Perdere del tempo prezioso
Gentili Dottori,
vi scrivo con la speranza di poter trovare una spiegazione logica ad un mio disagio e possibilmente poter porvi rimedio. La mia insoddisfazione ormai stabile da moltissimi anni mi ha spinto a concentrarmi quasi esclusivamente sul lavoro e nel tempo libero alla famiglia (ho un figlio), ma ho sempre avuto la sensazione che la vita trascorra via in modo improduttivo, senza soddisfazione, perchè comunque, anche il lavoro non mi ha fatto sentire realizzato veramente. Varie volte ho cercato di dedicarmi a cose piacevoli, per distrarmi, come la musica, fotografia, passeggiate, collezionismo, meccanica, informatica, lettura, televisione, ma niente da fare, per un po’ mi sembra di sentirmi coinvolto, ma poi mi assale la brutta sensazione che stò perdendo tempo prezioso, che la vita corre via e io non riesco a fare niente. Insomma qualsiasi cosa faccia mi da la sensazione che stò cercando di sostituire con altro qualcosa di inafferrabile. Mi potete aiutare a capire? Ormai non c’è più nulla che riesca a riempirmi e un senso di vuoto e timore per il futuro mi accompagna per la gran pare della giornata.
Grazie.
vi scrivo con la speranza di poter trovare una spiegazione logica ad un mio disagio e possibilmente poter porvi rimedio. La mia insoddisfazione ormai stabile da moltissimi anni mi ha spinto a concentrarmi quasi esclusivamente sul lavoro e nel tempo libero alla famiglia (ho un figlio), ma ho sempre avuto la sensazione che la vita trascorra via in modo improduttivo, senza soddisfazione, perchè comunque, anche il lavoro non mi ha fatto sentire realizzato veramente. Varie volte ho cercato di dedicarmi a cose piacevoli, per distrarmi, come la musica, fotografia, passeggiate, collezionismo, meccanica, informatica, lettura, televisione, ma niente da fare, per un po’ mi sembra di sentirmi coinvolto, ma poi mi assale la brutta sensazione che stò perdendo tempo prezioso, che la vita corre via e io non riesco a fare niente. Insomma qualsiasi cosa faccia mi da la sensazione che stò cercando di sostituire con altro qualcosa di inafferrabile. Mi potete aiutare a capire? Ormai non c’è più nulla che riesca a riempirmi e un senso di vuoto e timore per il futuro mi accompagna per la gran pare della giornata.
Grazie.
[#1]
Gentile Utente,
potrebbe trattarsi di un problema legato all'ansia che Le impedisce di essere soddisfatto di ciò che fa.
Tuttavia da questa postazione possiamo solo ipotizzare. Se questa condizione è diventata per Lei fonte di disagio, potrebbe parlarne di persona con uno psicologo per cercare di comprendere meglio il problema e cambiarlo.
Saluti,
potrebbe trattarsi di un problema legato all'ansia che Le impedisce di essere soddisfatto di ciò che fa.
Tuttavia da questa postazione possiamo solo ipotizzare. Se questa condizione è diventata per Lei fonte di disagio, potrebbe parlarne di persona con uno psicologo per cercare di comprendere meglio il problema e cambiarlo.
Saluti,
[#2]
gentile Utente,
dal suo racconto di sè, anche se breve, sembra che siano totalmente assenti le emozioni, le passioni, l'eros, nel senso dell'istinto che correla alla vita.
Ci parla di quanto correla con la dimensione del "dovere", non del "piacere".
Lei ha paura di emozionarsi?
Di dedicare del tempo esculivamente per se stesso?
Ha sofferto in passato, di disturbi dell'umore?
dal suo racconto di sè, anche se breve, sembra che siano totalmente assenti le emozioni, le passioni, l'eros, nel senso dell'istinto che correla alla vita.
Ci parla di quanto correla con la dimensione del "dovere", non del "piacere".
Lei ha paura di emozionarsi?
Di dedicare del tempo esculivamente per se stesso?
Ha sofferto in passato, di disturbi dell'umore?
Cordialmente.
Dr.ssa Valeria Randone,perfezionata in sessuologia clinica.
https://www.valeriarandone.it
[#3]
Gentile utente, anch'io le chiedo come vive le relazioni con gli altri, con la sua famiglia, con suo figlio e con sua moglie.. da qui, non posso che chiederle se è interessato agli altri , se si sente apprezzato, compreso amato, tutte le cose che fa, tutte interessanti e intelligenti ,sembrano essere più tecniche, culturali , scelte e fatte nel silenzio delle emozioni .
