Fobia al lavoro
Gent.li dottori,
vi espongo il mio problema.
Ho 25 anni, ero a casa dal lavoro da circa due anni e, due settimana fa, ho iniziato a fare la cassiera presso un piccolo supermercato.
Anche durante i lavori passati, i primi tempi, con periodo di adattamento più lunghi rispetto alla media, ingranare con il lavoro è stato sempre molto difficoltoso. Ansia, terrore del giudizio altrui (mi reputo impacciata nelle cose manuali e nel "far di conto"), rimuginìo. Ho fatto la commessa (il problema non è il contatto con gli altri, infatti, ma il giudizio "sul fare") di solito. Sempre, ai colleghi, ho dovuto rivelare cos'avevo, perché arrivavo con occhi lucidi, occhiaie per notti insonni e, spesso, mi veniva da piangere se sbagliavo. Diventavo paonazza e sentivo il bisogno di fuggire.
Per fare esempi semplici: mi veniva chiesto di andare a prendere qualcosa in un posto, nel magazzino, nel retrobottega,ed io, mentre andavo, avevo paura di non trovare la cosa e, quindi, non la trovavo. Mi si chiedeva di vendere una cosa compilando una bolla, ed io, mentre ascoltavo l'iter da fare, dall'ansia, appena il capo se n'era andato, dimenticavo gli step da fare..Di solito ho una memoria buona. Ma se uno mi dà un'istruzione, mi perdo.Soprattutto se devo farmi valutare.
Ora sono alla cassa di questo supermercato. Ho già avuto due richiami, perché mi agito quando c'è la coda (coda, per me, son già cinque persone, capite come "sto messa")..Le cose mi son entrate in testa, ho anche uno schema fatto, ma, appena c'è qualcosa "che non va perfettamente" (la cassa si blocca, un nuovo sconto deve esser applicato, si impalla il POS e altre cose "normali" che possono capitare e [purtroppo ] capiteranno sempre, perché l'imprevisto e la sbavatura fanno parte della vita) , io vado in tilt, e chiedo aiuto.
Non ho capacità di problem solving, anche su cose piccole. Per insicurezza vacillo, e chiedo aiuto, magari, anche per delle cavolate che potrei risolvere da sola se non mi tremassero le gambe.
Questo, ovviamente, provoca un po' di fastidio in alcuni colleghi (soprattutto quelli che sembrano essere meno ansiosi, "più easy") che mal sopportano avere "in casa" una persona con gli occhi sgranati dalla paura..Insomma, l'ansia dà fastidio, è contagiosa, a quanto pare, per qualcuno.
Be', io torno a casa mortificata. Arrabbiata con me stessa. Sono una persona sì a volte persa nei suoi pensieri, ma , totalmente deficiente, non credo d'essere! Tuttavia, quando lavoro, la mia autostima va sotto i tacchi, e metto tutto in discussione. Torno a casa e mi chiedo: " Ma è possibile che ci voglia Einstein per lavorare al supermercato???
In matematica faccio schifo, ma la cassa mi segna il resto..Solo che io l'associo ai conti, dove mi reputo una capra.
Ma anche se non fosse la cassa, e fosse fare lo spazzino, io avrei paura di non capire qual è la strada o l'anfratto da spazzare..
Insomma, faccio schifo al lavoro.
Capita anche che la mia voce venga fuori modificata, come se belassi..Quando chiedo qualcosa al lavoro, la mia voce è traballante, vacillante.
Ho fatto dei consulti psicologici durati per circa 5 anni, non una psicoterapia ma consulti una volta ogni due settimane. Semplicemente il dottore "aveva il potere" di convincermi a lavorare, cosa che avrei evitato sempre. Questi colloqui son finiti da tempo di comune accordo (lavoravo a quel tempo),ma i problemi son rimasti.
vi espongo il mio problema.
Ho 25 anni, ero a casa dal lavoro da circa due anni e, due settimana fa, ho iniziato a fare la cassiera presso un piccolo supermercato.
Anche durante i lavori passati, i primi tempi, con periodo di adattamento più lunghi rispetto alla media, ingranare con il lavoro è stato sempre molto difficoltoso. Ansia, terrore del giudizio altrui (mi reputo impacciata nelle cose manuali e nel "far di conto"), rimuginìo. Ho fatto la commessa (il problema non è il contatto con gli altri, infatti, ma il giudizio "sul fare") di solito. Sempre, ai colleghi, ho dovuto rivelare cos'avevo, perché arrivavo con occhi lucidi, occhiaie per notti insonni e, spesso, mi veniva da piangere se sbagliavo. Diventavo paonazza e sentivo il bisogno di fuggire.
