Dubbio su esperienze di psicoterapia
Gentili dottori,
avrei molto piacere se loro mi aiutassero a sciogliere un dubbio che in qualche modo ha segnato l'esito non tanto positivo delle mie esperienze con la psicoterapia.
Il fattore comune all'abbandono delle sedute era semplicemente uno: le dottoresse che mi hanno seguito mi hanno sconsigliato di iniziare la terapia. Praticamente quando si doveva iniziare la terapia vera e propria, le dottoresse non erano convinte che fossi capace. Pertanto vorrei chiedere loro: perché ci deve essere questa certezza, esplicita, che il paziente debba essere convinto pienamente ad iniziare sennò niente?
La vedo come una sorta di ricatto: "o sei determinato o ti arrangi, io non voglio perdere tempo con te se non sei convinto perché vanifichi la terapia". Sarà anche la mia sensibilità, ma quando mi sono sentito dire per la prima volta, in un periodo di esasperazione: "Lei però deve essere davvero convinto ad iniziare, perché sennò è proprio inutile che ci prendiamo in giro", ho avvertito un senso di svilimento orribile e di freddezza. Stessa cosa con la seconda dottoressa che forse è stata più "precisa": "Sei troppo sensibile e critico. Una terapia non riusciresti decisamente a seguirla. Con tutti i pazienti che abbiamo non possiamo stare sempre a seguire te e le parole da scegliere per non farti adirare".
Quindi è questo che non capisco, se uno è troppo sensibile, insicuro, critico (relativamente, perché mi scusino se magari dubito di qualcosa che non mi convince) allora è destinato a vedersela da solo? Ad essere abbandonato? Perché è così. Io mi sono sentito abbandonato. Quindi se non mi sento tanto convinto, allora meglio lasciare stare? Allora perché chiedo aiuto? A chi lo devo chiedere?
Non è assolutamente una critica all'operato delle colleghe, è semplicemente un dubbio nell'ambito della psicologia che mi piacerebbe chiarire perché mi attanaglia.
Ho notato che questo mio senso critico spazientisce il mio interlocutore. Non credo sia saccenza, se lo è mi perdonino, ma semplicemente io sono sincero e non riesco a fingere. Anche quando mi dicono: "però devi anche essere tu a volerlo". Gentili dottori, io mi odio, non ho proprio fiducia in me. A soli 22 anni sto meditando il suicidio da quasi un mese. Come posso fare leva su di me se sono il primo a buttarmi giù? Allora secondo questa logica, se non mi voglio aiutare, è tutto inutile? Secondo il mio modesto parere, ritengo ci sia una sorta di rigore che alimenta le resistenze in una persona come me, che in una certa maniera cerca di essere accolto e compreso se non addirittura adottato. Va bene che uno si deve aiutare da solo, ma una spinta in più non farebbe male. Invece ho visto i miei casi come un semplice: se non hai niente di grave o clinico puoi anche andare.
Torno a ripetere che avrei molto piacere a discutere con loro di questo mio quesito perché ho intenzione di capire il loro punto di vista, soprattutto comprendere e migliorare. Nel caso volessero chiarimenti e dettagli non esitino a chiedere.
avrei molto piacere se loro mi aiutassero a sciogliere un dubbio che in qualche modo ha segnato l'esito non tanto positivo delle mie esperienze con la psicoterapia.
Il fattore comune all'abbandono delle sedute era semplicemente uno: le dottoresse che mi hanno seguito mi hanno sconsigliato di iniziare la terapia. Praticamente quando si doveva iniziare la terapia vera e propria, le dottoresse non erano convinte che fossi capace. Pertanto vorrei chiedere loro: perché ci deve essere questa certezza, esplicita, che il paziente debba essere convinto pienamente ad iniziare sennò niente?
