Voglia di tornare a casa dopo 8 anni
Gentili dottori,
Vi scrivo perché sto attraversando un periodo difficile in cui non riesco a comprendere in che direzione andare.
Sono una ragazza di 27 anni, da quando ho 19 anni vivo fuori casa, per i primi 6 in una città che ho amato e in cui mi sentivo a casa, ho vissuto con dei coinquilini con cui ho instaurato bellissimi rapporti di amicizia, tanto che tornare a casa dalla mia famiglia era quasi un dovere, tanto stavo bene nel posto in cui vivevo.
In quegli anni ho anche conosciuto il mio attuale ragazzo con cui sto da 5 anni.
Una volta terminata la laurea triennale ho deciso di continuare con la magistrale ma in un'altra città.
Dal momento che il mio ragazzo poteva seguirmi lavorando da casa, ci siamo trasferiti insieme e quindi siamo andati a convivere in questa nuova città.
La casa scelta già all'inizio non mi era piaciuta molto per l'incontro con il vicino che non mi ispirava fiducia; nonostante ciò per il primo anno e mezzo è andato tutto abbastanza bene, anche se la nostalgia per la mia vita prima del trasferimento era tantissima: mi mancava la città, i miei coinquilini, i miei amici.
Da qualche mese effettivamente la situazione con i vicini è peggiorata: lui si è dimostrato un violento con la compagna, urlano tutto il giorno dalla mattina alla sera e ciò mi ha fatto venire una grandissima angoscia.
Da quando sono iniziati questi problemi la mia ansia è fuori controllo, faccio fatica a mangiare, a studiare, e nonostante abbiamo trovato una nuova casa in cui trasferirci ho paura di sbagliare di nuovo.
In questi mesi torno spesso a casa dai miei, casa che ora sento come il mio rifugio sicuro dove riesco a rilassarmi, in cui sto bene, riesco a mangiare, concentrarmi sullo studio.
Quando devo tornare a casa nella mia città, dove c'è il mio ragazzo ad aspettarmi, mi assale l'angoscia: piango per tutto il viaggio pensando a quanto sto bene dalla mia famiglia nel mio paese di origine a cui sono molto legata.
In realtà, mi manca solo un anno per completare gli studi: ho pensato pure di mollare tutto, tornare a vivere da mia madre e trovarmi una stanza solo per il periodo del tirocinio (6/8 mesi): questo però vorrebbe dire interrompere la convivenza con il mio ragazzo, costringendolo a tornare a casa da suoi genitori (non può permettersi di vivere da solo) e lui questo non lo vorrebbe.
Lui è contento di aver trovato una nuova casa in cui trasferirci, io però ho troppa paura di portarmi questo malessere dietro, che anche cambiando casa l'angoscia non finirà, di trovare altri vicini problematici, che continuerà a mancarmi casa.
Non mi sono mai sentita così in 8 anni che vivo lontana da casa, a volte mi sento solo una ragazzina che fa i "capricci" e che non è capace di stringere i denti in un momento complicato.
Scusate il messaggio molto lungo, spero possiate darmi un consiglio
Grazie di cuore
Vi scrivo perché sto attraversando un periodo difficile in cui non riesco a comprendere in che direzione andare.
Sono una ragazza di 27 anni, da quando ho 19 anni vivo fuori casa, per i primi 6 in una città che ho amato e in cui mi sentivo a casa, ho vissuto con dei coinquilini con cui ho instaurato bellissimi rapporti di amicizia, tanto che tornare a casa dalla mia famiglia era quasi un dovere, tanto stavo bene nel posto in cui vivevo.
In quegli anni ho anche conosciuto il mio attuale ragazzo con cui sto da 5 anni.
Una volta terminata la laurea triennale ho deciso di continuare con la magistrale ma in un'altra città.
Dal momento che il mio ragazzo poteva seguirmi lavorando da casa, ci siamo trasferiti insieme e quindi siamo andati a convivere in questa nuova città.
La casa scelta già all'inizio non mi era piaciuta molto per l'incontro con il vicino che non mi ispirava fiducia; nonostante ciò per il primo anno e mezzo è andato tutto abbastanza bene, anche se la nostalgia per la mia vita prima del trasferimento era tantissima: mi mancava la città, i miei coinquilini, i miei amici.
Da qualche mese effettivamente la situazione con i vicini è peggiorata: lui si è dimostrato un violento con la compagna, urlano tutto il giorno dalla mattina alla sera e ciò mi ha fatto venire una grandissima angoscia.
Da quando sono iniziati questi problemi la mia ansia è fuori controllo, faccio fatica a mangiare, a studiare, e nonostante abbiamo trovato una nuova casa in cui trasferirci ho paura di sbagliare di nuovo.
