Felicità altrui (e la propria?)
Buongiorno,
sono un ragazzo di 33 anni, buon lavoro, felicemente sposato, un bambino di 5 mesi che adoro.
In questo periodo, complice l'arrivo del bambino nel nucleo familiare, mia moglie sta attraversando un periodo difficile pieno di insicurezze e vecchie insoddisfazioni personali.
Il tutto tornato a galla - e dico tornato perchè sono argomenti che lei ha già trattato in terapia - perchè con tutta probabilità aveva idealizzato la nascita del bambino come "soluzione ad ogni sua insoddisfazione". Ovviamente non è - e non è stato - così e adesso mi trovo a star vicino ad una persona disfattista, depressa e demotivata.
Detto questo, mi sto rendendo conto proprio a causa di questa suo problema che - per quello che mi riguarda - ho sempre desiderato vederla soddisfatta, vederla felice, e ho fatto tutto quello che potevo per renderla tale. Mi sono però accorto che adotto questo comportamento anche con i miei genitori, i miei amici, finanche a lavoro.
Ho questa necessità quasi "fisica" di rendere sereni/contenti gli altri, affinchè poi possa stare bene io. La soddisfazione altrui - specialmente quella che arriva per merito mio - e le loro lodi/ringraziamenti, sono una droga dalla quale sono totalmente dipendente.
Droga che purtroppo nutre la mia felicità.
Al punto in cui mi trovo adesso sto iniziando ad avere degli attacchi di ansia (per ora rari) credo proprio a causa della paura di non soddisfare questa aspettativa altrui. O - peggio ancora - di dare la delusione alle persone che mi sono vicine.
A mero titolo di esempio mi trovo a dover scegliere se comprare assieme a mia moglie, una casa più grande, allontanandomi però dai miei genitori (viviamo nello stesso palazzo). Mia moglie insiste molto perchè, nel suo concetto di vita perfetta, questa sarebbe la ciliegina sulla torta, mentre i miei genitori sarebbero dispiaciuti perchè mi allontanerei da loro. Questo trovarmi a dover per forza "non soddisfare" le aspettative di qualcuno, è una delle cose che mi fa star male.
E soprattutto alla domanda "ma io cosa voglio?", l'unica cosa che mi viene in mente è "stare sereno".
In conclusione, partendo dal presupposto che questo mio modo di comportarmi non mi fa - evidentemente - stare bene - pensate ci possa essere l'opportunità di iniziare a pensare alla mia felicità in maniera autonoma e non come condizione che dipende dall'apprezzamento altrui?
Grazie in anticipo.
sono un ragazzo di 33 anni, buon lavoro, felicemente sposato, un bambino di 5 mesi che adoro.
In questo periodo, complice l'arrivo del bambino nel nucleo familiare, mia moglie sta attraversando un periodo difficile pieno di insicurezze e vecchie insoddisfazioni personali.
Il tutto tornato a galla - e dico tornato perchè sono argomenti che lei ha già trattato in terapia - perchè con tutta probabilità aveva idealizzato la nascita del bambino come "soluzione ad ogni sua insoddisfazione". Ovviamente non è - e non è stato - così e adesso mi trovo a star vicino ad una persona disfattista, depressa e demotivata.
Detto questo, mi sto rendendo conto proprio a causa di questa suo problema che - per quello che mi riguarda - ho sempre desiderato vederla soddisfatta, vederla felice, e ho fatto tutto quello che potevo per renderla tale. Mi sono però accorto che adotto questo comportamento anche con i miei genitori, i miei amici, finanche a lavoro.
Ho questa necessità quasi "fisica" di rendere sereni/contenti gli altri, affinchè poi possa stare bene io. La soddisfazione altrui - specialmente quella che arriva per merito mio - e le loro lodi/ringraziamenti, sono una droga dalla quale sono totalmente dipendente.
Droga che purtroppo nutre la mia felicità.
Al punto in cui mi trovo adesso sto iniziando ad avere degli attacchi di ansia (per ora rari) credo proprio a causa della paura di non soddisfare questa aspettativa altrui. O - peggio ancora - di dare la delusione alle persone che mi sono vicine.
A mero titolo di esempio mi trovo a dover scegliere se comprare assieme a mia moglie, una casa più grande, allontanandomi però dai miei genitori (viviamo nello stesso palazzo). Mia moglie insiste molto perchè, nel suo concetto di vita perfetta, questa sarebbe la ciliegina sulla torta, mentre i miei genitori sarebbero dispiaciuti perchè mi allontanerei da loro. Questo trovarmi a dover per forza "non soddisfare" le aspettative di qualcuno, è una delle cose che mi fa star male.