Per fare esempi semplici: mi veniva chiesto di andare a prendere qualcosa in un posto, nel magazzino, nel retrobottega,ed io, mentre andavo, avevo paura di non trovare la cosa e, quindi, non la trovavo. Mi si chiedeva di vendere una cosa compilando una bolla, ed io, mentre ascoltavo l'iter da fare, dall'ansia, appena il capo se n'era andato, dimenticavo gli step da fare..Di solito ho una memoria buona. Ma se uno mi dà un'istruzione, mi perdo.Soprattutto se devo farmi valutare.
Ora sono alla cassa di questo supermercato. Ho già avuto due richiami, perché mi agito quando c'è la coda (coda, per me, son già cinque persone, capite come "sto messa")..Le cose mi son entrate in testa, ho anche uno schema fatto, ma, appena c'è qualcosa "che non va perfettamente" (la cassa si blocca, un nuovo sconto deve esser applicato, si impalla il POS e altre cose "normali" che possono capitare e [purtroppo ] capiteranno sempre, perché l'imprevisto e la sbavatura fanno parte della vita) , io vado in tilt, e chiedo aiuto.
Non ho capacità di problem solving, anche su cose piccole. Per insicurezza vacillo, e chiedo aiuto, magari, anche per delle cavolate che potrei risolvere da sola se non mi tremassero le gambe.
Questo, ovviamente, provoca un po' di fastidio in alcuni colleghi (soprattutto quelli che sembrano essere meno ansiosi, "più easy") che mal sopportano avere "in casa" una persona con gli occhi sgranati dalla paura..Insomma, l'ansia dà fastidio, è contagiosa, a quanto pare, per qualcuno.
Be', io torno a casa mortificata. Arrabbiata con me stessa. Sono una persona sì a volte persa nei suoi pensieri, ma , totalmente deficiente, non credo d'essere! Tuttavia, quando lavoro, la mia autostima va sotto i tacchi, e metto tutto in discussione. Torno a casa e mi chiedo: " Ma è possibile che ci voglia Einstein per lavorare al supermercato???
In matematica faccio schifo, ma la cassa mi segna il resto..Solo che io l'associo ai conti, dove mi reputo una capra.
Ma anche se non fosse la cassa, e fosse fare lo spazzino, io avrei paura di non capire qual è la strada o l'anfratto da spazzare..
Insomma, faccio schifo al lavoro.
Capita anche che la mia voce venga fuori modificata, come se belassi..Quando chiedo qualcosa al lavoro, la mia voce è traballante, vacillante.
Ho fatto dei consulti psicologici durati per circa 5 anni, non una psicoterapia ma consulti una volta ogni due settimane. Semplicemente il dottore "aveva il potere" di convincermi a lavorare, cosa che avrei evitato sempre. Questi colloqui son finiti da tempo di comune accordo (lavoravo a quel tempo),ma i problemi son rimasti.
[#1]
G.le utente, da quanto racconta si ha l'impressione che il suo sintomo le renda la vita (almeno quella lavorativa) molto difficile se non invalidandola.
Il problema che ha descritto, a mio avviso, è associato ad uno stato d'ansia acuta indotto dal rapporto con l'altro in specifiche situazioni di performance, che interferiscono in modo significativo sulle sue capacità psicomotorie, ovvero inibendole e facendola sentire una nullità.
Tutto ciò è la punta dell'iceberg, il sintomo che le crea sofferenza ed interferisce con il normale decorso della sua vita lavorativa.
Ciò che si dovrebbe approfondire è: come mai le accade?
A mio modo di vedere, in un'ottica psicoanalitica, si potrebbe parlare (senza per questo fare una diagnosi per il suo caso) di "nevrosi di destino o di scacco", quando cioè una persona cade sempre nello stesso modo, non riesce a realizzare ciò che desidera ed è "vocata" al fallimento. In altri termini, si potrebbe parlare di "profezia che si autoavvera", quando cioè si pensa a qualcosa di disastroso che ci riguarda che poi, all'occasione propizia, puntualmente si verifica.
A parte quese congetture ciò che mi premerebbe sapere è da dove viene quest'ansia che la porta ad atteggiamenti, per così dire, masochistici.
Specificamente: com'è il suo rapporto con le sue figure genitoriali, con l'autorità, con la propria morale?
Come si sente con il proprio Io e cosa si aspetta dagli altri?
Oltre al sintomo qui descritto, soffre per altri fenomeni parassitari?
Il problema che ha descritto, a mio avviso, è associato ad uno stato d'ansia acuta indotto dal rapporto con l'altro in specifiche situazioni di performance, che interferiscono in modo significativo sulle sue capacità psicomotorie, ovvero inibendole e facendola sentire una nullità.
