Ansia o depressione
Gentili Dottori ho 42 anni, sposato con due figli piccoli di professione manager. Mio padre ha una lieve forma di depressione arrivata in tarda età e ho uno zio e un cugino che hanno sofferto di depressione importante. Soffro da circa 5 anni di una forma di ansia che si esplicita quando devo esporre davanti ad un pubblico anche ristretto come i meeting aziendali. La sensazione è di mancanza di aria, blocco del diaframma, stato di leggero panico che si risolve dopo i primi 30 secondi che sono però molto spiacevoli oltre che evidenti per le persone che ho di fronte. Su suggerimento del medico di base ho in questi anni tamponato prendendo 5-10 gocce di xanax nei periodi in cui gli impegni di lavoro mi espongono maggiormente. Da due anni sono in psicoterapia (da uno psicoterapeuta consigliatomi da persone fidate che lavorano nell’ambito) dopo un primo tentativo con uno psichiatra durato solo pochi mesi. Il mio psicoterapeuta ascolta molto, parla poco ma quando parla centra sempre il punto. In estrema sintesi lo psicoterapeuta che mi segue 2 volte alla settimana e che stimo, ha finora lavorato molto sul tema delle emozioni facendo emergere mie caratteristiche come l’eccessivo controllo della comunicazione delle emozioni stesse, anaffettività che trae origini anche dalla mia infanzia e dai miei genitori, paura di essere dominato o perdere il controllo (ho semplificato e banalizzato moltissimo per questioni di spazio). Negli ultimi mesi, oltre a un’esacerbazione di questi episodi di ansia/panico, sta emergendo uno sconforto e un’angoscia di fondo che accompagna i miei pensieri e le mie giornate; il pensiero di convivere con queste forme di ansia ha abbassato in generale il mio umore, ha appiattito i miei desideri e non riesco più ad essere neanche minimamente felice per le cose oggettivamente belle della mia vita (in primis i figli). Questa forma d'ansia è un forte limite al mio star bene e alla mia professione. Il tutto accompagnato da un evidente calo del desiderio sessuale. Ne sto già parlando con il mio psicoterapeuta, l’uso dello xanax è sporadico e comunque non risolve nulla, ma ho l’impressione che sto affrontando il problema nel modo sbagliato. Mi sto convincendo che con una piccola dose di serotonina in più la mia vita potrebbe essere molto migliore (vi sono tutti i presupposti: salute, famiglia, etc.) e il percorso di analisi che sto facendo sia troppo lungo e forse inutile nonostante ritenga il mio psicoterapeuta molto valido. E’ a vostro parere consigliabile insistere con il mio psicoterapeuta (magari concordando con lui l’utilizzo di farmaci previo consulto di psichiatra)? Grazie cordiali saluti
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Gentile utente,
<<<Soffro da circa 5 anni di una forma di ansia che si esplicita quando devo esporre davanti ad un pubblico anche ristretto come i meeting aziendali.>>>
Cosa teme in particolare? Per caso ha timore/paura del giudizio altrui e/o di critiche che potrebbe ricevere esponendosi?
Che tipo di terapia segue?
Riceve precise istruzioni o tecniche da utilizzare per gestire l’ansia o lei parla e il collega interpreta ciò che dice?
<<<Soffro da circa 5 anni di una forma di ansia che si esplicita quando devo esporre davanti ad un pubblico anche ristretto come i meeting aziendali.>>>
Cosa teme in particolare? Per caso ha timore/paura del giudizio altrui e/o di critiche che potrebbe ricevere esponendosi?
Che tipo di terapia segue?
Riceve precise istruzioni o tecniche da utilizzare per gestire l’ansia o lei parla e il collega interpreta ciò che dice?
Dr. Francesco Emanuele Pizzoleo. Psicoterapia cognitiva e cognitivo comportamentale.