La vedo come una sorta di ricatto: "o sei determinato o ti arrangi, io non voglio perdere tempo con te se non sei convinto perché vanifichi la terapia". Sarà anche la mia sensibilità, ma quando mi sono sentito dire per la prima volta, in un periodo di esasperazione: "Lei però deve essere davvero convinto ad iniziare, perché sennò è proprio inutile che ci prendiamo in giro", ho avvertito un senso di svilimento orribile e di freddezza. Stessa cosa con la seconda dottoressa che forse è stata più "precisa": "Sei troppo sensibile e critico. Una terapia non riusciresti decisamente a seguirla. Con tutti i pazienti che abbiamo non possiamo stare sempre a seguire te e le parole da scegliere per non farti adirare".
Quindi è questo che non capisco, se uno è troppo sensibile, insicuro, critico (relativamente, perché mi scusino se magari dubito di qualcosa che non mi convince) allora è destinato a vedersela da solo? Ad essere abbandonato? Perché è così. Io mi sono sentito abbandonato. Quindi se non mi sento tanto convinto, allora meglio lasciare stare? Allora perché chiedo aiuto? A chi lo devo chiedere?
Non è assolutamente una critica all'operato delle colleghe, è semplicemente un dubbio nell'ambito della psicologia che mi piacerebbe chiarire perché mi attanaglia.
Ho notato che questo mio senso critico spazientisce il mio interlocutore. Non credo sia saccenza, se lo è mi perdonino, ma semplicemente io sono sincero e non riesco a fingere. Anche quando mi dicono: "però devi anche essere tu a volerlo". Gentili dottori, io mi odio, non ho proprio fiducia in me. A soli 22 anni sto meditando il suicidio da quasi un mese. Come posso fare leva su di me se sono il primo a buttarmi giù? Allora secondo questa logica, se non mi voglio aiutare, è tutto inutile? Secondo il mio modesto parere, ritengo ci sia una sorta di rigore che alimenta le resistenze in una persona come me, che in una certa maniera cerca di essere accolto e compreso se non addirittura adottato. Va bene che uno si deve aiutare da solo, ma una spinta in più non farebbe male. Invece ho visto i miei casi come un semplice: se non hai niente di grave o clinico puoi anche andare.
Torno a ripetere che avrei molto piacere a discutere con loro di questo mio quesito perché ho intenzione di capire il loro punto di vista, soprattutto comprendere e migliorare. Nel caso volessero chiarimenti e dettagli non esitino a chiedere.
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"perché ci deve essere questa certezza, esplicita, che il paziente debba essere convinto pienamente ad iniziare sennò niente?"
Caro Utente,
è effettivamente necessario che una persona sia convinta di voler iniziare una psicoterapia perché questa abbia effetto: la risposta alla sua domanda è che un soggetto che non sia pienamente motivato e collaborativo potrebbe iniziare un percorso mostrando fin da subito enormi resistenze che si tradurrebbero in un suo "infinito" protrarsi nel tempo e in un'efficacia decisamente ridotta rispetto ad altri casi.
Se entrambi i suoi approcci all'ambito terapeutico si sono tradotti in una "battaglia verbale" alimentata dalla sua ipercritica, segno di un'indisponibilità a riconoscere al terapeuta la capacità di aiutarla, è comprensibile che le colleghe le abbiano detto che iniziare un lavoro sarebbe stato inutile.
E' comprensibile soprattutto se lei si è rivolto ad una struttura pubblica, come mi sembra di capire, se le è stato detto questo:
" Con tutti i pazienti che abbiamo non possiamo stare sempre a seguire te e le parole da scegliere per non farti adirare".
L'accenno ai numerosi pazienti da seguire credo sia proprio dovuto a questo e al fatto che, a fronte di poche risorse, un paziente particolarmente polemico appaia come poco motivato alla psicoterapia e quindi non venga preso in carico da questo punto di vista.
Si è effettivamente rivolto ad una struttura pubblica?
Ha ricevuto una diagnosi?
Assume una terapia farmacologica?
Per quale motivo vorrebbe iniziare una psicoterapia?
