Senso di colpa nell'essere felice
Salve,
come da titolo ho da sempre, e va mano mano aumentando, un senso di colpa legato all'essere felice. Alla mia seppur giovane età ho fortunatamente un lavoro stabile in cui sono stimato, una casa che a breve sarà tutta mia, nessun problema di salute, vita sociale poca (soprattutto da quando vivo molto lontano dalla mia città natale), un lungo e stanco fidanzamento finalmente alle spalle e una famiglia unita ma purtroppo lontana.
Però purtroppo mi sento sempre in colpa del mio non avere problemi, mi faccio emotivamente carico di problemi altrui senza darlo a vedere e mi chiedo sempre cosa possa fare per aiutare il prossimo in difficoltà, mi adopero in beneficienza ad enti che mi stanno a cuore.
Un piccolo esempio: sono consapevole del fatto che diventando un donatore di midollo osseo potrei in uno sparuto caso aiutare una persona in difficoltà ma la mia paura di rare se non rarissime complicazioni nella pratica mi bloccano portando in me un senso di infelicità pressante come se condannassi a morte il prossimo, come se fossi la causa della sua malattia; mi viene sempre da pensare di essere egoista, il "e se fossi tu al suo posto?". Mi fermo allora un attimo a ragionare e mi dico: perché ti senti in colpa? Se vuoi risolvere tutti i problemi del mondo perché allora non cerchi di trovare il tempo di fare del volontariato? Perché non doni di più a chi è in difficoltà? Perché almeno non ti organizzi e doni almeno il sangue che è anni che ti riprometti di fare almeno quello?
Ogni, e dico ogni volta, che nella mia vita accade qualcosa per cui dovrei essere felice inconsciamente il mio cervello si rifiuta di esserlo cercando un motivo per tornare a essere infelice come un empatia verso chi se la passa peggio di me, come se facesse una ricerca inconscia dei mali altrui per farsene carico. Passatemi il paradosso: ho bisogno di essere infelice per essere felice. So che dovrei fare il grande passo di parlarne con uno psicologo faccia a faccia ma in questo periodo non riesco a trovare né il tempo né la forza di andare dal mio medico e dire "Houston abbiamo un problema". Ultima cosa e non di poco conto che ho notato negli anni è che ogni volta che riesco a rientrare nel posto dove sono nato a fare visita a parenti e amici le preoccupazioni in tal senso prima si attenuano e poi tendono a sparire; sento che il mio cervello viaggia a due velocità: quella normale di quando sono a "casa" inteso come luogo nativo e quella sregolata della mia città d'adozione che, anche se adesso non mi sentirei di abbandonare, mi fa vivere tutte le situazioni con cui mi interfaccio più grandi, di proporzioni esagerate.
Grazie in anticipo del tempo che vorrete dedicarmi.
come da titolo ho da sempre, e va mano mano aumentando, un senso di colpa legato all'essere felice. Alla mia seppur giovane età ho fortunatamente un lavoro stabile in cui sono stimato, una casa che a breve sarà tutta mia, nessun problema di salute, vita sociale poca (soprattutto da quando vivo molto lontano dalla mia città natale), un lungo e stanco fidanzamento finalmente alle spalle e una famiglia unita ma purtroppo lontana.
Però purtroppo mi sento sempre in colpa del mio non avere problemi, mi faccio emotivamente carico di problemi altrui senza darlo a vedere e mi chiedo sempre cosa possa fare per aiutare il prossimo in difficoltà, mi adopero in beneficienza ad enti che mi stanno a cuore.
Un piccolo esempio: sono consapevole del fatto che diventando un donatore di midollo osseo potrei in uno sparuto caso aiutare una persona in difficoltà ma la mia paura di rare se non rarissime complicazioni nella pratica mi bloccano portando in me un senso di infelicità pressante come se condannassi a morte il prossimo, come se fossi la causa della sua malattia; mi viene sempre da pensare di essere egoista, il "e se fossi tu al suo posto?". Mi fermo allora un attimo a ragionare e mi dico: perché ti senti in colpa? Se vuoi risolvere tutti i problemi del mondo perché allora non cerchi di trovare il tempo di fare del volontariato? Perché non doni di più a chi è in difficoltà? Perché almeno non ti organizzi e doni almeno il sangue che è anni che ti riprometti di fare almeno quello?