E soprattutto alla domanda "ma io cosa voglio?", l'unica cosa che mi viene in mente è "stare sereno".
In conclusione, partendo dal presupposto che questo mio modo di comportarmi non mi fa - evidentemente - stare bene - pensate ci possa essere l'opportunità di iniziare a pensare alla mia felicità in maniera autonoma e non come condizione che dipende dall'apprezzamento altrui?
Grazie in anticipo.
[#1]
Psicologo, Psicoterapeuta
Gentile utente, la dinamica che ci descrive è in parte fondata su alcuni bisogni comuni a tutti gli esseri umani: di essere apprezzati, di avere delle relazioni sociali soddisfacenti, di ricevere calore, affetto, amore dai propri consimili etc.
Se questi bisogni vengono soddisfatti in seguito ad alcune nostre scelte (ad esempio, se facciamo qualcosa che per noi è importante e gli altri ci mostrano il loro apprezzamento), questo direi che è un bel "bonus", una sorta di "valore aggiunto" che possiamo apprezzare.
Il problema nasce quando interviene una sorta di "tirannia del DEVO": ovvero, quando il legittimo desiderio di ricevere apprezzamento o di non entrare necessariamente in conflitto con le persone per noi importanti si "sclerotizza", diventa un pò estremista, e da semplice "desiderio" o "preferenza" diventa un "bisogno assoluto". A quel punto, cominciare ad occuparsi solo del benessere degli altri è un attimo.
E questa abitudine può essere sostenuta da tanti fattori:
dal sollievo che proviamo nel non scontentarli
dai piccoli benefici che ne ricaviamo (una moglie o un genitore "accontentato" possono essere più disponibili e meno reattivi, ad esempio)
dall'aver scongiurato il pericolo di "non essere abbastanza", di essere una persona negativa, di poter essere fonte di delusione per gli altri
E, quanto più fertilizziamo queste paure, questi timori, tramite comportamenti accondiscendenti, tanto più sarà difficile per noi prendere decisioni autonome.
Fin qui, tutto bene; se non fosse che, a volte, questa situazione proprio "tutto bene" non è. In quel caso, il nostro disagio può assumere tante forme, tra cui *anche quelle ansiose.
Se da solo ce la fa a mettersi di fronte ad uno specchio, e trovare il giusto equilibrio tra le sue prerogative, bisogni, valori e quelli degli altri, bene; altrimenti, può sempre chiedere aiuto, magari cercando uno psicologo (forse, uno psicoterapeuta) che possa accompagnarla in un percorso di presa di coscienza e modificazione delle abitudini e delle regole rigide che, se interpretate troppo alla lettera, rischiano di stringersi come un cappio intorno alla nostra gola.
Se questi bisogni vengono soddisfatti in seguito ad alcune nostre scelte (ad esempio, se facciamo qualcosa che per noi è importante e gli altri ci mostrano il loro apprezzamento), questo direi che è un bel "bonus", una sorta di "valore aggiunto" che possiamo apprezzare.
Il problema nasce quando interviene una sorta di "tirannia del DEVO": ovvero, quando il legittimo desiderio di ricevere apprezzamento o di non entrare necessariamente in conflitto con le persone per noi importanti si "sclerotizza", diventa un pò estremista, e da semplice "desiderio" o "preferenza" diventa un "bisogno assoluto". A quel punto, cominciare ad occuparsi solo del benessere degli altri è un attimo.
E questa abitudine può essere sostenuta da tanti fattori:
dal sollievo che proviamo nel non scontentarli
dai piccoli benefici che ne ricaviamo (una moglie o un genitore "accontentato" possono essere più disponibili e meno reattivi, ad esempio)
dall'aver scongiurato il pericolo di "non essere abbastanza", di essere una persona negativa, di poter essere fonte di delusione per gli altri
E, quanto più fertilizziamo queste paure, questi timori, tramite comportamenti accondiscendenti, tanto più sarà difficile per noi prendere decisioni autonome.
Fin qui, tutto bene; se non fosse che, a volte, questa situazione proprio "tutto bene" non è. In quel caso, il nostro disagio può assumere tante forme, tra cui *anche quelle ansiose.
Se da solo ce la fa a mettersi di fronte ad uno specchio, e trovare il giusto equilibrio tra le sue prerogative, bisogni, valori e quelli degli altri, bene; altrimenti, può sempre chiedere aiuto, magari cercando uno psicologo (forse, uno psicoterapeuta) che possa accompagnarla in un percorso di presa di coscienza e modificazione delle abitudini e delle regole rigide che, se interpretate troppo alla lettera, rischiano di stringersi come un cappio intorno alla nostra gola.