Caro Utente,
è effettivamente necessario che una persona sia convinta di voler iniziare una psicoterapia perché questa abbia effetto: la risposta alla sua domanda è che un soggetto che non sia pienamente motivato e collaborativo potrebbe iniziare un percorso mostrando fin da subito enormi resistenze che si tradurrebbero in un suo "infinito" protrarsi nel tempo e in un'efficacia decisamente ridotta rispetto ad altri casi.
Se entrambi i suoi approcci all'ambito terapeutico si sono tradotti in una "battaglia verbale" alimentata dalla sua ipercritica, segno di un'indisponibilità a riconoscere al terapeuta la capacità di aiutarla, è comprensibile che le colleghe le abbiano detto che iniziare un lavoro sarebbe stato inutile.
E' comprensibile soprattutto se lei si è rivolto ad una struttura pubblica, come mi sembra di capire, se le è stato detto questo:
" Con tutti i pazienti che abbiamo non possiamo stare sempre a seguire te e le parole da scegliere per non farti adirare".
L'accenno ai numerosi pazienti da seguire credo sia proprio dovuto a questo e al fatto che, a fronte di poche risorse, un paziente particolarmente polemico appaia come poco motivato alla psicoterapia e quindi non venga preso in carico da questo punto di vista.
Si è effettivamente rivolto ad una struttura pubblica?
Ha ricevuto una diagnosi?
Assume una terapia farmacologica?
Per quale motivo vorrebbe iniziare una psicoterapia?
Dr.ssa Flavia Massaro, psicologa a Milano e Mariano C.se
www.serviziodipsicologia.it
[#2]
Utente
Gentile dott.ssa,
sì mi sono rivolto ad una struttura pubblica sia sotto consiglio di un'amica sia per disponibilità economiche irrisorie. Di diagnosi nemmeno l'ombra (cosa che ha contribuito ad intensificare il mio malessere e confusione), nella seconda esperienza mi è stata affiancata una psichiatra che mi ha prescritto un neurolettico atipico che mi stava rovinando. Ora sono in terapia con un altro psichiatra che penso abbia centrato il punto focale del mio disagio: non ho completamente accettato la mia omosessualità e questo influisce nel crearmi disturbi sia nel comportamento sia nei pensieri. Consciamente credo di aver accettato la mia sessualità, ma il dottore ritiene che ci sia qualcosa di irrisolto che va approfondito appunto con la psicoterapia. Tuttavia, da qualche settimana mi ha prescritto un farmaco SSRI soprattutto per i pensieri di svalutazione e suicidiari (con un dosaggio molto basso) e stiamo valutando insieme se iniziare appunto un percorso con un collega psicoterapeuta. Questo per rispondere alla sua ultima domanda.
Vorrei riprendere un attimo il suo pensiero per spiegare meglio il mio punto di vista: "Se entrambi i suoi approcci all'ambito terapeutico si sono tradotti in una "battaglia verbale" alimentata dalla sua ipercritica, segno di un'indisponibilità a riconoscere al terapeuta la capacità di aiutarla, è comprensibile che le colleghe le abbiano detto che iniziare un lavoro sarebbe stato inutile".
Da parte mia credo di aver sempre mantenuto una certa disponibilità e precisione negli incontri perché ci tenevo a tutti i costi a svolgere un buon lavoro. Tanto è che chiedevo spesso se stavo collaborando e cosa avrei potuto fare per condurre un sereno prosieguo. Solo che, riconosco che possa essere una caratteristica assai limitante, io leggo fin troppo tra le righe. Basta un tono di voce diverso, una smorfia, una parola, una frase posta in un determinato modo per mandarmi in confusione e scatenare un'infinità di sensazioni che mi bloccano e destabilizzano. Penso sia questo il problema principale, ma io non vedo rimedio e da solo non sarei mai capace di risolverlo. Però ecco, allora sono destinato per questo mio modo di fare? Cosa dovrei fare?