Ogni, e dico ogni volta, che nella mia vita accade qualcosa per cui dovrei essere felice inconsciamente il mio cervello si rifiuta di esserlo cercando un motivo per tornare a essere infelice come un empatia verso chi se la passa peggio di me, come se facesse una ricerca inconscia dei mali altrui per farsene carico. Passatemi il paradosso: ho bisogno di essere infelice per essere felice. So che dovrei fare il grande passo di parlarne con uno psicologo faccia a faccia ma in questo periodo non riesco a trovare né il tempo né la forza di andare dal mio medico e dire "Houston abbiamo un problema". Ultima cosa e non di poco conto che ho notato negli anni è che ogni volta che riesco a rientrare nel posto dove sono nato a fare visita a parenti e amici le preoccupazioni in tal senso prima si attenuano e poi tendono a sparire; sento che il mio cervello viaggia a due velocità: quella normale di quando sono a "casa" inteso come luogo nativo e quella sregolata della mia città d'adozione che, anche se adesso non mi sentirei di abbandonare, mi fa vivere tutte le situazioni con cui mi interfaccio più grandi, di proporzioni esagerate.
Grazie in anticipo del tempo che vorrete dedicarmi.
[#1]
"Passatemi il paradosso: ho bisogno di essere infelice per essere felice. So che dovrei fare il grande passo di parlarne con uno psicologo faccia a faccia ma in questo periodo non riesco a trovare né il tempo né la forza di andare dal mio medico..."
Gentile Utente,
curiosa la Sua richiesta.
Non tanto per il paradosso di cui parla, quanto per il fatto che Lei stia dicendo di non poter chiedere aiuto ad uno psicologo (no medico) di persona a causa del tempo che scarseggia...
Poi aggiunge che non ha la forza di andare dal medico: che cosa significa?
E se non riesce a recarsi dal medico (o dallo psicologo) di persona, come pensa che potremmo aiutarLa noi da qui?
Gentile Utente,
curiosa la Sua richiesta.
Non tanto per il paradosso di cui parla, quanto per il fatto che Lei stia dicendo di non poter chiedere aiuto ad uno psicologo (no medico) di persona a causa del tempo che scarseggia...
Poi aggiunge che non ha la forza di andare dal medico: che cosa significa?
E se non riesce a recarsi dal medico (o dallo psicologo) di persona, come pensa che potremmo aiutarLa noi da qui?
[#2]
>>in questo periodo non riesco a trovare né il tempo né la forza di andare dal mio medico..<<
infatti lo specialista di riferimento è lo psicologo non il medico. Di solito quando non si trova il tempo per fare una certa cosa significa che non è una priorità e passa quindi in secondo piano rispetto a cose più importanti. Oppure possiamo ipotizzare che questa "mancanza di tempo e di forza" è una forma di resistenza.
>>perché ti senti in colpa? Se vuoi risolvere tutti i problemi del mondo perché allora non cerchi di trovare il tempo di fare del volontariato? Perché non doni di più a chi è in difficoltà? Perché almeno non ti organizzi e doni almeno il sangue che è anni che ti riprometti di fare almeno quello?<<
credo sia un importante riflessione.
Ha provato a fare qualcosa di alternativo rispetto alle cose che per timore non riesce a fare?
Altrimenti più che di "sensi di colpa" bisognerebbe parlare di una forma di "fatuità". Perché vede, i sensi di colpa in genere sono legati ad una mancanza o ad una colpa appunto, invece lei ha intenzione di prodigarsi verso il prossimo e assume quindi una posizione del tutto diversa.
Che ne pensa?
infatti lo specialista di riferimento è lo psicologo non il medico. Di solito quando non si trova il tempo per fare una certa cosa significa che non è una priorità e passa quindi in secondo piano rispetto a cose più importanti. Oppure possiamo ipotizzare che questa "mancanza di tempo e di forza" è una forma di resistenza.
>>perché ti senti in colpa? Se vuoi risolvere tutti i problemi del mondo perché allora non cerchi di trovare il tempo di fare del volontariato? Perché non doni di più a chi è in difficoltà? Perché almeno non ti organizzi e doni almeno il sangue che è anni che ti riprometti di fare almeno quello?<<
credo sia un importante riflessione.