Suo figlio quanti anni ha, che rapporto ha con lui, cosa fa con lui?
E sua moglie dov'è nella sua vita...?
A volte ci si protegge dalle emozioni, difensivamente, per proteggersi da delusioni, da antichi vissuti di marginalità e di incomprensioni..
Rivolgersi a uno psicologo potrebbe esserle molto utile, per uscire da questo mondo grigio e ovattato, che la rende infelice..
Ci pensi e ci faccia sapere..
E' peccato sprecare la vita..
Cari auguri
Suo figlio quanti anni ha, che rapporto ha con lui, cosa fa con lui?
E sua moglie dov'è nella sua vita...?
A volte ci si protegge dalle emozioni, difensivamente, per proteggersi da delusioni, da antichi vissuti di marginalità e di incomprensioni..
Rivolgersi a uno psicologo potrebbe esserle molto utile, per uscire da questo mondo grigio e ovattato, che la rende infelice..
Ci pensi e ci faccia sapere..
E' peccato sprecare la vita..
Cari auguri
MAGDA MUSCARA FREGONESE
Psicologo, Psicoterapeuta psicodinamico per problemi familiari, adolescenza, depressione - magda_fregonese@libero.it
[#4]
Ok, ma direbbe che il suo problema si possa riassumere più in una paura del tempo che passa, o più nel cruccio di non essere ancora riuscito a individuare ciò che vuole davvero dalla vita?
In altre parole, si tratta più di paura o più d'indecisione?
In altre parole, si tratta più di paura o più d'indecisione?
Dr. G. Santonocito, Psicologo | Specialista in Psicoterapia Breve Strategica
Consulti online e in presenza
www.giuseppesantonocito.com
[#5]
Ex utente
Grazie a tutti per le risposte. Le vostre domande, molto dirette, mi hanno costretto a due giorni di riflessione e in parte penso abbiano contribuito a trovare risposta alle mie domande, anche se sicuramente non completamente. Per organizzare meglio le mie risposte riporterò alcune delle vostre domande tra virgolette. Penso questo racconto possa rispondere a tutte.
“Ha sofferto in passato, di disturbi dell'umore?”
Anche se a volte ne ho sentito parlare non so bene cosa siano, so che da bambino mi dicevano spesso che sono lunatico, ma ricordo che cerano dei motivi per avere “la luna”. I miei non si parlavano e rompevano il muro di silenzio solo per litigare. Non dovevo chiedere nulla perché chiedere “non stà bene”, se stavo male era meglio che non lo dicessi per non fare arrabbiare o agitare mia madre, mi sentivo messo da parte, diceva che ero cattivo o idiota, alternava. Dai 6 ai 8 anni quando ho potuto stare con dei coetanei a scuola mi si raccomandava di non fare amicizie perché portano solo problemi.
Dagli 8 anni in poi finalmente ho cominciato a stare con dei coetanei perché avendo cambiato casa dove c’erano spazi aperti nella natura, ho avuto la possibilità di socializzare un po’. Non mi piaceva andare a scuola e sarei stato solo con loro.
“Ci parla di quanto correla con la dimensione del "dovere", non del "piacere".”
E’ vero, sono cresciuto con il senso del dovere, che a volte odio, ma forse ne sono anche schiavo. Il piacere mi è stato insegnato che non è importante, anzi, una cosa per i poveri di spirito.
