Paura di non migliorare mai

Gentili dottori,
da due anni e mezzo seguo un percorso psicoanalitico a cui si unisce una cura farmacologica a base di paroxetina e xanax per l'ansia.
Oltre all'ansia, la mia terapeuta ha diagnosticato una mancanza di autostima, ma lei - a mia esplicita domanda - si è detta ottimista del fatto che il mio livello di autostima possa (con il tempo) salire.
La bassa autostima è sempre stata una mia caratteristica, insieme al pessimismo. Per quanto possa valere la mia auto-valutazione, non ricordo periodi di una certa durata in cui avessi un livello di autostima "sensibilmente più alto del solito".
Non nascondo che uno dei risultati che vorrei conseguire con la psicanalisi è - appunto - una maggiore autostima.
Pur comprendendo che ogni percorso terapeutico "è una storia a sé stante", il mio obiettivo è concretizzabile attraverso il percorso che sto facendo? In altre parole: la psicoanalisi può effettivamente aumentare l'autostima?
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Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
Salve,

la terapia psicoanalitica è un percorso che comprende e utilizza i suoi stati d'animo. Pur non conoscendo nulla della sua situazione, mi sono chiesto se può mostrare la sua paura e forse anche i suoi dubbi alla terapeuta. O se per caso abbia un pudore nel farlo.

Leggendo i consulti precedenti, ho notato che ha parlato di un suo sentirsi bloccato. Ho visto anche che ha un punteggio nel test d'intelligenza al confine con un valore medio-superiore.
Lei si stupisce a tal punto di questo che mette in dubbio il calcolo e il valore del test, come se una parte di sé non ci potesse credere di avere un punteggio così elevato.
Questo può significare, come lei ha pensato, che lei ha molte risorse che non utilizza, forse non riconosce. Qualcosa la blocca.

Mi domando se quando "la mia terapeuta ha diagnosticato una mancanza di autostima, ma lei - a mia esplicita domanda - si è detta ottimista del fatto che il mio livello di autostima possa (con il tempo) salire", lei non abbia sentito la disponibilità della sua terapeuta a comprendere la sua paura di non migliorare, la sua insoddisfazione, forse un suo disappunto, poiché dopo tanti anni il suo malessere continua, non vede un orizzonte possibile e teme un fallimento.
Allora le chiedo: può autorizzarsi a dirglielo, forse è già tema di discussione tra voi oppure no?

Anche l'aspetto dei farmaci non è da sottovalutare, tanto che scrive in un precedente consulto che non era favorevole. Se lei è lì per il suo malessere, può vivere dei dubbi circa le intenzioni della terapeuta di occuparsene insieme a lei, dato che invece la terapeuta mostra di avere bisogno dei farmaci?

Penso che di questi suoi vissuti sia indispensabile parlarne, è questa una via importante con cui lei potrà riconoscersi le sue risorse nel tempo, iniziando cioè a esprimere se stesso apertamente a partire dalla relazione terapeutica.

Un saluto cordiale,
Enrico de Sanctis

Dr. Enrico de Sanctis - Roma
Psicologo e Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico
www.enricodesanctis.it

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Utente
Utente
Gentile dottore,
la ringrazio per la risposta. Risponderò ai suoi dubbi punto per punto. Per brevità, anticipo che la mia terapeuta è informata di tutto quanto esporrò.
1. Ammetto che ci sia un lieve senso di pudore nel mostrare i miei stati d’animo dovuto alla “poca dimestichezza che ho nel mostrare gli stati d’animo”. Sono cresciuto in un contesto famigliare e lavorativo (informatico) in cui gli stati d’animo non sono stati mai presi in considerazione. Solo ora con la terapia sto intraprendendo questo percorso.
2. Il test WAISS è sempre stato un enigma per me, visto che non c’è corrispondenza fra “intelligenza misurata” e “risultati pratici raggiunti”. So che molto di questo gap dipende dalla mia ansia, ma ho sempre l’impressione che non sia l’unico motivo.
3. Per quanto riguarda la disponibilità della terapeuta, è come se la dottoressa mi stesse dicendo: “io riconosco le tue risorse: con il tempo ti aiuterò a riconoscerle a tua volta!”. Devo ammettere che è piuttosto frustrante: è come se la mia terapeuta vedesse le mie risorse, mentre io no!
4. I dubbi sui farmaci sono scomparsi, infatti li assumo con regolarità. L’argomento era stato affrontato circa due settimane prima della visita psichiatrica. Io ero reticente nel prendere appuntamento dal medico che mi aveva indicato la terapeuta ed avevo esposto i miei dubbi relativamente ai farmaci. Sono bastate un paio di sedute e qualche informazione tecnica (es.: effetti collaterali, ecc.) da parte dello psichiatra per darmi maggiore serenità in questo senso
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Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
Le dico quello che penso, riprendendo le sue riflessioni, che sento significative.

1. Relativamente al punto 1, i suoi pensieri sono cruciali e la sensazione di essere bloccato potrebbe essere legata agli aspetti che sottolinea in modo acuto.

2. Comprendo che non le sia chiaro il motivo per cui non trova corrispondenza tra la misurazione e la sua esperienza, ha ragione. Non avendole somministrato il test, non posso aiutarla. È possibile che gli aspetti emotivi che interferiscono nella sua esperienza quotidiana, per qualche ragione potrebbe essere stati meno invalidanti nell'esecuzione del test, in cui è stato meno "bloccato"?