Le parole possono fare male, credo che loro lo sappiano. Mi sono sentito dire che io non avevo un sogno, che non potevo pensare all'amore perché in quelle condizioni all'altra persona non avrei potuto offrire niente. O meglio, che il solo affetto non bastava perché per quello ci sono già gli animali. Mi sono sentito rimproverato e ahimè giudicato per il mio perfezionismo, il mio (per loro dire) "fare/essere meglio degli altri ad ogni costo", la mia sensibilità. Infine ignorato quando i pensieri di svalutazione e inutilità si ripresentavano periodicamente sempre più forti.
Tengo a precisare che la mia non è assolutamente una sfida, anche perché in questo ambito ho purtroppo constatato che gli equivoci sono abbastanza consueti, già sul fatto che non mi vedano convinto. Non è che io non mi senta convinto perché io non mi fidi dello specialista, anzi. Sono io che non mi fido di me stesso, questo mi limita in tutto e non so come rimediare. Sfortunatamente lascio che i miei timori mi perseguitino e rubino posto alla speranza. Appaio quindi come non collaborativo ed ostruzionista, ma in fondo ho voglia di provare. La paura di fallire mi limita, e l'ho sempre specificato. L'esternazione di questa paura desisteva le colleghe al percorso. Ma cosa posso fare? Mi aiutino in un certo senso. Forse sono arrivato ad un punto critico?
Spero mi capisca in questa riflessione, anche io sono un essere umano come le colleghe, ognuno con i propri pensieri, convinzioni, pregi e difetti.
Ho interpretato la richiesta delle dottoresse come un carico di responsabilità eccessivo, soprattutto nelle condizioni in cui riversavo. Come dire (mi scusi il modo in cui mi esprimo, però mi piace rendere esempi pratici): "Io ti aiuto però vedi di non deludermi, né di farmi arrabbiare. Devi seguire tutto quello che ti dico e non contestare niente sennò rovini tutto". Sarò esagerato, ma non posso arrestare il mio pensiero, che corre a gran velocità.
Poi notavo anche una cosa: "Non puoi dire che non ce la fai", però io sono onesto e ti dico che non ce la faccio. Ed ecco che il loro sorriso e accoglienza si trasformano in una smorfia di fastidio.
Mi sono dilungato parecchio, ma i dettagli per me sono fondamentali anche se non ho riportato tutto quello che avevo in mente. Per concludere, lo psichiatra che mi sta seguendo in questo momento ha sostenuto che avrei necessità di una psicoterapia. Allo stesso tempo vuole verificare l'effetto del farmaco per poi decidere definitamente. Come potrà immaginare, la mia paura del fallimento è sempre lì in agguato e non ho idea di come scacciarla. Fallimento per una serie di cose: rapporto con lo specialista, la mia sensibilità, la mia "ipercritica", la sfiducia verso me stesso...
A tale proposito, come posso agire o almeno: avrò speranza?
La ringrazio per la cortese attenzione, e sarei molto lieto se lei esprimesse la sua opinione a proposito.
sì mi sono rivolto ad una struttura pubblica sia sotto consiglio di un'amica sia per disponibilità economiche irrisorie. Di diagnosi nemmeno l'ombra (cosa che ha contribuito ad intensificare il mio malessere e confusione), nella seconda esperienza mi è stata affiancata una psichiatra che mi ha prescritto un neurolettico atipico che mi stava rovinando. Ora sono in terapia con un altro psichiatra che penso abbia centrato il punto focale del mio disagio: non ho completamente accettato la mia omosessualità e questo influisce nel crearmi disturbi sia nel comportamento sia nei pensieri. Consciamente credo di aver accettato la mia sessualità, ma il dottore ritiene che ci sia qualcosa di irrisolto che va approfondito appunto con la psicoterapia. Tuttavia, da qualche settimana mi ha prescritto un farmaco SSRI soprattutto per i pensieri di svalutazione e suicidiari (con un dosaggio molto basso) e stiamo valutando insieme se iniziare appunto un percorso con un collega psicoterapeuta. Questo per rispondere alla sua ultima domanda.