[#2]
Utente
Grazie dott. Calì,
credo in effetti che il mio problema derivi proprio dal fatto che non riesco più a scindere quello che DEVO fare (o che penso di dover fare), da quello che VOGLIO fare. Peggio ancora, in alcuni momenti non mi curo neanche di quello che voglio fare, mi preoccupo principalmente di accontentare gli altri, di non deluderli.
Le prime volte che mi rendevo conto di questo modo di fare lo etichettavo come altruismo da parte mia. Ora inizio a rendermi conto che è più importante l'idea di dover apparire in un certo modo, per essere trattato in un certo modo.
In un certo senso, con questo atteggiamento, corrompo le persone: le induco a comportarsi con me come desidero io.
E credo mi sia stato bene, anche inconsciamente, finchè questo mio "lavorare per ottenere un atteggiamento da parte degli altri" non sia andato in contrasto con quello che desidero per me stesso.
credo in effetti che il mio problema derivi proprio dal fatto che non riesco più a scindere quello che DEVO fare (o che penso di dover fare), da quello che VOGLIO fare. Peggio ancora, in alcuni momenti non mi curo neanche di quello che voglio fare, mi preoccupo principalmente di accontentare gli altri, di non deluderli.
Le prime volte che mi rendevo conto di questo modo di fare lo etichettavo come altruismo da parte mia. Ora inizio a rendermi conto che è più importante l'idea di dover apparire in un certo modo, per essere trattato in un certo modo.
In un certo senso, con questo atteggiamento, corrompo le persone: le induco a comportarsi con me come desidero io.
E credo mi sia stato bene, anche inconsciamente, finchè questo mio "lavorare per ottenere un atteggiamento da parte degli altri" non sia andato in contrasto con quello che desidero per me stesso.
[#3]
Psicologo, Psicoterapeuta
>>In un certo senso, con questo atteggiamento, corrompo le persone: le induco a comportarsi con me come desidero io
E' una ipotesi interessante: sarebbe come "pagare in anticipo" col suo comportamento ed assicurarsi la reciprocità da parte degli altri...
>>E credo mi sia stato bene, anche inconsciamente, finchè questo mio "lavorare per ottenere un atteggiamento da parte degli altri" non sia andato in contrasto con quello che desidero per me stesso
E' un problema molto comune. Di solito, se adottiamo certe strategie, è perché, almeno in qualche momento della nostra vita, hanno "funzionato", e ci hanno dato qualcosa in più di quanto ci sia costato farlo.
Finché questo equilibrio "tiene", noi continuiamo, magari con qualche leggero disagio; quando invece i costi eguagliano i benefici, o addirittura li superano, lì il nostro disagio aumenta, e cominciamo a notare quanto faticoso sia portare ancora avanti la nostra strategia.
Come vorrebbe che fosse la situazione?
E' una ipotesi interessante: sarebbe come "pagare in anticipo" col suo comportamento ed assicurarsi la reciprocità da parte degli altri...
>>E credo mi sia stato bene, anche inconsciamente, finchè questo mio "lavorare per ottenere un atteggiamento da parte degli altri" non sia andato in contrasto con quello che desidero per me stesso
E' un problema molto comune. Di solito, se adottiamo certe strategie, è perché, almeno in qualche momento della nostra vita, hanno "funzionato", e ci hanno dato qualcosa in più di quanto ci sia costato farlo.
Finché questo equilibrio "tiene", noi continuiamo, magari con qualche leggero disagio; quando invece i costi eguagliano i benefici, o addirittura li superano, lì il nostro disagio aumenta, e cominciamo a notare quanto faticoso sia portare ancora avanti la nostra strategia.
Come vorrebbe che fosse la situazione?
[#4]
Utente
Come vorrei che fosse è quello che mi sto chiedendo.
Vorrei non essere così tanto condizionato da quello che do agli altri. Vorrei non essere condizionato dalla loro felicità. Mi rendo conto che non è più possibile per me, vivere perseguendo la felicità altrui. Perchè finchè questa c'è, a me va bene e sono sereno. Quando le persone intorno a me, sono deluse, depresse, tristi - anche per motivazioni contingenti su cui non posso intervenire - io non sto bene.
Se oggi mi dovesse capitare una cosa che mi rende molto felice, ma tornando a casa vedessi mia moglie triste perchè non le piace il lavoro che fà (ad esempio), per me oggi sarebbe una giornata bruttissima. Da buco nello stomaco per intenderci.
Sono troppo condizionato dai sentimenti delle persone che amo.
Vorrei non essere così tanto condizionato da quello che do agli altri. Vorrei non essere condizionato dalla loro felicità. Mi rendo conto che non è più possibile per me, vivere perseguendo la felicità altrui. Perchè finchè questa c'è, a me va bene e sono sereno. Quando le persone intorno a me, sono deluse, depresse, tristi - anche per motivazioni contingenti su cui non posso intervenire - io non sto bene.
