Disturbo d'ansia e scarsa autostima. terapia breve strategica?
Buongiorno a tutti.
Chiedo scusa in anticipo per la lunghezza del mio messaggio.
Fin da quando sono molto piccola, soffro di mal di stomaco psicosomatico.
Sono stata in terapia per circa 3 anni una decina di anni fa da una terapeuta ad indirizzo prevalentemente psicoanalitico e ho indagato sulle cause dei miei disturbi e del mio problema.
La terapia si è conclusa di comune accordo, in quanto la terapeuta mi ha detto che riteneva avessi acquisito gli strumenti necessari per "cavarmela da sola".
Diciamo però che ho continuato ad avere frequenti mal di stomaco, anche per situazioni apparentemente non così ansiogene.
Ad oggi, la situazione è peggiorata e sta diventando quasi invalidante: mi rendo conto che evito moltissime situazioni (quasi tutte normalissime, come cene tra amici) e vorrei affrontare un nuovo percorso.
Circa 2 anni fa, in un momento particolarmente difficile e dopo un po' di perplessità se tornare dalla stessa terapeuta o cambiare, ho scelto di tornare dalla stessa per qualche seduta e abbiamo ricominciato a scavare nella mia infanzia. Mi sono resa conto che non riuscivo ad essere sincera con lei: ogni volta le dicevo che stavo meglio, ma non era vero. Fondamentalmente è come se non volessi deluderla. Ne abbiamo parlato e riparlato, ma la situazione non è cambiata.
Ora vorrei davvero cambiare terapeuta e mi domando se la terapia breve strategica possa essere adatta al mio caso. So quali sono le cause infantili dei miei disagi, so che ho scarsa autostima, ecc. , ma vorrei un aiuto per trovare principalmente una soluzione: vorrei semplicemente che le cose che per tutti sono "normali", come una cena a casa, lo siano anche per me.
Grazie.
Saluti.
Chiedo scusa in anticipo per la lunghezza del mio messaggio.
Fin da quando sono molto piccola, soffro di mal di stomaco psicosomatico.
Sono stata in terapia per circa 3 anni una decina di anni fa da una terapeuta ad indirizzo prevalentemente psicoanalitico e ho indagato sulle cause dei miei disturbi e del mio problema.
La terapia si è conclusa di comune accordo, in quanto la terapeuta mi ha detto che riteneva avessi acquisito gli strumenti necessari per "cavarmela da sola".
Diciamo però che ho continuato ad avere frequenti mal di stomaco, anche per situazioni apparentemente non così ansiogene.
Ad oggi, la situazione è peggiorata e sta diventando quasi invalidante: mi rendo conto che evito moltissime situazioni (quasi tutte normalissime, come cene tra amici) e vorrei affrontare un nuovo percorso.
Circa 2 anni fa, in un momento particolarmente difficile e dopo un po' di perplessità se tornare dalla stessa terapeuta o cambiare, ho scelto di tornare dalla stessa per qualche seduta e abbiamo ricominciato a scavare nella mia infanzia. Mi sono resa conto che non riuscivo ad essere sincera con lei: ogni volta le dicevo che stavo meglio, ma non era vero. Fondamentalmente è come se non volessi deluderla. Ne abbiamo parlato e riparlato, ma la situazione non è cambiata.
Ora vorrei davvero cambiare terapeuta e mi domando se la terapia breve strategica possa essere adatta al mio caso. So quali sono le cause infantili dei miei disagi, so che ho scarsa autostima, ecc. , ma vorrei un aiuto per trovare principalmente una soluzione: vorrei semplicemente che le cose che per tutti sono "normali", come una cena a casa, lo siano anche per me.
Grazie.
Saluti.
[#1]
Buongiorno a lei, innanzitutto ci tengo a dirle che non deve scusarsi per la lunghezza del suo messaggio. I suoi vissuti emotivi sono preziosi e trovo più che giusto che lei possa esprimersi senza doversi costringere in una sintesi.