Vorrei riprendere un attimo il suo pensiero per spiegare meglio il mio punto di vista: "Se entrambi i suoi approcci all'ambito terapeutico si sono tradotti in una "battaglia verbale" alimentata dalla sua ipercritica, segno di un'indisponibilità a riconoscere al terapeuta la capacità di aiutarla, è comprensibile che le colleghe le abbiano detto che iniziare un lavoro sarebbe stato inutile".
Da parte mia credo di aver sempre mantenuto una certa disponibilità e precisione negli incontri perché ci tenevo a tutti i costi a svolgere un buon lavoro. Tanto è che chiedevo spesso se stavo collaborando e cosa avrei potuto fare per condurre un sereno prosieguo. Solo che, riconosco che possa essere una caratteristica assai limitante, io leggo fin troppo tra le righe. Basta un tono di voce diverso, una smorfia, una parola, una frase posta in un determinato modo per mandarmi in confusione e scatenare un'infinità di sensazioni che mi bloccano e destabilizzano. Penso sia questo il problema principale, ma io non vedo rimedio e da solo non sarei mai capace di risolverlo. Però ecco, allora sono destinato per questo mio modo di fare? Cosa dovrei fare?
Le parole possono fare male, credo che loro lo sappiano. Mi sono sentito dire che io non avevo un sogno, che non potevo pensare all'amore perché in quelle condizioni all'altra persona non avrei potuto offrire niente. O meglio, che il solo affetto non bastava perché per quello ci sono già gli animali. Mi sono sentito rimproverato e ahimè giudicato per il mio perfezionismo, il mio (per loro dire) "fare/essere meglio degli altri ad ogni costo", la mia sensibilità. Infine ignorato quando i pensieri di svalutazione e inutilità si ripresentavano periodicamente sempre più forti.
Tengo a precisare che la mia non è assolutamente una sfida, anche perché in questo ambito ho purtroppo constatato che gli equivoci sono abbastanza consueti, già sul fatto che non mi vedano convinto. Non è che io non mi senta convinto perché io non mi fidi dello specialista, anzi. Sono io che non mi fido di me stesso, questo mi limita in tutto e non so come rimediare. Sfortunatamente lascio che i miei timori mi perseguitino e rubino posto alla speranza. Appaio quindi come non collaborativo ed ostruzionista, ma in fondo ho voglia di provare. La paura di fallire mi limita, e l'ho sempre specificato. L'esternazione di questa paura desisteva le colleghe al percorso. Ma cosa posso fare? Mi aiutino in un certo senso. Forse sono arrivato ad un punto critico?
Spero mi capisca in questa riflessione, anche io sono un essere umano come le colleghe, ognuno con i propri pensieri, convinzioni, pregi e difetti.
Ho interpretato la richiesta delle dottoresse come un carico di responsabilità eccessivo, soprattutto nelle condizioni in cui riversavo. Come dire (mi scusi il modo in cui mi esprimo, però mi piace rendere esempi pratici): "Io ti aiuto però vedi di non deludermi, né di farmi arrabbiare. Devi seguire tutto quello che ti dico e non contestare niente sennò rovini tutto". Sarò esagerato, ma non posso arrestare il mio pensiero, che corre a gran velocità.
Poi notavo anche una cosa: "Non puoi dire che non ce la fai", però io sono onesto e ti dico che non ce la faccio. Ed ecco che il loro sorriso e accoglienza si trasformano in una smorfia di fastidio.
Mi sono dilungato parecchio, ma i dettagli per me sono fondamentali anche se non ho riportato tutto quello che avevo in mente. Per concludere, lo psichiatra che mi sta seguendo in questo momento ha sostenuto che avrei necessità di una psicoterapia. Allo stesso tempo vuole verificare l'effetto del farmaco per poi decidere definitamente. Come potrà immaginare, la mia paura del fallimento è sempre lì in agguato e non ho idea di come scacciarla. Fallimento per una serie di cose: rapporto con lo specialista, la mia sensibilità, la mia "ipercritica", la sfiducia verso me stesso...