“anch'io le chiedo come vive le relazioni con gli altri”
Dagli 8 anni fino a metà adolescenza mi piaceva molto stare con i ragazzi e ragazze, era la mia unica fonte di gioia, poi dai 16 ai 18 una sequenza di eventi mi ha messo in crisi. Separazione dei genitori, mia sorella se n’è andata, lasciato dalla ragazza (con la quale avevo un rapporto da un anno e che amavo infinitamente e che mi ha permesso di godere del sesso), malattia incurabile di mio padre, malattia incurabile di mia zia accudita da mia madre, pian piano ho perso tutti gli amici, al compimento del 18esimo anno di età mio padre ha smesso di passare il mensile a mia madre e da una situazione economica agiata ci siamo ritrovati a non avere di che mangiare e meno male che qualche anima pia ci portava delle provviste, poi mia madre ha cominciato a lavorare nelle famiglie. Anch’io ho cominciato a cercare lavoro, e ho trovato dei lavoretti mal adattandomi a quello che c’era. C’era in me tanta frustrazione e senso di svalutazione, ma soprattutto tanta solitudine e le giornate erano di una sofferenza terribile. Rimpiangevo costantemente la ragazza e gli amici perduti, dai quali mi sono sentito tradito e abbandonato. In quello stato emotivo ho conosciuto una ragazza, un po’ carina, ma che non sentivo adatta a me, che non amavo, ma che ha colmato un po’ la solitudine. Assieme a lei ho cominciato a frequentare delle compagnie che non sentivo adatte a me e che col tempo hanno minato la mia già bassa autostima, ho cominciato a bere e a vivere degli episodi di angoscia. Ho cominciato ad avere disturbi fisici, paura delle malattie incurabili, passavo ore e ore a consultare enciclopedie mediche e poi per trovare rassicurazioni andavo dal medico, dal quale trovavo un sollievo solo momentaneo, perché i disturbi non se ne andavano, perdendo fiducia nei farmaci prima, e nei medici poi. Non mi sentivo più socialmente adeguato a ristabilire relazioni soddisfacenti, ma sono fuggito dalle relazioni che non sopportavo più e mi facevano sentire un disgraziato. Sono rimasto con la ragazza, questo sì, perché di rimanere solo proprio lo sopportavo. Poi a 20anni finalmente ho trovato un lavoro dignitoso nel settore pubblico anche se non inerente le mie aspirazioni(nel frattempo ho chiuso con l’alcool), che mi ha ridato un po’ fiducia nelle mie capacità intellettive, ma in quelle relazionali no. Io e la mia ragazza abbiamo cominciato a frequentare altre coppie di coetanei, ma avevo difficoltà di vario tipo, amicizie del mio ceto sociale d’origine non erano più compatibili con la mia autostima ed anche la mia ragazza si sarebbe sentita fuori posto, ma era per me inaccettabile frequentare stabilmente persone dedite al dialogo sterile e volgare sostenuto dalle bestemmie. Quindi in qualche modo si è trovata la via di mezzo, ma l’ansia per i miei disturbi fisici e quelli connessi all’alimentazione per preservare la salute, ma anche la paura del rifiuto sono sempre stati di intralcio alla continuità delle relazioni. I disturbi fisici di vario tipo hanno poi coinvolto anche la sfera sessuale, di nuovo esami e visite mediche senza esito, ma questo non ha fatto che aumentare l’incertezza nella fiducia nella medicina ed il timore di essere ammalato e quindi di essere per questo abbandonato. Quindi ho vissuto nel totale silenzio questo tormento, con il disappunto della mia ragazza che cominciava a spazientirsi per le sue rinunce. Ho cercato rimedio nella medicina e alimentazione alternativa, documentandomi ossessivamente, ma questo non ha fatto altro che aumentare i problemi, trovando nell’alimentazione orientale macrobiotica un abisso incolmabile con la nostra cultura e tradizione, aggiungendo altra frustrazione mangiando cose schifose o senza gusto, ma se questo doveva servire alla salute…mi sono piegato. Dimagrito, stressato, ansioso, infelice della mia relazione ma nel contempo dipendente, in prossimità dei 26anni sono affiorati gli attacchi di panico. Il meccanismo era questo: al mattino dopo un’ora o due dal risveglio cominciavo a sentire fame, questo segnale veniva percepito come indicatore di malattia, quindi nell’assenza di fame c’era la tranquillità, quindi mangiare voleva dire riconoscere di essere malato, tenere duro era l’obbiettivo per valutare lo stato di salute, poi il buco nello stomaco, la debolezza, cominciava l’inquietudine, la tachicardia, l’ansia, i tremori, la sudorazione, paura di svenimento o morte. Sono andato avanti così per 2/3 anni, trovando una specie di equilibrio in una routine rassicurante che vacillava ogni qualvolta mi trovavo a dover affrontare situazioni che l’avrebbero spezzato, o nelle uscite fuori città. Accadde che un giorno, all’ennesimo attacco, stanco e sfinito mi sono arreso e mi sono detto: che cosa può succedermi adesso? Muoio? Ok, chi se ne frega, sono pronto, mi arrendo, morte vieni pure. Ne ero convinto. Mi sono sentito sereno, il panico se n’era andato, quella fame orribile si era trasformata in qualcosa di accoglibile e da soddisfare con piacere.