Tutto ciò è la punta dell'iceberg, il sintomo che le crea sofferenza ed interferisce con il normale decorso della sua vita lavorativa.
Ciò che si dovrebbe approfondire è: come mai le accade?
A mio modo di vedere, in un'ottica psicoanalitica, si potrebbe parlare (senza per questo fare una diagnosi per il suo caso) di "nevrosi di destino o di scacco", quando cioè una persona cade sempre nello stesso modo, non riesce a realizzare ciò che desidera ed è "vocata" al fallimento. In altri termini, si potrebbe parlare di "profezia che si autoavvera", quando cioè si pensa a qualcosa di disastroso che ci riguarda che poi, all'occasione propizia, puntualmente si verifica.
A parte quese congetture ciò che mi premerebbe sapere è da dove viene quest'ansia che la porta ad atteggiamenti, per così dire, masochistici.
Specificamente: com'è il suo rapporto con le sue figure genitoriali, con l'autorità, con la propria morale?
Come si sente con il proprio Io e cosa si aspetta dagli altri?
Oltre al sintomo qui descritto, soffre per altri fenomeni parassitari?
Dr. Michele Spalletti, psicologo - psicoterapeuta
[#2]
Gentile utente,
Uno psicologo non dovrebbe convincere il paziente a fare una determinata cosa, ma lavorare sulle cause che impediscono di farla.
Non ho ben capito cosa abbia fatto, ma forse non è stato bastevole.
Le cause del suo disagio sembrano molteplici, oltre che correlate ad una scarsa autostima.
Ha una vita affettiva?
Un amore, partner.?
Ha degli hobby?
Che tipo di educazione ha ricevuto?
Mi dice qualcosa di bello e buono di lei?
Uno psicologo non dovrebbe convincere il paziente a fare una determinata cosa, ma lavorare sulle cause che impediscono di farla.
Non ho ben capito cosa abbia fatto, ma forse non è stato bastevole.
Le cause del suo disagio sembrano molteplici, oltre che correlate ad una scarsa autostima.
Ha una vita affettiva?
Un amore, partner.?
Ha degli hobby?
Che tipo di educazione ha ricevuto?
Mi dice qualcosa di bello e buono di lei?
Cordialmente.
Dr.ssa Valeria Randone,perfezionata in sessuologia clinica.
https://www.valeriarandone.it
[#3]
Ex utente
@dottor Spalletti..Grazie per la risposta. Bene, ci manca anche la profezia che si autoavvera. Così, ora, avrò paura che, oltre al lavoro, se dovessi pensare che andrà male con gli amici (o in amore), questo potrà accader proprio perché lo penso intensamente e mi terrorizza?..Questa cosa "pseudo magica" mi fa paura (tanto per cambiare)..Ho capito cosa intende, che la paura di sbagliare il rigore, molto probabilmente, farà tirare fuori la palla, mentre, se al dischetto ci vai rilassato o riesci a tramutare la paura in "adrenalina", farai centro..Spero davvero che questa negatività non si espanda a macchia d'olio anche ad altri miei contesti, perché questa paura l'ho.
Con i miei genitori vado d'accordo, mio padre è ipocondriaco..Brillante, simpatico, ma pauroso di tutto e pessimista. Mia mamma è più positiva e crede nell'impegno per superare le difficoltà. (Lui, invece, crede nel talento e nell'ispirazione). Il mio rapporto con loro è conflittuale.Amore e odio. Mi hanno fatto divertire e vivere momenti d'amore assoluto, sia nell'infanzia che nell'adolescenza, ma non mi hanno molto aiutato ad essere sicura di me. Mi hanno sempre risolto molti problemi.
Con il proprio Io, non saprei rispondere..Sento che sono una persona a metà, con potenzialità, ma castrata. Gli altri? Vorrei piacere a tutti (so che è una cosa infantile), o a molti, o alla maggior parte delle persone. Mi piace piacere. Al lavoro spesso non accade, e questo, mi fa star male.
Le figure autorevoli non le sopporto..Mi dà fastidio ricevere ordini. Diciamo che mi piace "fregare" chi mi dà ordini. Era così a scuola (dov'ero brava ma furbetta) ed è sempre stato così anche in altri contesti..
Con la mia morale ..mm cosa intende? Giusto/sbagliato? Credo di essere una persona accidiosa, debole e piangente,e credo questo sia un affronto alla vita, quindi, mi sento "immorale". Ma quest'ambiguità l'accetto, perché sono proprio così nel DNA. L'ostacolo mi paralizza e, come diceva Manzoni, " il coraggio se uno non ce l'ha non se lo può dare". Io vorrei darmelo almeno su alcune cose, ma non ce la fo. Non ho risposto in fila alle domande, mi scuso..