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Utente
Buongiorno grazie della risposta. Sicuramente c'è anche il timore del giudizio altrui ma non credo sia l'unico fattore. Il terapeuta che mi segue mi fa parlare molto, non inizia la seduta con una domanda ma in silenzio, interviene poco non dandomi quasi mai consigli ma percepisco che comprende a fondo i miei problemi ogniqualvolta interviene. Ribadisco il fatto che stimo molto il professionista che mi segue (mi è stato consigliato da persone che lavorano nell'ambito a livello universitario in una tra le migliori università in Italia). Non ho mai cercato di affrontare terapie brevi perchè non credo possano risolvere un problema che ha radici profonde (almeno credo). Però è chiaro che dopo due anni sto anche sviluppando un calo generale dell'umore e il problema dell'ansia rimane quindi c'è una parte di me che comincia a credere che l'unica soluzione possano essere i farmaci (magari accompagnati da psicoterapia).
Grazie cordiali saluti
Grazie cordiali saluti
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Credo sia il momento di fare il punto della situazione con il Collega che la segue riferendo a quest’ultimo proprio quanto scrive: <<ho l’impressione che sto affrontando il problema nel modo sbagliato>>. Anche questo fa parte della terapia. Se scrive qui su Medicitalia e non ha riferito lo scetticismo al Collega verosimilmente vuol dire che, seppur da lei stimato, ci sono falle nella relazione terapeutica tra di voi. E di queste ipotetiche falle occorrerebbe parlarne.
Oltretutto:
- le manca una diagnosi. Senza valutazione iniziale non si può curare. Cosa curo se non conosco su cosa devo lavorare?
- <<Non ho mai cercato di affrontare terapie brevi perchè non credo possano risolvere un problema che ha radici profonde (almeno credo)>>. Riporto un breve scritto di Paul Watzlawick del prestigioso Mental Research Institute californiano.
Lui afferma:
(..)Per quanto le correnti classiche della psicoterapia differiscano e siano spesso tra loro in contraddizione, esse hanno una ipotesi in comune: che i problemi si possano risolvere soltanto scoprendone le cause. Questo dogma è fondato sulla credenza in una causalità lineare e unidirezionale, che scorre dal passato al presente, e che a sua volta genera l’apparentemente ovvia necessità di raggiungere un insight sulle cause prima che possa avvenire un cambiamento.
Permettetemi di fare un’osservazione per certi versi eretica: né nella mia vita personale (a dispetto di tre anni e mezzo di analisi in formazione) né nella mia successiva attività di analista junghiano, né nelle vite dei miei pazienti mi sono mai imbattuto in questo magico effetto dell’insight"( )
Quindi: bisognerebbe sensibilizzare le persone sofferenti ad affidarsi a terapie mirate che si avvalgano di: diagnosi, disamina e comprensione condivisa del problema, definizione di strategie e tecniche da usare per raggiungere lo scopo che insieme (paziente e terapeuta) ci si prefigge, valutare ogni tot sedute il livello di efficacia del trattamento e di benessere del paziente, definire dei tempi curativi. Terapie insomma che non stanno tanto a pensare ai <<perché si sta male>> ma a <<come fare per stare meglio>>.
<<Però è chiaro che dopo due anni sto anche sviluppando un calo generale dell'umore e il problema dell'ansia rimane quindi c'è una parte di me che comincia a credere che l'unica soluzione possano essere i farmaci (magari accompagnati da psicoterapia).>>. Si è possibile che non risolvendo l’ansia, il passo successivo sia una tendenza al calo del tono dell’umore. Anche di questo ne parlerei con il Collega, anche perché da qui non possiamo comprendere il livello di gravità dei suoi sintomi e quindi valutare la possibilità di inviarla a consulenza medico psichiatrica e/o impostare un trattamento psicologico mirato a ridurre la deflessione umorale. Questo va valutato dal collega.
