Concetto di "morte" ed evoluzione umana

Gentili psicologi, oggi mi sono ritrovato a filosofeggiare (con grande sofferenza e angoscia, in quanto non riuscivo a bloccare questi ragionamenti ossessivi o impormi di calmarmi) circa un argomento su cui vorrei avere un'opinione da parte di chi ha svolto studi inerenti al campo di seguito trattato.
E' difficile da spiegare, anche perche' non conosco i temini adatti, ma ci provero':
mi sembra una caratteristica comune a tutti gli esseri umani di cui ho fatto esperienza (direttamente e non) seguire il principio secondo cui il singolo si deve scavare una nicchia per stare bene, qualche cosa che si possa chiamare "casa", qualcosa che si possa illudere di controllare, qualcosa in cui sentirsi al sicuro, con delle certezze incrollabili (sto parlando a livello generale, ma come esempio si potrebbe portare la fede, la passione politica, avere una dimora fissa o addirittura farsi una tisana confortante). Questo vale in primis per quelli che affermano il contrario: ad esempio per chi si vanta di non avere una casa, perche' passa la sua vita a viaggiare, se si allarga il concetto di "casa" al mondo, agli aerei, al non avere una dimora fissa sembra si tratti della stessa cosa: la "casa" e' il mondo, ma cio' che e' importante e' che comunque e' un riparo in cui trovare conforto (e si tratta di un solo esempio in cui l'apparente contraddizione si risolve nello stesso concetto). A questo proposito mi e' venuto anche in mente il paragone con il grembo materno, per chiarire meglio l'idea.
Poi ho pensato: in questo senso anche la morte, in quanto "grande consolatrice", e' paragonabile a questo concetto.
Allora ho ribaltato il ragionamento: non e' che questa ricerca di "certezza" e' un meccanismo psicologico che serve solo a farci accettare di dover morire? Nel senso: tutto cio' che ci conforta e ci fa stare bene ci prepara alla fine, rendendola forse addirittura appetibile, in quanto essa e' quantomeno assenza di sofferenza. Non so se ho reso l'idea del paragone concettuale.
E' comunque vero che tutti rifuggono la morte, molto spesso anche inventandosi dei feticci religiosi, e che
in realta' la morte e' il dover lasciare tutto, quindi in confronto ad essa non c'e' grembo materno che tenga.
Pero' ho anche pensato: se si dovesse temere davvero al morte, si dovrebbe passare il tempo a pensare su come consolarsi, eluderla o crepando direttamente di angoscia. Sembra che quando non ci si pensa e' perche' si ha altro da fare, e inconsciamente si accetta l'idea; inoltre forse un modo inconscio per accettarla e' appunto viverla come la fine di ogni possibile sofferenza. Poi ho pensato che ogni religione o culto e' basato sulla morte. Penso che il 99.99% della gente in linea generale se la faccia addosso pensando alla morte , e non la accetti, ma sicuramente non sta a pensarci tutto il giorno (cosa che invece se la temesse sul serio dovrebbe fare), in quanto suppongo l'esistenza di un meccanismo biochimico che ci faccia sopportare l'esistenza senza l'angoscia perenne della morte.
Andando avanti: se per esempio un animale ne vedesse un altro crepare, da quel momento sara' angosciato per se stesso? Non credo. E l'uomo? Probabilmente si'. Forse allora e' il concetto di morte ad aver diviso l'uomo dagli animali in quanto a intelligenza. Mi sembra infatti una delle poche distinzioni plausibili che si possano fare tra intelligenza umana e animale. Ne segue che se uno non sapesse di dover morire, perche' dovrebbe pensare a progredire? Sembra che la coscienza della morte faccia parte di un meccanismo evolutivo, e se si elimina
questa coscienza non si ha piu' progresso. Se ad esempio una religione promette la vita eterna si svaluta l'azione umana su questo mondo, per cui non ci sarebbe spinta al miglioramento. Ad esempio se cominci a renderti conto che forzatamente ti leverai dalle palle, allora devi sbatterti secondo i tuoi ideali e le tue possibilita' per fare qualcosa che in qualche modo ti illuda di sopravvivere alla morte, in un certo senso (avere un figlio? Elbarorare la teoria della Relativita'? Fare volontariato?). Certo che se non sai cosa sia la morte tutto questo non regge, e non c'e' incentivo all'azione. Al contempo e' anche vero il seguente ragionamento: se devo crepare, cosa mi sbatto a fare?

Cosa ne pensate? Sono fuori di testa o questi ragionamenti hanno un senso?
[#1]
Dr. Giuseppe Santonocito Psicologo, Psicoterapeuta 16.3k 372
Gentile utente
Non credo che lei sia fuori di testa, ma solo che i suoi ragionamenti, razionalmente basati, abbiano preso una piega un po' forzata. Forse dettata dalla sua domanda di chiusura: "se devo crepare, cosa mi sbatto a fare?".

Se s'interpreta la vita e tutto il resto in funzione di questa domanda, è evidente che niente vale la pena d'essere intrapreso né tantomeno portato in fondo.

Nella sua descrizione ci sono riflessioni molto lucide e, come le dicevo, altre un po' forzate. E ho il dovere di farle notare che la sua ultima domanda, che potrebbe anche essere definita la "domanda ultima", è quella tipica di quando il tono dell'umore scende e ci si trova ai prodromi di uno stato depressivo. E tenga presente che nella depressione è spesso presente anche rabbia.

Ovviamente non posso sapere né ipotizzare se tutto ciò sia vero per lei oppure no. Ma dato che ha scritto a un servizio psicologico non tanto di tipo divulgativo-informativo ma a carattere clinico, ho il dovere di dirglielo.

Da un punto di vista razionale, la "domanda ultima" è perfettamente legittima. E tuttavia l'umanità continua ad alzarsi la mattina, a lavarsi, vestirsi, ad andare a lavorare e a produrre qualcosa.

Come mai?

Perché da un punto di vista evolutivo la razionalità è arrivata tardissimo. Il che significa che nell'uomo, come negli altri animali, è qualcos'altro che spinge avanti e che motiva l'organismo, qualcosa di molto più forte e importante della razionalità pura. E quando questo qualcosa viene a mancare, ecco che la razionalità, prima in secondo piano, prende il sopravvento e cerca di spiegarsi come mai quel qualcosa non c'è più.

Ma è una spiegazione fuorviante, perché quando il qualcosa c'è, la domanda non si pone nemmeno.

Se dovessi azzardare un'ipotesi, sembra come se lei avesse ricevuto una grossa delusione da qualcuno o qualcosa, ma naturalmente posso sbagliarmi.

Se desidera aggiungere altro, è libero di farlo.

Cordiali saluti

Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com

[#2]
Dr. Daniel Bulla Psicologo, Psicoterapeuta 3.6k 187
Gentile Utente,
secondo me il problema qui non è COSA pensa lei, ma QUANTO pensa lei. L'impressione è quella di una mente "super-lucida", forse un po' ossessiva. Sembra anche che il fatto di "pensare" questi pensieri la preoccupi. In realtà dovrebbero essere riflessioni filosofiche (si ricordi che la filosofia è nata proprio per rispondere alla domanda: perchè l'uomo?) vissute piacevolmente

Ma leggendo la sua mail non ho avuto questa impressione. Perchè se lei dubita di essere anormale l'unica soluzione è confrontarsi con una persona "reale" e non virtuale.

Secondo me una consulenza psicologica potrebbe darle molte risposte, sarebbe un peccato non permettere alla sua curiosità di trovare un giusto contesto per potersi esprimere

Ci pensi (ma non troppo)