@Randone..grazie anche a lei..Sì, ho un ragazzo, con cui va bene, ma che invidio, perché meglio sa risolvere i problemi che la vita gli presenta.Ho degli amici. Hobby? Mi piace scrivere, guidare da sola al tramonto, spulciare Internet, leggere libri di autori underground emergenti.
Educazione? I miei super permissivi..Mio padre urlava di default, ma poi ha sempre detto sì per qualsiasi cosa...Una volta capito questo, valeva tutto..Cambio scuola, non presentarmi a ripetizioni, saltare corsi ai quali mi avevano iscritto,multe su multe da quando ho preso la patente..Urla, urla, ma poi..mi aiuta sempre. Mia madre ha sempre cercato d'essere più di polso, e lo è, ma poi, anche lei, dopo poco, le perdonava tutte.
Bello? Credo di avere una sensibilità superiore alla media, d'essere una persona generosa, di saper ascoltare i miei amici e il mio ragazzo, mi consideravo una persona intelligente (ora nutro dubbi visto che a lavorare, da anni, faccio schifo),premurosa, divertente e ironica.
Il resto, fa schifo
Con i miei genitori vado d'accordo, mio padre è ipocondriaco..Brillante, simpatico, ma pauroso di tutto e pessimista. Mia mamma è più positiva e crede nell'impegno per superare le difficoltà. (Lui, invece, crede nel talento e nell'ispirazione). Il mio rapporto con loro è conflittuale.Amore e odio. Mi hanno fatto divertire e vivere momenti d'amore assoluto, sia nell'infanzia che nell'adolescenza, ma non mi hanno molto aiutato ad essere sicura di me. Mi hanno sempre risolto molti problemi.
Con il proprio Io, non saprei rispondere..Sento che sono una persona a metà, con potenzialità, ma castrata. Gli altri? Vorrei piacere a tutti (so che è una cosa infantile), o a molti, o alla maggior parte delle persone. Mi piace piacere. Al lavoro spesso non accade, e questo, mi fa star male.
Le figure autorevoli non le sopporto..Mi dà fastidio ricevere ordini. Diciamo che mi piace "fregare" chi mi dà ordini. Era così a scuola (dov'ero brava ma furbetta) ed è sempre stato così anche in altri contesti..
Con la mia morale ..mm cosa intende? Giusto/sbagliato? Credo di essere una persona accidiosa, debole e piangente,e credo questo sia un affronto alla vita, quindi, mi sento "immorale". Ma quest'ambiguità l'accetto, perché sono proprio così nel DNA. L'ostacolo mi paralizza e, come diceva Manzoni, " il coraggio se uno non ce l'ha non se lo può dare". Io vorrei darmelo almeno su alcune cose, ma non ce la fo. Non ho risposto in fila alle domande, mi scuso..
@Randone..grazie anche a lei..Sì, ho un ragazzo, con cui va bene, ma che invidio, perché meglio sa risolvere i problemi che la vita gli presenta.Ho degli amici. Hobby? Mi piace scrivere, guidare da sola al tramonto, spulciare Internet, leggere libri di autori underground emergenti.
Educazione? I miei super permissivi..Mio padre urlava di default, ma poi ha sempre detto sì per qualsiasi cosa...Una volta capito questo, valeva tutto..Cambio scuola, non presentarmi a ripetizioni, saltare corsi ai quali mi avevano iscritto,multe su multe da quando ho preso la patente..Urla, urla, ma poi..mi aiuta sempre. Mia madre ha sempre cercato d'essere più di polso, e lo è, ma poi, anche lei, dopo poco, le perdonava tutte.
Bello? Credo di avere una sensibilità superiore alla media, d'essere una persona generosa, di saper ascoltare i miei amici e il mio ragazzo, mi consideravo una persona intelligente (ora nutro dubbi visto che a lavorare, da anni, faccio schifo),premurosa, divertente e ironica.
Il resto, fa schifo
[#4]
Con un aiuto psicologico adeguato, ogni difficoltà può diventare una risorsa.
Da quanto scrive di se stessa, ha tante cose belle oltre che il disagio lavorativo, un nostro Collega potrà sicuramente approfondire la sua richiesta di consulenza, offrendole soluzioni sicuramente risolutive
Da quanto scrive di se stessa, ha tante cose belle oltre che il disagio lavorativo, un nostro Collega potrà sicuramente approfondire la sua richiesta di consulenza, offrendole soluzioni sicuramente risolutive
[#5]
G.le utente, dalla sua "immensa" risposta si percepisce la sua sensibilità, intelligenza e "insight" (intuitività, capacità creativa per risolvere problemi complessi, molto importante, tra l'altro per intraprendere un persorso psicoterapeutico).