Questo evento è stato significativo, ma non completamente risolutivo. Ho capito che la situazione che vivevo non era reale ma alimentata da un mio processo distorto. Altri episodi mi hanno ricondotto a sfiorare il panico, ma non l’ho raggiunto completamente, perché arrivato al culmine mi dicevo “so cos’è” l’ho sperimentato. Tuttavia questo non è stato sufficiente per ristabilire o mantenere relazioni sociali, continuando a limitare o rifiutare gli spostamenti fuori città, gli inviti in qualche modo collegati al cibo, addirittura quelli al bar, rinchiudendomi nella ristrettezza degli orari stabiliti, dei cibi “sicuri” e dell’ambiente domestico. Grossi conflitti sull’alimentazione sono emersi nei rapporti con mia madre prima e con la mia compagna poi (diventata poi convivente in un’altra casa).
Il rapporto conflittuale con la mia compagna, le difficoltà di relazione amicale con gli altri riassumibili in: senso di inadeguatezza, paura del rifiuto, imbarazzo per i limiti dovuti all’alimentazione, mi hanno convinto di cercare di vivere la vità con più razionalità possibile ed una certa quota di cinismo verso i disagi emotivi (difficile).
Quando la mia compagna ha deciso di rimanere incinta e di portare avanti la gravidanza io sono andato in crisi profonda perché non la vedevo adatta a crescere mio figlio e non m’era piaciuto per niente il fatto di essere stato escluso dalla decisione, mi ha detto categoricamente questa è una mia scelta, tu puoi fare quello che vuoi, al figlio ci posso pensare io. Dopo un mese la sofferenza mi ha condotto dal medico di famiglia, che dopo la visita, mi ha detto: non può ridursi in questo stato, molli tutto, guardi che rischia grosso, se si rifiuta di prendere questi farmaci c’è il rischio che debba ricorrere al ricovero. L’idea di mollare tutto la trovavo immorale, ancor più dell’essere stato escluso dalla decisione di paternità. I farmaci non li ho presi ma mi sono rivolto ad una psicoterapeuta che mi ha accolto molto bene, ma sfortunatamente ha dovuto abbandonarmi quasi subito per problemi personali proponendomi di continuare con una collega. Non volevo altri e ho mollato. Intanto l’idea di avere un figlio è diventata pian piano accettabile e mi sono sentito meglio. Ho atteso anch’io con felicità questo evento. Quando è nato sono stato molto contento ed è cominciata per me una nuova vita. Il rapporto con la mia compagna ha cominciato ad avere un senso, e la vita è diventata meno vuota. Occuparmi di mio figlio in modo diretto, quotidianamente, mi dava serenità, ho accantonato anche gli hobbies per non portare via a lui del tempo. Per diversi anni non ho sentito il bisogno d’altro, il lavoro (informatico), che anch’esso per un certo periodo mi aveva creato dei problemi, ha avuto degli sbocchi imprevisti e positivi che mi hanno consentito di valorizzarmi di più in un settore più dinamico, creativo e aperto alle relazioni sociali adatto alle mie attitudini e aspirazioni. Le relazioni in ambito lavorativo ovviamente, per loro natura, non avevano nessun coinvolgimento emotivo e questo mi andava più che bene. La mia mente era sempre occupata tra casa e lavoro, anche se sotto sotto i miei conflitti, paure e desideri insoddisfatti c’erano sempre, ma accuratamente coperti.
Ebbene, ora a causa di una riorganizzazione in ambito lavorativo che mi ha praticamente tolto le mie mansioni, il mio ruolo, la mia identità ha cominciato a vacillare, nel contempo mio figlio è diventato un adolescente e reclama giustamente la sua libertà ed io sento che si avvicina un ritorno alla vita di coppia. Mi è crollato tutto. Non so più cosa fare nella vita.
Dr. Santonocito, più paura o più indecisione? Direi entrambe le cose.
“Ha sofferto in passato, di disturbi dell'umore?”
Anche se a volte ne ho sentito parlare non so bene cosa siano, so che da bambino mi dicevano spesso che sono lunatico, ma ricordo che cerano dei motivi per avere “la luna”. I miei non si parlavano e rompevano il muro di silenzio solo per litigare. Non dovevo chiedere nulla perché chiedere “non stà bene”, se stavo male era meglio che non lo dicessi per non fare arrabbiare o agitare mia madre, mi sentivo messo da parte, diceva che ero cattivo o idiota, alternava. Dai 6 ai 8 anni quando ho potuto stare con dei coetanei a scuola mi si raccomandava di non fare amicizie perché portano solo problemi.
Dagli 8 anni in poi finalmente ho cominciato a stare con dei coetanei perché avendo cambiato casa dove c’erano spazi aperti nella natura, ho avuto la possibilità di socializzare un po’. Non mi piaceva andare a scuola e sarei stato solo con loro.