Ha provato a fare qualcosa di alternativo rispetto alle cose che per timore non riesce a fare?
Altrimenti più che di "sensi di colpa" bisognerebbe parlare di una forma di "fatuità". Perché vede, i sensi di colpa in genere sono legati ad una mancanza o ad una colpa appunto, invece lei ha intenzione di prodigarsi verso il prossimo e assume quindi una posizione del tutto diversa.
Che ne pensa?
[#3]
Utente
"E se non riesce a recarsi dal medico (o dallo psicologo) di persona, come pensa che potremmo aiutarLa noi da qui?"
Dottoressa Pileci, ha ragione, il mio "nascondermi" dietro a uno schermo però mi aiuta a dire quello che a parole non mi riesce.
___
Dottor Del Signore:
"Oppure possiamo ipotizzare che questa "mancanza di tempo e di forza" è una forma di resistenza."
E' come che continui a dire a me stesso: hai bisogno di tempo, datti tempo, vedrai che passa, non hai bisogno di aiuto, puoi riuscirci da solo.
"Altrimenti più che di "sensi di colpa" bisognerebbe parlare di una forma di "fatuità" "
Con questa frase mi ha aperto gli occhi. E' come che il volere o il fare del bene agli altri mi riservi una specie di immunità per il futuro, mi faccia accumulare, mi passi il termine, karma positivo. Ed è come che per aumentare questa "immunità" mi debba spingere oltre, debba fare qualcosa di fisico che mi possa procurare del dolore di cui ho timore estremo sin da bambino (ecco appunto una donazione di midollo che può essere dolorosa e non esente, seppur in rarissimi casi, da conseguenze), come un pagare, con un mio piccolo sacrificio, colpe di cui mi macchierò in futuro anche se puntualmente di queste colpe non mi macchio.
Dopo queste ultime dieci righe mi sento sollevato e anche egoista perché mi rendo conto che forse di quello che succede agli altri non mi importa nulla, mi importa solo del mio futuro e il mio far bene al prossimo è solo egoismo.
Dottoressa Pileci, ha ragione, il mio "nascondermi" dietro a uno schermo però mi aiuta a dire quello che a parole non mi riesce.
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Dottor Del Signore:
"Oppure possiamo ipotizzare che questa "mancanza di tempo e di forza" è una forma di resistenza."
E' come che continui a dire a me stesso: hai bisogno di tempo, datti tempo, vedrai che passa, non hai bisogno di aiuto, puoi riuscirci da solo.
"Altrimenti più che di "sensi di colpa" bisognerebbe parlare di una forma di "fatuità" "
Con questa frase mi ha aperto gli occhi. E' come che il volere o il fare del bene agli altri mi riservi una specie di immunità per il futuro, mi faccia accumulare, mi passi il termine, karma positivo. Ed è come che per aumentare questa "immunità" mi debba spingere oltre, debba fare qualcosa di fisico che mi possa procurare del dolore di cui ho timore estremo sin da bambino (ecco appunto una donazione di midollo che può essere dolorosa e non esente, seppur in rarissimi casi, da conseguenze), come un pagare, con un mio piccolo sacrificio, colpe di cui mi macchierò in futuro anche se puntualmente di queste colpe non mi macchio.
Dopo queste ultime dieci righe mi sento sollevato e anche egoista perché mi rendo conto che forse di quello che succede agli altri non mi importa nulla, mi importa solo del mio futuro e il mio far bene al prossimo è solo egoismo.
[#4]
Lei descrive il "tipico pensiero" di una persona ansiosa che tende a controllare la sua ansia in meniera ossessiva.
Le sue credenze sono quasi "antropologiche". E' un po' come fare un dono agli Dei per tenerli buoni, per contenere la loro ira.
Le sue credenze sono quasi "antropologiche". E' un po' come fare un dono agli Dei per tenerli buoni, per contenere la loro ira.