Il fatto che il suo precedente percorso non sia andato a buon fine, come accennava giustamente la mia insigne collega, credo non dipenda da lei ma dall'aver sbagliato persona (il transfert o il feeling) o l'orientamento dello psicologo (era solo psicologo o anche psicoterapeuta?).
Da quanto ci racconta, non sembra aver subito particolari "traumi" in famiglia o in generale. Ciò non toglie che, secondo me, dovrebbe analizzare comunque il problema in profondità per poterne reperire le cause, interne al suo modo di relazionarsi a se stessa e al mondo.
Scusi l'impertinenza, ma quella che ci ha descritto più che una psicoterapia da l'impressione di essere un addestramento a come "comportarsi bene" e a "doversi" comportare bene, piuttosto che un viaggio alla ricerca di sé stessi e della propria verità soggettiva al di là del sintomo contingente.
Certo lei lamenta un sintomo del tipo: "ansia sociale" e con questo ci accontentiamo, l'abbiamo catalogata ed ora c'è il trattamento specifico (uguale per tutti), un training al quale sottoporsi. Ma lei nel frattempo dov'è finita? La sua questione come soggetto che fine ha fatto? La sua voce che trema e tutte le sfumature del caso dove sono?
Le dico questo, non nascondo con una certa vena polemica, perché è grazie a chi lavora in modo standardizzato e credendosi il padrone del sapere assoluto (magari anche senza averne i titoli) se poi, nei casi come il suo, non si cava un ragno dal buco, proprio perché non si tiene conto del soggetto e dell’ascolto.
Questo panegirico, tornando a lei, per dirle che dovrebbe ancora aver fiducia nella figura dello psicologo, meglio se psicoterapeuta, per risolvere la sua questione dietro al sintomo che ci ha raccontato, proprio perché, almeno a mio avviso dalle risposte che ci ha fornito, si coglie in lei capacità d’insight psicologico, autoironia e voglia di raccontarsi (di associare in termini psicoanalitici).
Caratteristiche queste propedeutiche a spogliare molti sintomi dalla loro solo apparente opacità (come diceva uno psicoanalista francese “il sintomo è il significante di un significato rimosso” che può tornare in superficie mediante la messa in moto della parola, liberandolo dal suo effetto patogeno).
Il fatto che il suo precedente percorso non sia andato a buon fine, come accennava giustamente la mia insigne collega, credo non dipenda da lei ma dall'aver sbagliato persona (il transfert o il feeling) o l'orientamento dello psicologo (era solo psicologo o anche psicoterapeuta?).
Da quanto ci racconta, non sembra aver subito particolari "traumi" in famiglia o in generale. Ciò non toglie che, secondo me, dovrebbe analizzare comunque il problema in profondità per poterne reperire le cause, interne al suo modo di relazionarsi a se stessa e al mondo.
Scusi l'impertinenza, ma quella che ci ha descritto più che una psicoterapia da l'impressione di essere un addestramento a come "comportarsi bene" e a "doversi" comportare bene, piuttosto che un viaggio alla ricerca di sé stessi e della propria verità soggettiva al di là del sintomo contingente.
Certo lei lamenta un sintomo del tipo: "ansia sociale" e con questo ci accontentiamo, l'abbiamo catalogata ed ora c'è il trattamento specifico (uguale per tutti), un training al quale sottoporsi. Ma lei nel frattempo dov'è finita? La sua questione come soggetto che fine ha fatto? La sua voce che trema e tutte le sfumature del caso dove sono?
Le dico questo, non nascondo con una certa vena polemica, perché è grazie a chi lavora in modo standardizzato e credendosi il padrone del sapere assoluto (magari anche senza averne i titoli) se poi, nei casi come il suo, non si cava un ragno dal buco, proprio perché non si tiene conto del soggetto e dell’ascolto.
Questo panegirico, tornando a lei, per dirle che dovrebbe ancora aver fiducia nella figura dello psicologo, meglio se psicoterapeuta, per risolvere la sua questione dietro al sintomo che ci ha raccontato, proprio perché, almeno a mio avviso dalle risposte che ci ha fornito, si coglie in lei capacità d’insight psicologico, autoironia e voglia di raccontarsi (di associare in termini psicoanalitici).