Se oggi mi dovesse capitare una cosa che mi rende molto felice, ma tornando a casa vedessi mia moglie triste perchè non le piace il lavoro che fà (ad esempio), per me oggi sarebbe una giornata bruttissima. Da buco nello stomaco per intenderci.
Sono troppo condizionato dai sentimenti delle persone che amo.
[#5]
Psicologo, Psicoterapeuta
Le rispondo da una prospettiva precisa, che è quella cognitivo-comportamentale.
Secondo questa prospettiva, il modo in cui ci sentiamo è connesso intimamente al modo in cui interpretiamo e "ci raccontiamo" quello che accade intorno e dentro di noi.
Nel corso della nostra storia, ci formiamo un bagaglio di idee, interpretazioni della realtà, regole, norme e divieti, convinzioni profonde e radicate su di noi, sugli altri, su come va la vita; e tutto questo "bagaglio", a sua volta, influenza fortemente il modo in cui interpretiamo ciò che ci accade, in una sorta di "circolo vizioso".
Tra l'altro, per noi esseri umani "confermare quello che già pensiamo" è in genere più immediato ed automatico di "mettere radicalmente in discussione i nostri punti fermi". E questo accade anche se i nostri "punti fermi" riguardano, ad esempio, il "dover soddisfare" gli altri, o il nostro "valore personale" se i nostri cari non sono felici.
Detta così, sembra quasi che non possa cambiar nulla. Ma non è così. A volte facciamo delle esperienze (poche ed estremamente significative, oppure magari meno significative, ma molto numerose) che mettono in crisi i nostri modi abituali di pensare ed agire nel mondo e con gli altri.
Se riusciamo a trovare un'alternativa soddisfacente ai modi di pensare ed agire che non funzionano più bene, allora "cambiamo"; se non ci riusciamo, semplicemente continuiamo ad agire e pensare allo stesso modo, ma soffriamo emotivamente di più.
E forse è quello che sta capitando a lei: i suoi modi "abituali" di rapportarsi agli altri sono in crisi, e lei non ha trovato finora un'alternativa che la aiuti ad uscire da questo stallo.
In genere, è questo che si fa in una psicoterapia, quando qualcuno ci chiede aiuto in direzioni simili a quella che lei prospetta: si cerca insieme una "strada alternativa" quando quella che il nostro "navigatore satellitare" continua a segnalarci è bloccata. E, se questa strada alternativa funziona, chissà, può diventare il nostro percorso abituale, con un pò di pratica...
Secondo questa prospettiva, il modo in cui ci sentiamo è connesso intimamente al modo in cui interpretiamo e "ci raccontiamo" quello che accade intorno e dentro di noi.
Nel corso della nostra storia, ci formiamo un bagaglio di idee, interpretazioni della realtà, regole, norme e divieti, convinzioni profonde e radicate su di noi, sugli altri, su come va la vita; e tutto questo "bagaglio", a sua volta, influenza fortemente il modo in cui interpretiamo ciò che ci accade, in una sorta di "circolo vizioso".
Tra l'altro, per noi esseri umani "confermare quello che già pensiamo" è in genere più immediato ed automatico di "mettere radicalmente in discussione i nostri punti fermi". E questo accade anche se i nostri "punti fermi" riguardano, ad esempio, il "dover soddisfare" gli altri, o il nostro "valore personale" se i nostri cari non sono felici.
Detta così, sembra quasi che non possa cambiar nulla. Ma non è così. A volte facciamo delle esperienze (poche ed estremamente significative, oppure magari meno significative, ma molto numerose) che mettono in crisi i nostri modi abituali di pensare ed agire nel mondo e con gli altri.
Se riusciamo a trovare un'alternativa soddisfacente ai modi di pensare ed agire che non funzionano più bene, allora "cambiamo"; se non ci riusciamo, semplicemente continuiamo ad agire e pensare allo stesso modo, ma soffriamo emotivamente di più.
E forse è quello che sta capitando a lei: i suoi modi "abituali" di rapportarsi agli altri sono in crisi, e lei non ha trovato finora un'alternativa che la aiuti ad uscire da questo stallo.
In genere, è questo che si fa in una psicoterapia, quando qualcuno ci chiede aiuto in direzioni simili a quella che lei prospetta: si cerca insieme una "strada alternativa" quando quella che il nostro "navigatore satellitare" continua a segnalarci è bloccata. E, se questa strada alternativa funziona, chissà, può diventare il nostro percorso abituale, con un pò di pratica...
Questo consulto ha ricevuto 5 risposte e 2.7k visite dal 09/12/2015.
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