3. Se da una parte, come leggevo nei precedenti consulti, le sembra che le parole della terapeuta abbiano un valore, da un'altra parte vive un significativo senso di "frustrazione". Di questo bisogna tenere conto, è giusto che lei possa esprimere il suo vissuto.

4. Relativamente a quest'ultimo punto, le lascio una mia opinione personale, per avere un confronto. Personalmente, quando ho letto dell'invio allo psichiatra per i farmaci, mi sono chiesto il motivo di questa scelta, che io in genere non faccio. Soprattutto per l'ansia di cui ci parla, nello specifico "respiro affannoso, tremolii, sudorazione".
Quando lei ha parlato, anche negli altri consulti, della sua reticenza ad assumere i farmaci, io mi sono chiesto se questa sua reticenza era sì per i farmaci, ma non solo. Magari c'era in lei un comprensibile rifiuto poiché non ha sentito che la sua terapeuta si fosse assunta la cura del suo stato d'animo e del suo malessere. Per capirci, dentro di sé può essersi sentito in qualche modo respinto, espulso, abbandonato ed essersi chiesto, sotto diverse forme: "Perché di me non si occupa lei?". Questa esperienza può avere generato un senso di sconforto, di fallimento e rabbia in lei, e comunque una serie di vissuti che bisognerebbe approfondire.
Non discuto qui la scelta della terapeuta, per quanto come dicevo io operi in un altro modo. Se sono riuscito a trasmetterle la mia idea, mi chiedo solamente se lei abbia sentito una costellazione emotiva rispetto alla sua terapeuta. Dalle sue parole sembra di no, mentre io mi chiedo se non la stia riconoscendo, poiché non è scontato per lei accedere alle sue emozioni e legittimarle, assieme ai suoi diritti.

Un saluto cordiale,
Enrico de Sanctis
[#4]
Utente
Utente
Gentile dottore,
relativamente ai farmaci (a parte il quasi ovvio timore degli effetti collaterali) c'era effettivamente un'altra questione.
Sinteticamente, posso dire che mi sentivo e mi sento tuttora "un caso grave, a cui non basta la psicoanalisi".
Non tanto un "rifiuto" da parte della terapeuta, quanto - piuttosto - un paziente che necessita di una cura "più pesante".
La mia terapeuta mi ha ripetuto spesso che non è così, e che i farmaci hanno lo scopo di alleviare i sintomi permettendomi di vivere più serenamente mentre si prosegue con la psicoanalisi.
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Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
È una situazione complessa, come lei dice, ricca di sfaccettature.
Oltretutto non conoscendola, le parlo solo in via ipotetica, potendole dare qualche suggestione utile per un confronto che deve poi essere sostenuto e verificato in un'altra sede.

Se lei vive la sensazione di essere un "caso grave", a mio avviso il terapeuta deve occuparsi del suo vissuto, non negarlo o rassicurarla. Tanto più se il suo vissuto è indotto sfortunatamente dal terapeuta stesso.

Minimizzare il suo vissuto significa, infatti, non fermarsi a riflettere sulle dinamiche relazionali in corso nonché sugli effetti dei suggerimenti che il terapeuta sceglie di fare. Mi rende particolarmente sorpreso sia il consiglio farmacologico sia l'inaccessibilità al suo vissuto a seguito di una rassicurazione, che rischia di essere superficiale.

Quindi, leggendo le sue parole, mi chiedo se abbia pensato: "Che cosa ho detto o fatto (di grave o di male?) perché la mia terapeuta ritiene che io debba addirittura prendere dei farmaci?".
Accettare la cura farmacologica significa quindi ritenere di essere un "caso grave", e questo potrebbe causare un effetto paradosso, generare cioè un senso di insicurezza in lei, aggravando il suo stato d'animo.

Pertanto, mi sto chiedendo se tutto questo venga tenuto nella doverosa considerazione, perché altrimenti rischia di diventare controproducente.

Un saluto cordiale,
Enrico de Sanctis
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Dr. Giuseppe Santonocito Psicologo, Psicoterapeuta 16.3k 372
>>> Sinteticamente, posso dire che mi sentivo e mi sento tuttora "un caso grave, a cui non basta la psicoanalisi".
Non tanto un "rifiuto" da parte della terapeuta, quanto - piuttosto - un paziente che necessita di una cura "più pesante".
>>>

Ben ritrovato. Le darò un parere da terapeuta strategico, quindi non a indirizzo psicoanalitico.

La sua intuizione potrebbe aver visto giusto almeno in parte, nel senso che i disturbi d'ansia, parlando di psicoterapia e per essere risolti in tempi accettabili , necessitano cambiamenti dal punto di vista prima di tutto comportamentale, non solo e non tanto da quello della riflessione o del portare pazienza. Intendo dire che se non ci sono complicazioni di altro tipo come ad esempio tratti di personalità problematici e rigidi, oltre al vissuto ansioso, suggerendo il terapeuta al paziente cosa fare o non fare nella maggior parte delle volte si può sbloccare una situazione apparentemente difficile. L'unico neo è che occorre motivazione e disponibilità da parte del paziente a mettere in atto le istruzioni ricevute.

Perciò, come le è stato già suggerito in passato, potrebbe essere tempo di pensare a un cambiamento di direzione, e magari di tipo di terapia. Due anni e mezzo dovrebbero essere più che sufficienti per venire a capo di un disturbo d'ansia, ripeto, in mancanza di altre complicazioni.

Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com

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