Caratteristiche queste propedeutiche a spogliare molti sintomi dalla loro solo apparente opacità (come diceva uno psicoanalista francese “il sintomo è il significante di un significato rimosso” che può tornare in superficie mediante la messa in moto della parola, liberandolo dal suo effetto patogeno).
[#6]
Gentile Utente,
Lei ha descritto molto bene la situazione e le difficoltà che incontra al lavoro e ha anche nominato ciò che probabilmente Le manca: la capacità di problem solving.
Effettivamente se manca questa abilità, può risultare più complicato restare calmi e tranquilli. E viceversa, se si desidera così tanto piacere a tutti, la vita diventa complicata e fonte di stress perchè sappiamo già che è impossibile. Richiede infatti di vivere costantemente sotto esame...
Forse quando riuscirà a rinunciare a questa mission del piacere a tutti e in ogni circostanza, la vita comincerà ad essere un po' più spensierata.
Soprattutto non ho capito che tipo di lavoro ha fatto in passato con lo psicologo, nè se sia stata posta una diagnosi (es disturbo d'ansia o altro).
Ma se davvero incontra delle difficoltà operative nel momento in cui è alla cassa (mansione stressante che richiede attenzione e precisione, anche perchè si maneggia parecchio denaro), un buon training potrebbe essere quello attivo e focalizzato proposto ad esempio dalla terapia cognitivo-comportamentale, che prevede per queste specifiche situazioni anche l'utilizzo del role play per allenare il pz. a diventare più abile e diconseguenza più capace di gestire lo stress.
Cordiali saluti,
Lei ha descritto molto bene la situazione e le difficoltà che incontra al lavoro e ha anche nominato ciò che probabilmente Le manca: la capacità di problem solving.
Effettivamente se manca questa abilità, può risultare più complicato restare calmi e tranquilli. E viceversa, se si desidera così tanto piacere a tutti, la vita diventa complicata e fonte di stress perchè sappiamo già che è impossibile. Richiede infatti di vivere costantemente sotto esame...
Forse quando riuscirà a rinunciare a questa mission del piacere a tutti e in ogni circostanza, la vita comincerà ad essere un po' più spensierata.
Soprattutto non ho capito che tipo di lavoro ha fatto in passato con lo psicologo, nè se sia stata posta una diagnosi (es disturbo d'ansia o altro).
Ma se davvero incontra delle difficoltà operative nel momento in cui è alla cassa (mansione stressante che richiede attenzione e precisione, anche perchè si maneggia parecchio denaro), un buon training potrebbe essere quello attivo e focalizzato proposto ad esempio dalla terapia cognitivo-comportamentale, che prevede per queste specifiche situazioni anche l'utilizzo del role play per allenare il pz. a diventare più abile e diconseguenza più capace di gestire lo stress.
Cordiali saluti,
Dott.ssa Angela Pileci
Psicologa,Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale
Perfezionata in Sessuologia Clinica
[#7]
Ex utente
@Spalletti...Sì, diciamo che io son ben felice di essere andata dallo psicologo per cinque anni, e, per onestà intellettuale, devo ammettere che, se non ci fosse stato lui, non avrei nel curriculum quei pochi lavori svolti..Il rapporto si è concluso di comune accordo, perché avevo un lavoro, mi ero "calmata" nell'andarci (dopo 4/5 mesi, con tempi lunghissimi rispetto alla media, quindi), e la vita, sotto altri aspetti, non presentava grossi problemi. Ma, dopo due anni a casa, quella paura è tornata..
Allora qui concordo con lei..,perché questa paura ricompare?
Come mai si ripresenta?
Allora significa che abbiamo lavorato solo sulla punta dell'iceberg, sul problema quando si presentava, ma non sulle radici.
Nel senso..Perché proprio il lavoro? Cosa potrebbe rappresentare per me, la responsabilità? Il cavarmela da sola? Lo stare in un contesto in cui, se faccio cavolate, i miei non possono intervenire a salvarmi?
Su questo non si è lavorato,col senno di poi, ho perfino pensato che lo psicologo, forse, ai tempi, dai 17/18 anni ai 23/24, mi vedeva molto rigida e immatura per parlare o mettere in discussione il rapporto con i miei genitori. Non so.
Sì, erano dei must, che però, ora , non mi bastano più.
Una volta, in una pausa tra un lavoro e l'altro, mi fece capire che risolvere totalmente un problema da fobia sociale è un po' un'utopia, perché io sul lavoro avrò sempre quest'ansia (quando più, quando meno), come la ragazza bulimica o anoressica che non resterà mai del tutto indifferente di fronte al cibo.
Fece questo esempio.