[#5]
Gentile Utente,
premesso che (come ha già intuito lei stesso) è impossibile in questa sede affrontare la sua situazione, la quale meriterebbe di essere approfondita di persona con un collega, mi colpisce il fatto che quando è nella sua città natia queste preoccupazioni non si presentano. Mi chiede quindi cosa cambia dentro di lei nelle due situazioni, con quali vissuti affronta il suo vivere in un'altra città. Ad ogni modo per poter entrare nel merito di queste sue preoccupazioni, sarebbe necessario indagarne l'insorgenza, lo sviluppo, la modalità di presentazione e tanti altri aspetti.
Cordiali saluti,
premesso che (come ha già intuito lei stesso) è impossibile in questa sede affrontare la sua situazione, la quale meriterebbe di essere approfondita di persona con un collega, mi colpisce il fatto che quando è nella sua città natia queste preoccupazioni non si presentano. Mi chiede quindi cosa cambia dentro di lei nelle due situazioni, con quali vissuti affronta il suo vivere in un'altra città. Ad ogni modo per poter entrare nel merito di queste sue preoccupazioni, sarebbe necessario indagarne l'insorgenza, lo sviluppo, la modalità di presentazione e tanti altri aspetti.
Cordiali saluti,
Dr. Andrea Epifani - Bologna
http://BolognaPsicologo.net
[#6]
Utente
Dottor Del Signore:
"Lei descrive il "tipico pensiero" di una persona ansiosa che tende a controllare la sua ansia in meniera ossessiva."
Non posso darle torto. Non ho mai vissuto alla giornata. E' come se nel comprare una casa non mi preoccupassi tanto della ricerca della stessa ma mi mettessi già a pensare al problema del reperimento di un bravo muratore per ristrutturarla.
"Le sue credenze sono quasi "antropologiche". E' un po' come fare un dono agli Dei per tenerli buoni, per contenere la loro ira."
Devo ammettere che mi sta aiutando a capire delle cose semplici ma a cui non avevo mai pensato.
____
Dottor Epifani:
"Mi chiede quindi cosa cambia dentro di lei nelle due situazioni, con quali vissuti affronta il suo vivere in un'altra città."
Se potessi descrivere come mi sento nella mia città natia direi: protetto, invincibile, sicuro, benvoluto, vivo, spensierato. Mentre nella mia città d'adozione, a cui voglio bene e non cambierei per un'altra città d'adozione, opterei invece per: insicuro, solo, goffo, preoccupato, nervoso, triste.
"Lei descrive il "tipico pensiero" di una persona ansiosa che tende a controllare la sua ansia in meniera ossessiva."
Non posso darle torto. Non ho mai vissuto alla giornata. E' come se nel comprare una casa non mi preoccupassi tanto della ricerca della stessa ma mi mettessi già a pensare al problema del reperimento di un bravo muratore per ristrutturarla.
"Le sue credenze sono quasi "antropologiche". E' un po' come fare un dono agli Dei per tenerli buoni, per contenere la loro ira."
Devo ammettere che mi sta aiutando a capire delle cose semplici ma a cui non avevo mai pensato.
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Dottor Epifani:
"Mi chiede quindi cosa cambia dentro di lei nelle due situazioni, con quali vissuti affronta il suo vivere in un'altra città."
Se potessi descrivere come mi sento nella mia città natia direi: protetto, invincibile, sicuro, benvoluto, vivo, spensierato. Mentre nella mia città d'adozione, a cui voglio bene e non cambierei per un'altra città d'adozione, opterei invece per: insicuro, solo, goffo, preoccupato, nervoso, triste.
[#7]
>>E' come se nel comprare una casa non mi preoccupassi tanto della ricerca della stessa ma mi mettessi già a pensare al problema del reperimento di un bravo muratore per ristrutturarla.<<
la sua metafora rende molto bene l'idea. Il pensiero dell'ansioso è in genere spostato troppo verso il futuro, ma comprenderà bene che il rischio è quello di "vivere poco" nel presente.
Potrebbe essere utile per lei una psicoterapia ad indirizzo psicodinamico.
la sua metafora rende molto bene l'idea. Il pensiero dell'ansioso è in genere spostato troppo verso il futuro, ma comprenderà bene che il rischio è quello di "vivere poco" nel presente.
Potrebbe essere utile per lei una psicoterapia ad indirizzo psicodinamico.
Questo consulto ha ricevuto 7 risposte e 15.7k visite dal 04/02/2015.
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