“Ci parla di quanto correla con la dimensione del "dovere", non del "piacere".”
E’ vero, sono cresciuto con il senso del dovere, che a volte odio, ma forse ne sono anche schiavo. Il piacere mi è stato insegnato che non è importante, anzi, una cosa per i poveri di spirito.
“anch'io le chiedo come vive le relazioni con gli altri”
Dagli 8 anni fino a metà adolescenza mi piaceva molto stare con i ragazzi e ragazze, era la mia unica fonte di gioia, poi dai 16 ai 18 una sequenza di eventi mi ha messo in crisi. Separazione dei genitori, mia sorella se n’è andata, lasciato dalla ragazza (con la quale avevo un rapporto da un anno e che amavo infinitamente e che mi ha permesso di godere del sesso), malattia incurabile di mio padre, malattia incurabile di mia zia accudita da mia madre, pian piano ho perso tutti gli amici, al compimento del 18esimo anno di età mio padre ha smesso di passare il mensile a mia madre e da una situazione economica agiata ci siamo ritrovati a non avere di che mangiare e meno male che qualche anima pia ci portava delle provviste, poi mia madre ha cominciato a lavorare nelle famiglie. Anch’io ho cominciato a cercare lavoro, e ho trovato dei lavoretti mal adattandomi a quello che c’era. C’era in me tanta frustrazione e senso di svalutazione, ma soprattutto tanta solitudine e le giornate erano di una sofferenza terribile. Rimpiangevo costantemente la ragazza e gli amici perduti, dai quali mi sono sentito tradito e abbandonato. In quello stato emotivo ho conosciuto una ragazza, un po’ carina, ma che non sentivo adatta a me, che non amavo, ma che ha colmato un po’ la solitudine. Assieme a lei ho cominciato a frequentare delle compagnie che non sentivo adatte a me e che col tempo hanno minato la mia già bassa autostima, ho cominciato a bere e a vivere degli episodi di angoscia. Ho cominciato ad avere disturbi fisici, paura delle malattie incurabili, passavo ore e ore a consultare enciclopedie mediche e poi per trovare rassicurazioni andavo dal medico, dal quale trovavo un sollievo solo momentaneo, perché i disturbi non se ne andavano, perdendo fiducia nei farmaci prima, e nei medici poi. Non mi sentivo più socialmente adeguato a ristabilire relazioni soddisfacenti, ma sono fuggito dalle relazioni che non sopportavo più e mi facevano sentire un disgraziato. Sono rimasto con la ragazza, questo sì, perché di rimanere solo proprio lo sopportavo. Poi a 20anni finalmente ho trovato un lavoro dignitoso nel settore pubblico anche se non inerente le mie aspirazioni(nel frattempo ho chiuso con l’alcool), che mi ha ridato un po’ fiducia nelle mie capacità intellettive, ma in quelle relazionali no. Io e la mia ragazza abbiamo cominciato a frequentare altre coppie di coetanei, ma avevo difficoltà di vario tipo, amicizie del mio ceto sociale d’origine non erano più compatibili con la mia autostima ed anche la mia ragazza si sarebbe sentita fuori posto, ma era per me inaccettabile frequentare stabilmente persone dedite al dialogo sterile e volgare sostenuto dalle bestemmie. Quindi in qualche modo si è trovata la via di mezzo, ma l’ansia per i miei disturbi fisici e quelli connessi all’alimentazione per preservare la salute, ma anche la paura del rifiuto sono sempre stati di intralcio alla continuità delle relazioni. I disturbi fisici di vario tipo hanno poi coinvolto anche la sfera sessuale, di nuovo esami e visite mediche senza esito, ma questo non ha fatto che aumentare l’incertezza nella fiducia nella medicina ed il timore di essere ammalato e quindi di essere per questo abbandonato. Quindi ho vissuto nel totale silenzio questo tormento, con il disappunto della mia ragazza che cominciava a spazientirsi per le sue rinunce. Ho cercato rimedio nella medicina e alimentazione alternativa, documentandomi ossessivamente, ma questo non ha fatto altro che aumentare i problemi, trovando nell’alimentazione orientale macrobiotica un abisso incolmabile con la nostra cultura e tradizione, aggiungendo altra frustrazione mangiando cose schifose o senza gusto, ma se questo doveva servire alla salute…mi sono piegato. Dimagrito, stressato, ansioso, infelice della mia relazione ma nel contempo dipendente, in prossimità dei 26anni sono affiorati gli attacchi di panico. Il meccanismo era questo: al mattino dopo un’ora o due dal risveglio cominciavo a sentire fame, questo segnale veniva percepito come indicatore di malattia, quindi nell’assenza di fame c’era la tranquillità, quindi mangiare voleva dire riconoscere di essere malato, tenere duro era l’obbiettivo per valutare lo stato di salute, poi il buco nello stomaco, la debolezza, cominciava l’inquietudine, la tachicardia, l’ansia, i tremori, la sudorazione, paura di svenimento o morte. Sono andato avanti così per 2/3 anni, trovando una specie di equilibrio in una routine rassicurante che vacillava ogni qualvolta mi trovavo a dover affrontare situazioni che l’avrebbero spezzato, o nelle uscite fuori città. Accadde che un giorno, all’ennesimo attacco, stanco e sfinito mi sono arreso e mi sono detto: che cosa può succedermi adesso? Muoio? Ok, chi se ne frega, sono pronto, mi arrendo, morte vieni pure. Ne ero convinto. Mi sono sentito sereno, il panico se n’era andato, quella fame orribile si era trasformata in qualcosa di accoglibile e da soddisfare con piacere.