Non capisco se lo disse per farmela accettare (vedendo che giudicavo questa mia vulnerabilità in modo impietoso), per rassegnazione (pensando che non fossi maturata e non riuscissi a vincere il rifiuto di diventar adulta) o , semplicemente, per essere sincero, della serie, si può modificare, ma solo un pochino, e con estrema difficoltà, prendine atto cara, e convivici. (Mai glielo chiesi, sono considerazioni che sto facendo solo ora, col senno di poi)
@Pileci Sì,senz'altro, piacere a tutti (o a molti) è fonte di stress. Sono stata abituata così. Dovevo dire la cosa brillante, la battuta perfetta, essere "er mejo". A partire dalla reunion familiari, del tipo: se avevo la febbre a 38 dovevo suonare il piano da Dio davanti a parenti e amici, o leggere il tema in piedi, o sorridere ed essere compiacente anche se avevo il mal di pancia..Non me lo si perdonava (non so se può c'entrare, ma ho questi ricordi).
La diagnosi era fobia sociale. Sedute due volte a settimana da questo psicologo.Erano dei colloqui in cui si parlava del più e del meno, affrontando i problemi di volta in volta.
Allora qui concordo con lei..,perché questa paura ricompare?
Come mai si ripresenta?
Allora significa che abbiamo lavorato solo sulla punta dell'iceberg, sul problema quando si presentava, ma non sulle radici.
Nel senso..Perché proprio il lavoro? Cosa potrebbe rappresentare per me, la responsabilità? Il cavarmela da sola? Lo stare in un contesto in cui, se faccio cavolate, i miei non possono intervenire a salvarmi?
Su questo non si è lavorato,col senno di poi, ho perfino pensato che lo psicologo, forse, ai tempi, dai 17/18 anni ai 23/24, mi vedeva molto rigida e immatura per parlare o mettere in discussione il rapporto con i miei genitori. Non so.
Sì, erano dei must, che però, ora , non mi bastano più.
Una volta, in una pausa tra un lavoro e l'altro, mi fece capire che risolvere totalmente un problema da fobia sociale è un po' un'utopia, perché io sul lavoro avrò sempre quest'ansia (quando più, quando meno), come la ragazza bulimica o anoressica che non resterà mai del tutto indifferente di fronte al cibo.
Fece questo esempio.
Non capisco se lo disse per farmela accettare (vedendo che giudicavo questa mia vulnerabilità in modo impietoso), per rassegnazione (pensando che non fossi maturata e non riuscissi a vincere il rifiuto di diventar adulta) o , semplicemente, per essere sincero, della serie, si può modificare, ma solo un pochino, e con estrema difficoltà, prendine atto cara, e convivici. (Mai glielo chiesi, sono considerazioni che sto facendo solo ora, col senno di poi)
@Pileci Sì,senz'altro, piacere a tutti (o a molti) è fonte di stress. Sono stata abituata così. Dovevo dire la cosa brillante, la battuta perfetta, essere "er mejo". A partire dalla reunion familiari, del tipo: se avevo la febbre a 38 dovevo suonare il piano da Dio davanti a parenti e amici, o leggere il tema in piedi, o sorridere ed essere compiacente anche se avevo il mal di pancia..Non me lo si perdonava (non so se può c'entrare, ma ho questi ricordi).
La diagnosi era fobia sociale. Sedute due volte a settimana da questo psicologo.Erano dei colloqui in cui si parlava del più e del meno, affrontando i problemi di volta in volta.
[#8]
Se la diagnosi è di fobia sociale, sono indicate le terapie attive e focalizzate, come ad esempio quella cognitivo-comportamentale.
Legga qui:
https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/977-quando-gli-altri-diventano-un-problema-capire-e-vincere-la-fobia-sociale.html
https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/316-fobia-sociale-il-palcoscenico-della-paura.html
https://www.medicitalia.it/minforma/psichiatria/416-la-fobia-sociale.html
Cordiali saluti,
Legga qui:
https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/977-quando-gli-altri-diventano-un-problema-capire-e-vincere-la-fobia-sociale.html
https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/316-fobia-sociale-il-palcoscenico-della-paura.html
https://www.medicitalia.it/minforma/psichiatria/416-la-fobia-sociale.html
Cordiali saluti,
[#9]
G.le utente, da quanto apporta aggiunge elementi interessanti per la lettura del suo problema.
Già nel dire: "mi ero "calmata" nell'andarci (dopo 4/5 mesi, con tempi lunghissimi rispetto alla media, quindi)" mi fa pensare che, a meno che non glielo abbiano detto terze persone o il suo stesso terapeuta, per lei ci sia un tempo medio in cui dover fare e portare a termine le cose, un tempo limite, oltre il quale rischia di perdersi al di là di ciò che lei o gli altri (vedi genitori che la costringevano alla performance a tutti i costi) si aspettano da lei.