Leggendo il suo racconto mi sono chiesto se il mal di stomaco, l'evitare situazioni comuni come le cene con gli amici, assieme alla paura di deludere, possano essere vissuti ed esperienze collocabili su uno stesso filo.
Accanto a questa mia impressione, che evoca in me numerose domande sulla sua vita e che andrebbe approfondita, ho trovato poi cruciale quando, nella relazione con la sua terapeuta, ha detto che si è "resa conto che non riuscivo ad essere sincera con lei: ogni volta le dicevo che stavo meglio, ma non era vero. Fondamentalmente è come se non volessi deluderla".
Dico che questo è cruciale perché, dal punto di vista psicoanalitico, sono fondamentali i vissuti che prova nella relazione con il terapeuta. È a partire da essi che si può pensare a un cambiamento di sé. Come lei dice, conoscere razionalmente le cause o sapere di non avere autostima, invece, non basta.
Mi spiace che non senta positivamente la sua terapia. Immagino provi al momento delusione, forse anche rabbia, come se sentisse che tutto il suo impegno non sia stato ben riposto né ripagato?
L'idea di cambiare è da valutare, ma relativamente alle altre terapie non entro nel merito, lasciando la parola ai colleghi competenti.
Ci tenevo soltanto a chiederle, se ha voglia di parlarne, una cosa che non sono sicuro di avere capito. Quando cioè dice, a proposito della delusione, che avete "parlato e riparlato", intende dire che avete affrontato il suo stato d'animo ed esplicitato il fatto che "le diceva di stare meglio, ma non era vero"? E se questo è avvenuto, cosa ha significato per lei aprirsi con lei a questo discorso?
Un saluto,
Enrico de Sanctis
Leggendo il suo racconto mi sono chiesto se il mal di stomaco, l'evitare situazioni comuni come le cene con gli amici, assieme alla paura di deludere, possano essere vissuti ed esperienze collocabili su uno stesso filo.
Accanto a questa mia impressione, che evoca in me numerose domande sulla sua vita e che andrebbe approfondita, ho trovato poi cruciale quando, nella relazione con la sua terapeuta, ha detto che si è "resa conto che non riuscivo ad essere sincera con lei: ogni volta le dicevo che stavo meglio, ma non era vero. Fondamentalmente è come se non volessi deluderla".
Dico che questo è cruciale perché, dal punto di vista psicoanalitico, sono fondamentali i vissuti che prova nella relazione con il terapeuta. È a partire da essi che si può pensare a un cambiamento di sé. Come lei dice, conoscere razionalmente le cause o sapere di non avere autostima, invece, non basta.
Mi spiace che non senta positivamente la sua terapia. Immagino provi al momento delusione, forse anche rabbia, come se sentisse che tutto il suo impegno non sia stato ben riposto né ripagato?
L'idea di cambiare è da valutare, ma relativamente alle altre terapie non entro nel merito, lasciando la parola ai colleghi competenti.
Ci tenevo soltanto a chiederle, se ha voglia di parlarne, una cosa che non sono sicuro di avere capito. Quando cioè dice, a proposito della delusione, che avete "parlato e riparlato", intende dire che avete affrontato il suo stato d'animo ed esplicitato il fatto che "le diceva di stare meglio, ma non era vero"? E se questo è avvenuto, cosa ha significato per lei aprirsi con lei a questo discorso?
Un saluto,
Enrico de Sanctis
Dr. Enrico de Sanctis - Roma
Psicologo e Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico
www.enricodesanctis.it
[#2]
Ex utente
Gent.mo Dr De Sanctis,
Innanzi tutto grazie davvero per la risposta comprensiva.
Le rispondo con ordine.
Sicuramente tutto quello di cui ho parlato nel messaggio ha un unico filo conduttore, una serie di circostanze ampiamente analizzate nel mio percorso terapeutico precedente e di cui ora sono consapevole.