Questo evento è stato significativo, ma non completamente risolutivo. Ho capito che la situazione che vivevo non era reale ma alimentata da un mio processo distorto. Altri episodi mi hanno ricondotto a sfiorare il panico, ma non l’ho raggiunto completamente, perché arrivato al culmine mi dicevo “so cos’è” l’ho sperimentato. Tuttavia questo non è stato sufficiente per ristabilire o mantenere relazioni sociali, continuando a limitare o rifiutare gli spostamenti fuori città, gli inviti in qualche modo collegati al cibo, addirittura quelli al bar, rinchiudendomi nella ristrettezza degli orari stabiliti, dei cibi “sicuri” e dell’ambiente domestico. Grossi conflitti sull’alimentazione sono emersi nei rapporti con mia madre prima e con la mia compagna poi (diventata poi convivente in un’altra casa).
Il rapporto conflittuale con la mia compagna, le difficoltà di relazione amicale con gli altri riassumibili in: senso di inadeguatezza, paura del rifiuto, imbarazzo per i limiti dovuti all’alimentazione, mi hanno convinto di cercare di vivere la vità con più razionalità possibile ed una certa quota di cinismo verso i disagi emotivi (difficile).
Quando la mia compagna ha deciso di rimanere incinta e di portare avanti la gravidanza io sono andato in crisi profonda perché non la vedevo adatta a crescere mio figlio e non m’era piaciuto per niente il fatto di essere stato escluso dalla decisione, mi ha detto categoricamente questa è una mia scelta, tu puoi fare quello che vuoi, al figlio ci posso pensare io. Dopo un mese la sofferenza mi ha condotto dal medico di famiglia, che dopo la visita, mi ha detto: non può ridursi in questo stato, molli tutto, guardi che rischia grosso, se si rifiuta di prendere questi farmaci c’è il rischio che debba ricorrere al ricovero. L’idea di mollare tutto la trovavo immorale, ancor più dell’essere stato escluso dalla decisione di paternità. I farmaci non li ho presi ma mi sono rivolto ad una psicoterapeuta che mi ha accolto molto bene, ma sfortunatamente ha dovuto abbandonarmi quasi subito per problemi personali proponendomi di continuare con una collega. Non volevo altri e ho mollato. Intanto l’idea di avere un figlio è diventata pian piano accettabile e mi sono sentito meglio. Ho atteso anch’io con felicità questo evento. Quando è nato sono stato molto contento ed è cominciata per me una nuova vita. Il rapporto con la mia compagna ha cominciato ad avere un senso, e la vita è diventata meno vuota. Occuparmi di mio figlio in modo diretto, quotidianamente, mi dava serenità, ho accantonato anche gli hobbies per non portare via a lui del tempo. Per diversi anni non ho sentito il bisogno d’altro, il lavoro (informatico), che anch’esso per un certo periodo mi aveva creato dei problemi, ha avuto degli sbocchi imprevisti e positivi che mi hanno consentito di valorizzarmi di più in un settore più dinamico, creativo e aperto alle relazioni sociali adatto alle mie attitudini e aspirazioni. Le relazioni in ambito lavorativo ovviamente, per loro natura, non avevano nessun coinvolgimento emotivo e questo mi andava più che bene. La mia mente era sempre occupata tra casa e lavoro, anche se sotto sotto i miei conflitti, paure e desideri insoddisfatti c’erano sempre, ma accuratamente coperti.
