anche nei confronti della persona che diceva di amare (lo è stato anche con gli amici)?
- Può questo viaggio in Africa, a prescindere da me, aiutarlo nel suo percorso di riconquista dell'essere?
In attesta di un Suo cortese riscontro, La ringrazio ancora e Le porgo i miei saluti.
[#3]
Gentile utente,
sì, lo "può".
Tenga conto che "può" indica solamente la possibilità che ciò accada,
non la probabilità.
La possibiità può essere da poco sopra lo zero al 100%.
Ma questo lo si vedrà solo vivendo.
E dunque ri-pone sulle Sue spalle la responsabilità della scelta.
Come Lei - persona riflessiva -
ben sa,
non è semplice decidere cosa fare,
e lo Psicoterapeuta non interviene nel merito, nel contenuto.
Quanto si poteva invece dire sul metodo, è stato detto.
Saluti carissimi.
Dott. Brunialti
sì, lo "può".
Tenga conto che "può" indica solamente la possibilità che ciò accada,
non la probabilità.
La possibiità può essere da poco sopra lo zero al 100%.
Ma questo lo si vedrà solo vivendo.
E dunque ri-pone sulle Sue spalle la responsabilità della scelta.
Come Lei - persona riflessiva -
ben sa,
non è semplice decidere cosa fare,
e lo Psicoterapeuta non interviene nel merito, nel contenuto.
Quanto si poteva invece dire sul metodo, è stato detto.
Saluti carissimi.
Dott. Brunialti
[#4]
Utente
Sì, Dott. ssa.
Effettivamente, forse (anche il forse non è onesto), in cuor mio, ho già deciso cosa fare. Aspettarlo, almeno per il momento, è l'unica cosa che riesco a fare.
Vedremo - chiaramente lo spero - se questo percorso lo aiuterà a capire cosa realmente vuole ed a chiudere quelle porte del suo passato che, molto probilmente, sono ancora aperte.
In ogni caso, La ringrazio sentitamente per l'ascolto.
Con stima
Effettivamente, forse (anche il forse non è onesto), in cuor mio, ho già deciso cosa fare. Aspettarlo, almeno per il momento, è l'unica cosa che riesco a fare.
Vedremo - chiaramente lo spero - se questo percorso lo aiuterà a capire cosa realmente vuole ed a chiudere quelle porte del suo passato che, molto probilmente, sono ancora aperte.
In ogni caso, La ringrazio sentitamente per l'ascolto.
Con stima
Questo consulto ha ricevuto 5 risposte e 1.7k visite dal 24/11/2019.
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