Essendo una psicoterapia basata sul "MUST", per quanto possa averle fatto un pò effetto, non faceva altro, a mio modesto avviso, che rinforzare un'imposizione di un altro esigente che vuole che lei faccia qualcosa (suoni il piano, reciti la poesia e quindi sappia far di conti e parli a lavoro). Per me, con rispetto parlando, è un paradosso
Le vorrei, invece, porre la questione sotto quest'altra angolatura, coerentemente a quanto da lei accusato. Non riuscire, inibirsi, bloccarsi con la parola e con i conti ha un significato simbolico: "non essere la dove l'altro simbolico ed immaginario si aspetta e vorrebbe che io sia". Un nascondersi al desiderio (rompiscatole e pretenzioso) dell'Altro simbolico (le leggi, le regole, la matematica...) ed immaginario (il mio simile, mio padre e mia madre, il datore di lavoro o il superiore che incarna colui che vuole qualcosa da me e che io, con il mio sintomo non gli do). Opporre e rispondere con una defaiance laddove l’altro si è sempre aspettato una performance. Non a caso il suo sintomo è selettivo e, per sua fortuna, limitato al solo ambiente lavorativo, con tutto il potere evocativo che può esercitare nell’immaginario.
All’inizio le ho parlato, di sfuggita, di “nevrosi di scacco o di destino”, senza per questo voler redigere una diagnosi, ma solo per ragionare un po’ su quanto lei ci ha raccontato e credo che le sue parole riflettano una situazione in cui perdere è, inconsciamente, meglio che vincere. Perdendo vince lei sul desiderio assillante dell’altro che esige una performance matematica, letteraria, musicale…
Ci pensi…se, con il dovuto supporto psicoterapico, risponde e risolve queste o altre questioni che la ri-guardano profondamente il sintomo della fobia sociale potrà scioglersi come neve al sole, perchè avrà elaborato le cause e non gli effetti del suo problema
Restiamo in ascolto
Già nel dire: "mi ero "calmata" nell'andarci (dopo 4/5 mesi, con tempi lunghissimi rispetto alla media, quindi)" mi fa pensare che, a meno che non glielo abbiano detto terze persone o il suo stesso terapeuta, per lei ci sia un tempo medio in cui dover fare e portare a termine le cose, un tempo limite, oltre il quale rischia di perdersi al di là di ciò che lei o gli altri (vedi genitori che la costringevano alla performance a tutti i costi) si aspettano da lei.
Essendo una psicoterapia basata sul "MUST", per quanto possa averle fatto un pò effetto, non faceva altro, a mio modesto avviso, che rinforzare un'imposizione di un altro esigente che vuole che lei faccia qualcosa (suoni il piano, reciti la poesia e quindi sappia far di conti e parli a lavoro). Per me, con rispetto parlando, è un paradosso
Le vorrei, invece, porre la questione sotto quest'altra angolatura, coerentemente a quanto da lei accusato. Non riuscire, inibirsi, bloccarsi con la parola e con i conti ha un significato simbolico: "non essere la dove l'altro simbolico ed immaginario si aspetta e vorrebbe che io sia". Un nascondersi al desiderio (rompiscatole e pretenzioso) dell'Altro simbolico (le leggi, le regole, la matematica...) ed immaginario (il mio simile, mio padre e mia madre, il datore di lavoro o il superiore che incarna colui che vuole qualcosa da me e che io, con il mio sintomo non gli do). Opporre e rispondere con una defaiance laddove l’altro si è sempre aspettato una performance. Non a caso il suo sintomo è selettivo e, per sua fortuna, limitato al solo ambiente lavorativo, con tutto il potere evocativo che può esercitare nell’immaginario.
All’inizio le ho parlato, di sfuggita, di “nevrosi di scacco o di destino”, senza per questo voler redigere una diagnosi, ma solo per ragionare un po’ su quanto lei ci ha raccontato e credo che le sue parole riflettano una situazione in cui perdere è, inconsciamente, meglio che vincere. Perdendo vince lei sul desiderio assillante dell’altro che esige una performance matematica, letteraria, musicale…
Ci pensi…se, con il dovuto supporto psicoterapico, risponde e risolve queste o altre questioni che la ri-guardano profondamente il sintomo della fobia sociale potrà scioglersi come neve al sole, perchè avrà elaborato le cause e non gli effetti del suo problema
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Questo consulto ha ricevuto 9 risposte e 41.4k visite dal 28/11/2013.
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