Deve parlare di tutto apertamente con il Collega esattamente come si farebbe con un medico che da anni mi da lo stesso farmaco per curare un dolore e questo farmaco non fa effetto. Ok?
L’etica dello Psicologo Psicoterapeuta vuole che chiunque di noi si renda consapevole che con quel paziente non sta ottenendo risultati, debba considerare anche la possibilità di:
- rivisitazione del caso clinico magari in supervisione presso collega più esperto.
- invio ad altro collega
- consulenza specialistica psichiatrica.
E comunque, alla fine di tutto, credo veramente che lei dovrebbe fare il punto della situazione con il suo terapeuta circa la sua sofferenza. Da qui poi capire cosa fare.
Cordiali saluti a lei
Oltretutto:
- le manca una diagnosi. Senza valutazione iniziale non si può curare. Cosa curo se non conosco su cosa devo lavorare?
- <<Non ho mai cercato di affrontare terapie brevi perchè non credo possano risolvere un problema che ha radici profonde (almeno credo)>>. Riporto un breve scritto di Paul Watzlawick del prestigioso Mental Research Institute californiano.
Lui afferma:
(..)Per quanto le correnti classiche della psicoterapia differiscano e siano spesso tra loro in contraddizione, esse hanno una ipotesi in comune: che i problemi si possano risolvere soltanto scoprendone le cause. Questo dogma è fondato sulla credenza in una causalità lineare e unidirezionale, che scorre dal passato al presente, e che a sua volta genera l’apparentemente ovvia necessità di raggiungere un insight sulle cause prima che possa avvenire un cambiamento.
Permettetemi di fare un’osservazione per certi versi eretica: né nella mia vita personale (a dispetto di tre anni e mezzo di analisi in formazione) né nella mia successiva attività di analista junghiano, né nelle vite dei miei pazienti mi sono mai imbattuto in questo magico effetto dell’insight"( )
Quindi: bisognerebbe sensibilizzare le persone sofferenti ad affidarsi a terapie mirate che si avvalgano di: diagnosi, disamina e comprensione condivisa del problema, definizione di strategie e tecniche da usare per raggiungere lo scopo che insieme (paziente e terapeuta) ci si prefigge, valutare ogni tot sedute il livello di efficacia del trattamento e di benessere del paziente, definire dei tempi curativi. Terapie insomma che non stanno tanto a pensare ai <<perché si sta male>> ma a <<come fare per stare meglio>>.
<<Però è chiaro che dopo due anni sto anche sviluppando un calo generale dell'umore e il problema dell'ansia rimane quindi c'è una parte di me che comincia a credere che l'unica soluzione possano essere i farmaci (magari accompagnati da psicoterapia).>>. Si è possibile che non risolvendo l’ansia, il passo successivo sia una tendenza al calo del tono dell’umore. Anche di questo ne parlerei con il Collega, anche perché da qui non possiamo comprendere il livello di gravità dei suoi sintomi e quindi valutare la possibilità di inviarla a consulenza medico psichiatrica e/o impostare un trattamento psicologico mirato a ridurre la deflessione umorale. Questo va valutato dal collega.
Deve parlare di tutto apertamente con il Collega esattamente come si farebbe con un medico che da anni mi da lo stesso farmaco per curare un dolore e questo farmaco non fa effetto. Ok?
L’etica dello Psicologo Psicoterapeuta vuole che chiunque di noi si renda consapevole che con quel paziente non sta ottenendo risultati, debba considerare anche la possibilità di:
- rivisitazione del caso clinico magari in supervisione presso collega più esperto.
- invio ad altro collega
- consulenza specialistica psichiatrica.
E comunque, alla fine di tutto, credo veramente che lei dovrebbe fare il punto della situazione con il suo terapeuta circa la sua sofferenza. Da qui poi capire cosa fare.
Cordiali saluti a lei
Questo consulto ha ricevuto 3 risposte e 757 visite dal 30/01/2019.
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Approfondimento su Ansia
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