Vittimismo patologico

Salve dottori,

la mia storia di malessere dura da circa 3 anni. Pian piano con alti e bassi attraverso un percorso psicoterapeutico sto risalendo dal profondo oceano in cui mi ero inabissato. Fondamentalmente soffro di Fobia sociale ma da poco come un'illuminazione ho capito che forse questo è il male minore. Infatti ho capito che non è tanto la paura degli altri che mi blocca nel mio percorso di crescita ma è il mio sentirmi vittima.

La cosa più inquietante è che sentendomi vittima (e molte volte sembro forzarmi ad esserlo) riesco a manipolare le persone e a spingerle nel ruolo di carnefice. Cosa ancora più da pazzi è che quando ciò accade provo piacere. Capisco bene che questo è il mio copione e che lo utilizzo inconsciamente per avere un tornaconto ma non riesco a comprendere come una persona possa provare piacere nell'essere infelice.

Nasco come bimbo timido pessimista, lamentoso e perfezionista ciò nonostante riesco ad ottenere alcuni successi, riesco a crescere come persona fino a 3 anni fa dove sembro essere tornato il piccolo timido e lamentoso di una volta.

Ho cercato di scavare nel mio passato per capire le ragioni che mi hanno portato ad essere quello che sono, ma non ho trovato nessun evento che possa spiegare il mio ruolo di vittima perenne.

Vorrei tanto cominciare a tracciare un cammino prima che sia troppo tardi.

[#1]
Dr.ssa Valeria Randone Psicologo, Sessuologo 17.4k 317

Gentile Utente,
Se è già in terapia perché sente il bisogno di parlare con noi?

Non si fida del suo terapeuta, non si trova bene?

Soltanto proseguendo con il cammino intrapreso potrà modificare gli antichi retaggi comportamentali, dai quali, evidentemente, avrà tratto svariati benefici in passato.

Secondo me scrivendo online si confonde ancor di più sul percorso da fare e sulla lettura del suo mondo interno, intralciando il suo percorso reale di cura.

Per approfondire: Vittima, persecutore e salvatore nel triangolo drammatico

Cordialmente.
Dr.ssa Valeria Randone,perfezionata in sessuologia clinica.
https://www.valeriarandone.it

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Attivo dal 2012 al 2015
Ex utente
In realtà dopo 3 anni di cura il percorso terapeutico si è rallentato e mi trovo nella condizione di non sapere cosa fare. Lasciare per intraprenderne uno nuovo oppure continuare a percorrere la strada intrapresa.
Il mio disagio seppure attenuato rimane un forte limite nella vita: scarsi rapporti sia familiari sia extrafamiliari, nessun lavoro e nessuna motivazione nella ricerca e tutti i sintomi che l'ansia porta con se.
Ma soprattutto manca quella determinazione iniziale che mi portava a pensare di potercela fare.
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Dr.ssa Sabrina Camplone Psicoterapeuta, Psicologo 4.9k 87
"Ho cercato di scavare nel mio passato per capire le ragioni che mi hanno portato ad essere quello che sono ma non ho trovato nessun evento che possa spiegare il mio ruolo di vittima perenne.
vorrei tanto cominciare a tracciare un cammino prima che sia troppo tardi"

Gent.le Utente,
le sue parole rivelano l'adesione ad uno stereotipo ancora molto diffuso nell'immaginario collettivo, secondo il quale c'è sempre un evento del passato in gradi di spiegare il nostro vissuto presente. Purtroppo non è sempre così, tuttavia se questa credenza non viene messa in discussione interferisce con la decodifica e l'interpretazione del "qui ed ora" della nostra esperienza.
Il mio intento è soltanto quello di offrirle uno spunto di riflessione da approfondire con lo psicoterapeuta che la segue e con il quale, forse, sarebbe importante fare il punto della situazione rispetto agli obiettivi concordati all'inizio del percorso terapeutico, per verificare se il processo di cambiamento sta andando nella direzione attesa.