Ebbene, ora a causa di una riorganizzazione in ambito lavorativo che mi ha praticamente tolto le mie mansioni, il mio ruolo, la mia identità ha cominciato a vacillare, nel contempo mio figlio è diventato un adolescente e reclama giustamente la sua libertà ed io sento che si avvicina un ritorno alla vita di coppia. Mi è crollato tutto. Non so più cosa fare nella vita.
Dr. Santonocito, più paura o più indecisione? Direi entrambe le cose.
[#6]
Da ciò che dice è probabile che il suo problema consista nell'aver vissuto finora una vita schiavo dei doveri, con poco spazio per i voleri. Per questo, si trova nella posizione di chi ha paura del tempo che passa perché si rende conto che continuando così rischia di sprecarne altro, al limite tutto quello che ancora gli resta.
Non è facile cambiare ricevendo pareri e "consigli" a distanza, o cercando di "capire". Ma potrebbe essere relativamente più semplice iniziare rivolgendosi a uno psicologo di persona, magari che usi un approccio attivo e che l'aiuti più a fare (cose diverse) che a capire. Infatti, quando si è tutti presi all'interno della propria testa e del proprio senso del dovere, è spesso forte la tentazione di dire a se stessi: "Se riesco a capire perché, riuscirò a cambiare le cose". Invece il "trucco" per uscire dalla paura e dalle preoccupazioni consiste nel fare cose nuove, un poco per volta, aiutati eventualmente da uno specialista.
Non è facile cambiare ricevendo pareri e "consigli" a distanza, o cercando di "capire". Ma potrebbe essere relativamente più semplice iniziare rivolgendosi a uno psicologo di persona, magari che usi un approccio attivo e che l'aiuti più a fare (cose diverse) che a capire. Infatti, quando si è tutti presi all'interno della propria testa e del proprio senso del dovere, è spesso forte la tentazione di dire a se stessi: "Se riesco a capire perché, riuscirò a cambiare le cose". Invece il "trucco" per uscire dalla paura e dalle preoccupazioni consiste nel fare cose nuove, un poco per volta, aiutati eventualmente da uno specialista.
[#7]
"Ebbene, ora a causa di una riorganizzazione in ambito lavorativo che mi ha praticamente tolto le mie mansioni, il mio ruolo, la mia identità ha cominciato a vacillare..."
Probabilmente a causa di diversi fattori concomitanti, Lei si è rifugiato nel lavoro, nell'accudimento di Suo figlio e in quelle attività che La costringevano ad avere un ruolo che in qualche modo, tenendoLa occupato, La rassicurava.
Le relazioni invece sono un punto critico, sia perchè non ha mai appreso determinate abilità sociali sin da bambino, sia perchè viste in qualche modo come minacciose (questo era proprio ciò che i Suoi genitori Le dicevano, cioè che portano guai).
Ora che il figlio è sempre meno dipendente da Lei e che anche al lavoro ci sono stati grandi cambiamenti, Lei è costretto a rivedersi.
In questo senso è propabile che il precedente equilibrio che aveva trovato, ora non ci sia più e che Lei abbia bisogno di ripristinarne un altro, più funzionale e adattivo.
D'altra parte eventi che accadono attorno a noi possono costringerci a cambiare. Una persona flessibile è in grado di superare queste crisi, evitando di irrigidirsi sulle proprie posizioni.
Un cordiale saluto,
Probabilmente a causa di diversi fattori concomitanti, Lei si è rifugiato nel lavoro, nell'accudimento di Suo figlio e in quelle attività che La costringevano ad avere un ruolo che in qualche modo, tenendoLa occupato, La rassicurava.
Le relazioni invece sono un punto critico, sia perchè non ha mai appreso determinate abilità sociali sin da bambino, sia perchè viste in qualche modo come minacciose (questo era proprio ciò che i Suoi genitori Le dicevano, cioè che portano guai).
Ora che il figlio è sempre meno dipendente da Lei e che anche al lavoro ci sono stati grandi cambiamenti, Lei è costretto a rivedersi.
In questo senso è propabile che il precedente equilibrio che aveva trovato, ora non ci sia più e che Lei abbia bisogno di ripristinarne un altro, più funzionale e adattivo.
D'altra parte eventi che accadono attorno a noi possono costringerci a cambiare. Una persona flessibile è in grado di superare queste crisi, evitando di irrigidirsi sulle proprie posizioni.