E' vero che mi sento in parte delusa del tempo e delle grandi energie impiegate. Forse è proprio per questo che mi interessa una terapia breve strategica (sperando che breve e strategica poi lo sia davvero!). Tuttavia, non voglio assolutamente dire che non sia servita la terapia che ho fatto, anzi. La considero però un'esperienza conclusa e sento al momento il bisogno di parlare con una persona diversa e, perché no, anche di provare un nuovo approccio.
Ha capito bene: ho parlato con la terapeuta del fatto che non la volessi deludere. Per me è stato difficilissimo, ovviamente (e con mal di stomaco associato). Razionalmente comprendevo (e comprendo) benissimo che il lavoro del terapeuta in quel momento era aiutarmi, che dire che stavo meglio andava solo a mio discapito, ma è come se avessi voluto in qualche modo proteggere la mia terapeuta, come se non volessi che lei sentisse di avere in qualche modo fallito con me. Questa mia paura di ferire le persone la ritrovo spesso nella mia quotidianità ed è un meccanismo autodistruttivo attraverso il quale per non ferire gli altri, ferisco me stessa.
La terapeuta era al corrente di questo mio modo di relazionarmi con gli altri e ne abbiamo parlato molto. Tuttavia ero in un circolo vizioso in cui se stavo meglio e lo dicevo, pensavo che lei potesse pensare che non fosse vero...inoltre, nonostante ne abbiamo ampiamente discusso, ho comunque continuato (seppure meno) a non volerla ferire. Quindi, poiché mi ero rivolta di nuovo a lei per una situazione specifica che non riuscivo ad affrontare da sola, una volta superata quella difficoltà le sedute si sono diradate e poi interrotte di comune accordo: secondo la terapeuta, continuavo ad avere gli strumenti necessari per farcela da sola.
Innanzi tutto grazie davvero per la risposta comprensiva.
Le rispondo con ordine.
Sicuramente tutto quello di cui ho parlato nel messaggio ha un unico filo conduttore, una serie di circostanze ampiamente analizzate nel mio percorso terapeutico precedente e di cui ora sono consapevole.
E' vero che mi sento in parte delusa del tempo e delle grandi energie impiegate. Forse è proprio per questo che mi interessa una terapia breve strategica (sperando che breve e strategica poi lo sia davvero!). Tuttavia, non voglio assolutamente dire che non sia servita la terapia che ho fatto, anzi. La considero però un'esperienza conclusa e sento al momento il bisogno di parlare con una persona diversa e, perché no, anche di provare un nuovo approccio.
Ha capito bene: ho parlato con la terapeuta del fatto che non la volessi deludere. Per me è stato difficilissimo, ovviamente (e con mal di stomaco associato). Razionalmente comprendevo (e comprendo) benissimo che il lavoro del terapeuta in quel momento era aiutarmi, che dire che stavo meglio andava solo a mio discapito, ma è come se avessi voluto in qualche modo proteggere la mia terapeuta, come se non volessi che lei sentisse di avere in qualche modo fallito con me. Questa mia paura di ferire le persone la ritrovo spesso nella mia quotidianità ed è un meccanismo autodistruttivo attraverso il quale per non ferire gli altri, ferisco me stessa.
La terapeuta era al corrente di questo mio modo di relazionarmi con gli altri e ne abbiamo parlato molto. Tuttavia ero in un circolo vizioso in cui se stavo meglio e lo dicevo, pensavo che lei potesse pensare che non fosse vero...inoltre, nonostante ne abbiamo ampiamente discusso, ho comunque continuato (seppure meno) a non volerla ferire. Quindi, poiché mi ero rivolta di nuovo a lei per una situazione specifica che non riuscivo ad affrontare da sola, una volta superata quella difficoltà le sedute si sono diradate e poi interrotte di comune accordo: secondo la terapeuta, continuavo ad avere gli strumenti necessari per farcela da sola.
[#3]
Ci sono molti stimoli che evocano in me numerose domande leggendo le sue parole.
La difficoltà di parlare con la terapeuta del fatto che non la volesse deludere mi è sembrato un momento davvero prezioso, perché è legato al vivo dell'esperienza relazionale.