Dr.ssa SABRINA CAMPLONE
Psicologa-Psicoterapeuta Individuale e di Coppia a Pescara
www.psicologaapescara.it

[#4]
Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
Salve, ho letto con interesse il suo consulto e anche i precedenti per avere una panoramica più ampia.
Ci sono molti stimoli nelle sue parole, le riflessioni e i suoi interrogativi sono suggestivi.

Mi sembra ricorrere la domanda in lei legata all'innatismo del suo carattere, come ci racconta anche in questo ultimo consulto, quando parla di sé dicendo che "nasce come bimbo timido pessimista, lamentoso e perfezionista".

Ricordo che in un altro consulto, mi corregga se sbaglio, diceva di avere influenzato l'ambiente in cui è nato. Questa sua riflessione è importante e mi consente di dirle il mio punto di vista, cioè che non è solo il bambino a incontrare una certa madre e un ambiente già costituito, ma è anche una madre e l'ambiente che incontrano quel dato bambino, proprio come lei dice.

Sono cioè vere entrambe le cose, il bambino è influenzato e al contempo influenza l'ambiente, in una circolarità relazionale.
In più ci tengo a ricordare che il cervello è plastico e l'essere umano è creativo. Voglio dire che anche se nasciamo con certe caratteristiche, non è detto che non possiamo svilupparne altre.

La domanda che mi sono posto e che penso sia importante farci è se sente una unidirezionalità più che una bidirezionalità o, preferisco dire, una complessità delle interazioni bambino-ambiente.
Lo sento un punto fondamentale, che suscita in me diversi interrogativi. Sento in particolar modo un senso di mancata possibilità trasformativa nell'innatismo, come se dicesse: "Sono fatto così, questo è il mio destino".
In proposito, mi fa piacere lasciarle una suggestione in questa sede, cioè se ci sono dei vissuti e dei carichi emotivi in lei, che potrebbero rappresentare dei freni alla sua espressività e condizionarla allora come oggi.

Una seconda riflessione che il suo raccontarsi ha suscitato in me è legata al suo percorso terapeutico. Mi sono chiesto se non stia vivendo un senso di forte delusione, scoraggiamento e sfiducia per la sensazione che i trattamenti farmacologici e psicoterapeutici siano improduttivi. Non so se mi sbaglio, ma è come se dicesse: "Ho capito tante cose, ma nulla è cambiato".
Mi sento di dirle che il cambiamento dev'essere emotivo e non razionale, non basta cioè capire, bisogna fare una nuova esperienza di se stesso per aprire quel destino che sente chiuso.
Secondo il mio orientamento teorico, questo deve avvenire in psicoterapia.

Se penso alla sua delusione, mi chiedo anche se è arrabbiato. Se così fosse, potrebbe essere importante questo momento, perché "un bimbo timido" non è capace di arrabbiarsi o, potremmo anche dire, di esprimere la propria rabbia, il proprio dissentire.
In accordo con le colleghe sulla necessità di affrontare questi temi in sede psicoterapeutica, mi chiedo se può esprimersi con tutto il necessario spettro emotivo che una psicoterapia deve sollevare e reggere.

Non so come la sente, non ci conosciamo, prenda senz'altro con il beneficio del dubbio i miei pensieri evocati dalle sue parole. Potrebbe essere questo un momento cruciale in cui lei si arrabbia, ma forse è ancora sulla soglia: è ancora quel bambino timido o no?

Un saluto,
Enrico de Sanctis

Dr. Enrico de Sanctis - Roma
Psicologo e Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico
www.enricodesanctis.it

[#5]
Dr.ssa Magda Muscarà Fregonese Psicoterapeuta, Psicologo 3.8k 149
Tutto questo, mio caro ha a che fare con una dinamica di potere, cioè lei , intelligentemente ha scoperto che mettere in colpa gli altri, dimostrarsi fragile e incapace di procedere, ottiene i cosiddetti vantaggi secondari.. cioè attenzione, comprensione e molto altro.. Qui bisogna cambiare, ne parli col suo terapeuta e rifletta sul fatto che sembrano vantaggi, sono briciole che le impediscono di crescere, cambiare, raggiungere gli obbiettivi veri..
Coraggio, come si vede fra cinque anni ?