Un cordiale saluto,
[#8]
Ex utente
"D'altra parte eventi che accadono attorno a noi possono costringerci a cambiare. Una persona flessibile è in grado di superare queste crisi, evitando di irrigidirsi sulle proprie posizioni."
Probabilmente ha ragione, ci vorrebbe più flessibilità, ma il problema è che non si tratta di adattarsi a fare altro, ma a non fare niente, sono costretto a non lavorare. Certo di questi tempi avere uno stipendio è già molto, ma non avere più una mansione e quindi senza un ruolo le assicuro che è dura.
Un cordiale saluto.
Probabilmente ha ragione, ci vorrebbe più flessibilità, ma il problema è che non si tratta di adattarsi a fare altro, ma a non fare niente, sono costretto a non lavorare. Certo di questi tempi avere uno stipendio è già molto, ma non avere più una mansione e quindi senza un ruolo le assicuro che è dura.
Un cordiale saluto.
[#9]
"non avere più una mansione e quindi senza un ruolo le assicuro che è dura."
Non ne dubito. Oltre allo stipendio, il lavoro -come Lei ha ben sottolineato- soddisfa altri bisogni, tra cui quello di socializzazione, di potere, di autorealizzazione, ecc... Anche il fatto di confrontarsi ogni giorno con frustrazioni quali alzarsi presto per andare al lavoro e fare fatica mentre si lavora contribuiscono a dare un senso e un significato.
L'azienda per cui lavora non ha attivato un percorso di outplacement per i dipendenti?
Non ne dubito. Oltre allo stipendio, il lavoro -come Lei ha ben sottolineato- soddisfa altri bisogni, tra cui quello di socializzazione, di potere, di autorealizzazione, ecc... Anche il fatto di confrontarsi ogni giorno con frustrazioni quali alzarsi presto per andare al lavoro e fare fatica mentre si lavora contribuiscono a dare un senso e un significato.
L'azienda per cui lavora non ha attivato un percorso di outplacement per i dipendenti?
[#11]
Ex utente
Dr. Santonocito La ringrazio per il Suo contributo e penso potrà essere utile seguire il Suo consiglio. Mi dice di chiedere aiuto ad uno psicologo, è necessario che sia anche psicoterapeuta o nel mio caso è sufficiente un aiuto, un sostegno? Quale approccio potrebbe essere più adatto al mio caso? Sicuramente non ho intenzione di andare a fare lavori di scavo tra le schifezze del passato, già a scrivere quello che ho scritto non mi ha fatto bene...
Grazie.
Grazie.
[#12]
Sembrerebbe più indicato uno psicoterapeuta. Scegliendo ad es. uno strategico non dovrebbe essere necessario scavare nel passato per il problema apparentemente descritto. Il lavoro consisterà soprattutto nel prendere coscienza del punto in cui si trova adesso, e procedere da lì.
[#13]
Ha ragione! Mi era sfuggito questo dettaglio...
In effetti potrebbe esserLe essere utile un intervento molto pragmatico, dal momento che pare che la crisi sia stata generata soprattutto dal momento difficile al lavoro ("...ora a causa di una riorganizzazione in ambito lavorativo che mi ha praticamente tolto le mie mansioni, il mio ruolo, la mia identità ha cominciato a vacillare... Mi è crollato tutto. Non so più cosa fare nella vita...").
E' molto probabile che intervenendo solo su questo aspetto sarà possibile per Lei trovare un equilibrio più funzionale e un senso. In genere ciò che funziona e molto bene, non viene toccato in un percorso psicologico.
Era proprio per questa ragione che Le avrei suggerito un percorso di outplacement o comunque ben definito per superare questa crisi.
Se vuole, ci faccia sapere in futuro.
Buona giornata,
In effetti potrebbe esserLe essere utile un intervento molto pragmatico, dal momento che pare che la crisi sia stata generata soprattutto dal momento difficile al lavoro ("...ora a causa di una riorganizzazione in ambito lavorativo che mi ha praticamente tolto le mie mansioni, il mio ruolo, la mia identità ha cominciato a vacillare... Mi è crollato tutto. Non so più cosa fare nella vita...").
E' molto probabile che intervenendo solo su questo aspetto sarà possibile per Lei trovare un equilibrio più funzionale e un senso. In genere ciò che funziona e molto bene, non viene toccato in un percorso psicologico.
Era proprio per questa ragione che Le avrei suggerito un percorso di outplacement o comunque ben definito per superare questa crisi.
Se vuole, ci faccia sapere in futuro.
Buona giornata,
Questo consulto ha ricevuto 14 risposte e 10.5k visite dal 03/11/2012.
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