Non c'è stata soltanto la spiegazione razionale dei motivi per cui lei ha un'attitudine protettiva verso gli altri, spiegazione che sarebbe volta a cambiare questa attitudine. C'è stato un vissuto in presa diretta, che rappresenta l'inizio di un cambiamento: nel momento in cui lo dice sperimenta la difficoltà in quanto potenzialmente sta deludendo la terapeuta, non la sta più proteggendo. In più apre un discorso che in modo emblematico lei associa al mal di stomaco.
Non so se sono riuscito a comunicarle il mio pensiero, ma tutto questo merita una straordinaria attenzione.
Mi chiedo se c'è stata l'occasione di sfruttare l'enorme potenziale trasformativo di questa situazione, in cui lei esprime se stessa. Lei dice di averne parlato a lungo, quindi immagino ne abbiate avuto l'opportunità. Inoltre il fatto sì di non volerla ancora ferire ma comunque in misura minore, sembra rappresentarci il fatto che il processo trasformativo sia andato avanti.
In questa sede è difficile poterle dare indicazioni in modo approfondito, certo mi sono chiesto se non sarebbe stato interessante proseguire su questa linea, pur con le inevitabili difficoltà, anzi proprio in virtù di quelle. D'altronde il processo trasformativo richiede tempo.
A questo proposito, mi sono interrogato sull'interruzione.
Mi sento di dire che è importante che sia lei, alla fine della terapia, a volercela fare da sola, non tanto la terapeuta. Mi ha colpito il fatto che lo abbia sottolineato due volte. Questo è un punto che mi ha fatto riflettere particolarmente.
Non so, anche considerando il suo impegno di affrontare con coraggio le sue difficoltà, mi sono chiesto se l'interruzione non sia stata magari precoce e nel suo vissuto avesse in qualche modo sentito sottovalutato o non accolto il valore della sua espressività.
Un caro saluto,
Enrico de Sanctis
La difficoltà di parlare con la terapeuta del fatto che non la volesse deludere mi è sembrato un momento davvero prezioso, perché è legato al vivo dell'esperienza relazionale.
Non c'è stata soltanto la spiegazione razionale dei motivi per cui lei ha un'attitudine protettiva verso gli altri, spiegazione che sarebbe volta a cambiare questa attitudine. C'è stato un vissuto in presa diretta, che rappresenta l'inizio di un cambiamento: nel momento in cui lo dice sperimenta la difficoltà in quanto potenzialmente sta deludendo la terapeuta, non la sta più proteggendo. In più apre un discorso che in modo emblematico lei associa al mal di stomaco.
Non so se sono riuscito a comunicarle il mio pensiero, ma tutto questo merita una straordinaria attenzione.
Mi chiedo se c'è stata l'occasione di sfruttare l'enorme potenziale trasformativo di questa situazione, in cui lei esprime se stessa. Lei dice di averne parlato a lungo, quindi immagino ne abbiate avuto l'opportunità. Inoltre il fatto sì di non volerla ancora ferire ma comunque in misura minore, sembra rappresentarci il fatto che il processo trasformativo sia andato avanti.
In questa sede è difficile poterle dare indicazioni in modo approfondito, certo mi sono chiesto se non sarebbe stato interessante proseguire su questa linea, pur con le inevitabili difficoltà, anzi proprio in virtù di quelle. D'altronde il processo trasformativo richiede tempo.
A questo proposito, mi sono interrogato sull'interruzione.
Mi sento di dire che è importante che sia lei, alla fine della terapia, a volercela fare da sola, non tanto la terapeuta. Mi ha colpito il fatto che lo abbia sottolineato due volte. Questo è un punto che mi ha fatto riflettere particolarmente.
Non so, anche considerando il suo impegno di affrontare con coraggio le sue difficoltà, mi sono chiesto se l'interruzione non sia stata magari precoce e nel suo vissuto avesse in qualche modo sentito sottovalutato o non accolto il valore della sua espressività.
Un caro saluto,
Enrico de Sanctis
Questo consulto ha ricevuto 3 risposte e 3.2k visite dal 06/04/2016.
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