MAGDA MUSCARA FREGONESE
Psicologo, Psicoterapeuta psicodinamico per problemi familiari, adolescenza, depressione - magda_fregonese@libero.it

[#6]
Attivo dal 2012 al 2015
Ex utente
grazie a voi tutti, vorrei rispondere però al Dottor De Sanctis

"""La domanda che mi sono posto e che penso sia importante farci è se sente una unidirezionalità più che una bidirezionalità o, preferisco dire, una complessità delle interazioni bambino-ambiente.
Lo sento un punto fondamentale, che suscita in me diversi interrogativi. Sento in particolar modo un senso di mancata possibilità trasformativa nell'innatismo, come se dicesse: "Sono fatto così, questo è il mio destino"."""

Sento molto il peso dell'innatismo, lo vedo sulla mia pelle e lo leggo anche sul modo di comportarsi di persone a me simili. Nelle terapie di gruppo alle quali partecipo ci sono due ragazzi che soffrono dello stesso problema ed è veramente sconcertante sentirli parlare e pensare che benissimo avresti potuto dire le stesse cose. Le cose che ci accomunano sono così tante che diventa difficile credere che sia stato l'ambiente (possibile che abbiano avuto le mie stesse esperienze? le mie stesse figure genitoriali? ecc ecc). Credo che l'ambiente possa influenzarci ma solo quando si trovano condizioni veramente difficili, in condizioni normali penso che il suo ruolo sia trascurabile.


"""Una seconda riflessione che il suo raccontarsi ha suscitato in me è legata al suo percorso terapeutico. Mi sono chiesto se non stia vivendo un senso di forte delusione, scoraggiamento e sfiducia per la sensazione che i trattamenti farmacologici e psicoterapeutici siano improduttivi. Non so se mi sbaglio, ma è come se dicesse: "Ho capito tante cose, ma nulla è cambiato".
Mi sento di dirle che il cambiamento dev'essere emotivo e non razionale, non basta cioè capire, bisogna fare una nuova esperienza di se stesso per aprire quel destino che sente chiuso.
Questo deve avvenire in psicoterapia."""

Ha colto perfettamente il punto. E' proprio così. Sento di aver maturato una grande consapevolezza ed ogni giorno viene arricchita da nuovi spunti di riflessione. Ma dal punto di vista emotivo avverto una maggiore freddezza nei miei confronti. Il mio genitore affettivo interiore praticamente è inesistente e seppure pian piano mi stia liberando dal genitore normativo le cose non migliorano. Prima avendo un forte genitore normativo il mio bambino pur sotto sforzo si impegnava ad andare avanti. Ora è solo in uno stato di abbandono.

Per concludere:
sin dalle prime sedute sono riuscito ad esprimere nel contesto della psicoterapia (singola e di gruppo) il sentimento di rabbia, altre volte è stato castrato. Rabbia rivolta verso me stesso, altre volte verso il terapeuta altre verso i componenti del gruppo.
[#7]
Dr. Giuseppe Santonocito Psicologo, Psicoterapeuta 16.3k 372
>>> sentendomi vittima (e molte volte sembro forzarmi ad esserlo) riesco a manipolare le persone e a spingerle nel ruolo di carnefice
>>>

E infatti è proprio così. In più di un senso, sono le vittime a fare i carnefici, non viceversa.

Il fatto che provi piacere nel ricoprire questo ruolo non è pazzia, è semplicemente il modo in cui funziona il nostro cervello: ci si può abituare a tutto. Anche ai copioni malati. Pensi alle vomitatrici, ad esempio, che provano il massimo del piacere nel riempirsi di cibo e poi rimetterlo, fino a 10 volte al giorno. E infatti anche nel loro caso, guarda un po', spesso troviamo gravi mancanze, quando non addirittura assenza totale, nella vita sociale, affettiva e relazionale. Gli esseri umani vengono al mondo per provare piacere. Quando non ci riescono per le vie canoniche, trovano altri modi, perversi, per riuscirci.