A tale proposito, come posso agire o almeno: avrò speranza?
La ringrazio per la cortese attenzione, e sarei molto lieto se lei esprimesse la sua opinione a proposito.
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Alla luce della sua particolare sensibilità:
"io leggo fin troppo tra le righe. Basta un tono di voce diverso, una smorfia, una parola, una frase posta in un determinato modo per mandarmi in confusione e scatenare un'infinità di sensazioni che mi bloccano e destabilizzano"
penso che sia stata ipotizzata la presenza di una forma di paranoia, per la quale immagino le abbiano prescritto l'antipsicotico atipico che non ha più assunto perchè le faceva male.
Se ha anche la sensazione che il suo pensiero vada troppo veloce:
"non posso arrestare il mio pensiero, che corre a gran velocità"
è possibile che il suo quadro clinico sia "borderline", nel senso che probabilmente include degli aspetti psicotici che però, a giudizio dello psichiatra che la sta seguendo, non devono essere poi così marcati se le ha prescritto un SSRI e non un farmaco d'altro tipo.
E' possibile che la sua percezione di essere stato trattato come un peso e un caso difficile, al quale si chiede di non dare altri problemi, corrisponda alla realtà, così come che sia frutto (del tutto o in parte) di sue proiezioni di quell'inadeguatezza e sfiducia in sè stesso che riferisce.
In ogni caso ora le si prospetta la possibilità di iniziare una psicoterapia, immagino presso qualcuno che non sia così oberato di lavoro da non prendere in carico casi complessi, e questo è ciò che conta.
Dalle sue parole mi sembra che lei sia molto motivato a farsi aiutare e l'unica cosa che le consiglio è di tener presente che l'ipercritica che le può "sfuggire di mano" è anch'essa un sintomo del malessere che sta vivendo, quale che sia la diagnosi.
Se quindi si renderà conto di tendere ad interpretare eccessivamente ogni dettaglio e di "attaccarsi alle virgole" di ciò che le sarà detto lo faccia immediatamente presente, in modo tale che qualsiasi malinteso sia superato.
"io leggo fin troppo tra le righe. Basta un tono di voce diverso, una smorfia, una parola, una frase posta in un determinato modo per mandarmi in confusione e scatenare un'infinità di sensazioni che mi bloccano e destabilizzano"
penso che sia stata ipotizzata la presenza di una forma di paranoia, per la quale immagino le abbiano prescritto l'antipsicotico atipico che non ha più assunto perchè le faceva male.
Se ha anche la sensazione che il suo pensiero vada troppo veloce:
"non posso arrestare il mio pensiero, che corre a gran velocità"
è possibile che il suo quadro clinico sia "borderline", nel senso che probabilmente include degli aspetti psicotici che però, a giudizio dello psichiatra che la sta seguendo, non devono essere poi così marcati se le ha prescritto un SSRI e non un farmaco d'altro tipo.
E' possibile che la sua percezione di essere stato trattato come un peso e un caso difficile, al quale si chiede di non dare altri problemi, corrisponda alla realtà, così come che sia frutto (del tutto o in parte) di sue proiezioni di quell'inadeguatezza e sfiducia in sè stesso che riferisce.
In ogni caso ora le si prospetta la possibilità di iniziare una psicoterapia, immagino presso qualcuno che non sia così oberato di lavoro da non prendere in carico casi complessi, e questo è ciò che conta.
Dalle sue parole mi sembra che lei sia molto motivato a farsi aiutare e l'unica cosa che le consiglio è di tener presente che l'ipercritica che le può "sfuggire di mano" è anch'essa un sintomo del malessere che sta vivendo, quale che sia la diagnosi.
Se quindi si renderà conto di tendere ad interpretare eccessivamente ogni dettaglio e di "attaccarsi alle virgole" di ciò che le sarà detto lo faccia immediatamente presente, in modo tale che qualsiasi malinteso sia superato.
Questo consulto ha ricevuto 3 risposte e 4.3k visite dal 12/08/2017.
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