Quanto all'innatismo, le suggerirei di smettere di concentrarcisi sopra, perché altrimenti non farà mai progressi. L'eredità genetica che ognuno ha e si porta dietro è un dato, e in ciascuno di noi determina punti di forza e aree di miglioramento.

Ma una volta stabilito che abbiamo dei geni con cui nasciamo, la domanda più importante è: cosa vogliamo fare? Vogliamo fare come le barche senza timoniere, che vanno dove le portano il vento e la corrente (i geni) oppure vogliamo metterci al timone e tentare di imprimere una qualche direzione al nostro destino? E badi bene, non sono domande retoriche: ognuno ha il diritto di fare ciò che gli pare con la propria vita. Anche soffrire.

Se varie psicoterapie con lei non hanno funzionato, ci possono essere due probabili spiegazioni: o non le sono mai state date istruzioni specifiche e dettagliate su cosa fare e non fare per superare le sue ansie, oppure le sono state date ma lei non è stato sufficientemente motivato o persistente da metterle in atto. Quale delle due è più rispondente al vero?

Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com

[#8]
Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
È difficile poterla aiutare da qui, provo a dirle ciò che penso quando dice: "Il mio genitore affettivo interiore praticamente è inesistente e seppure pian piano mi stia liberando dal genitore normativo le cose non migliorano. Prima avendo un forte genitore normativo il mio bambino pur sotto sforzo si impegnava ad andare avanti. Ora è solo in uno stato di abbandono".
Tenga presente che è un linguaggio diverso dal mio, tuttavia provo a dirle quello che il suo pensiero mi ha fatto venire in mente: se mi libero dal "genitore normativo" possiamo dire che creo vuoti laddove c'erano pieni.

Il bambino che precedentemente trovava senso impegnandosi, ora potrebbe sentirsi smarrito. Paradossalmente era meno solo prima, anche se - ipotizzo - a costo della sua libertà e costretto a pensare forse che l’amore non è gratuito?
È eliminando il genitore normativo, infatti, che potrei dire emergere in lei la mancanza reale del genitore affettivo, se non c'è stato purtroppo. L'emergere del senso di abbandono potrebbe essere coerente in questo passaggio?

Le toccherà fare uno sforzo enorme, cioè quello di prendersi cura di se stesso, di darsi affetto e valore. Forse nel linguaggio della terapia che sta seguendo, potremmo dire diventare genitore affettivo di quel bimbo solo, ma io preferisco dire più semplicemente diventare una persona che fonda la sua autonomia ed esce nel mondo per abitarlo con i suoi progetti, insieme agli altri, potendo essere liberamente se stesso.
Inizialmente non potrà essere che solo purtroppo, ma piano piano costruirà il mondo in cui sentire appartenenza, esprimendosi senza più i timori della timidezza.

Io non so se quando dice: "Dal punto di vista emotivo avverto una maggiore freddezza nei miei confronti", questo ha a che fare con questo momento in cui sente il dolore di una profonda mancanza affettiva, e vorrebbe comprensibilmente e con tutto se stesso quel genitore buono, oppure se c'è dell'altro che può riguardare la sua terapia. Questo non glielo so dire in questa sede e nel merito specifico della sua psicoterapia non posso entrare.

Prima le dicevo che nel mio orientamento non basta spiegare e fare ipotesi sulle origini e sul proprio mondo relazionale. È un punto a cui tengo particolarmente: secondo il mio orientamento la psicoterapia non è una lezione. È invece uno spazio germinativo, in cui è fondamentale che il paziente riesca prima di tutto a esprimersi.
Restano quindi aperte dentro di me le domande circa l'espressione delle sue emozioni, quando parla di "rabbia castrata" e sulla fine che essa fa, quando cioè dice che la rivolge contro di sé. È un tema che mi sembra di particolare rilievo, e andrebbe approfondito con la massima attenzione.

Un caro saluto,
Enrico de Sanctis
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