In questi mesi torno spesso a casa dai miei, casa che ora sento come il mio rifugio sicuro dove riesco a rilassarmi, in cui sto bene, riesco a mangiare, concentrarmi sullo studio.
Quando devo tornare a casa nella mia città, dove c'è il mio ragazzo ad aspettarmi, mi assale l'angoscia: piango per tutto il viaggio pensando a quanto sto bene dalla mia famiglia nel mio paese di origine a cui sono molto legata.
In realtà, mi manca solo un anno per completare gli studi: ho pensato pure di mollare tutto, tornare a vivere da mia madre e trovarmi una stanza solo per il periodo del tirocinio (6/8 mesi): questo però vorrebbe dire interrompere la convivenza con il mio ragazzo, costringendolo a tornare a casa da suoi genitori (non può permettersi di vivere da solo) e lui questo non lo vorrebbe.
Lui è contento di aver trovato una nuova casa in cui trasferirci, io però ho troppa paura di portarmi questo malessere dietro, che anche cambiando casa l'angoscia non finirà, di trovare altri vicini problematici, che continuerà a mancarmi casa.
Non mi sono mai sentita così in 8 anni che vivo lontana da casa, a volte mi sento solo una ragazzina che fa i "capricci" e che non è capace di stringere i denti in un momento complicato.
Scusate il messaggio molto lungo, spero possiate darmi un consiglio
Grazie di cuore
[#1]
Gentile utente,
forse per lei, come per tanti, la convivenza è un'arma a doppio taglio, che andrebbe gestita con cura.
La convivenza in certi casi è un'auspicabile prova generale del matrimonio, ma questo quando la coppia, adulta e matura, autosufficiente nei mezzi di sopravvivenza, intenzionata a restare insieme come un tempo si diceva "per tutta la vita", vuole sperimentare la propria capacità di accordo in una condizione diversa da quella del fidanzamento, nella gestione degli impegni comuni: conduzione della casa, pasti, bollette da pagare, etc.
In questo caso la convivenza permette di mettere alla prova la stabilità dei sentimenti, le abitudini, l'attitudine a scontrarsi e a mediare, insomma quasi tutte le doti che poi occorreranno per portare avanti un matrimonio, evitando le spese, economiche, giuridiche ed emotive del matrimonio vero a proprio e di un eventuale divorzio.
Ma una volta che è stata socialmente sdoganata quella convivenza che si realizzava tra adulti autosufficienti, ne sono cominciate di altro tipo:
- I due fidanzatini anche se hanno vent'anni non si lasciano mai, mentre dovrebbero costruirsi un futuro di studio e di lavoro, sperimentare amicizie, interessi e hobby; vivono a casa dei familiari talvolta alternandosi tra l'una e l'altra famiglia e dichiarano "già conviviamo", mentre della condizione adulta non conoscono nulla. Sono ancora del tutto legati alla famiglia d'origine, dilatano un'adolescenza che risulta iper-protetta e rimandano indefinitamente il momento del distacco dai genitori e l'assunzione di responsabilità.
- I due fidanzati vivono in una casa e in una città diversa da quella dei genitori, ma a spese di questi ultimi. Anche in questo caso dichiarano di convivere, ma non stanno assumendone le fondamentali responsabilità, stanno approfittando della situazione privilegiata dello studente fuorisede, che fa provare un'apparente autonomia, ma senza il peso del lavoro e la responsabilità del guadagno, e prevede il ritorno periodico "a casa", dove per "casa" s'intende ancora quella dei genitori.
- I due vanno a vivere nella casa di un genitore, spesso vicina a quella "di famiglia", sentendosi sempre ospiti, con obblighi di riconoscenza che a volte si spingono fino a lasciare ai genitori le proprie chiavi e a permetterne la presenza in casa ad arbitrio.
- I due vanno a vivere insieme perché si trovano nella stessa città per ragioni di lavoro. Questa può essere la condizione più ambigua: alla base c'è un rapporto appena iniziato, nessun impegno reciproco, solo un problema di opportunità economica che viene scambiato talvolta da uno solo dei due come la premessa di una relazione solida.
- Uno dei due accetta di andare a vivere nella casa da single dell'altro/a, già strutturata da anni, e a spese sue. A volte questa situazione, che ricalca quella arcaica delle mogli che non lavorano, riesce ad evolversi; a volte si irrigidisce nel sentirsi ospiti in una casa dove non si ha diritto di cambiare nulla. Ancora peggiore può essere la relazione quando ad avere mezzi insufficienti è l'uomo. Al contrario di quella che avrebbe potuto essere l'auspicata "parità", oggi più di ieri molte donne ritengono che il tenore di vita debba essere garantito dall'uomo, e lo considerano un partner "transitorio" se non ne è capace.
Venendo al caso che lei ci propone, gentile utente, lei ha vissuto sei anni bellissimi per esperienze di studio, di armonica convivenza con coetanei, di autonomia "protetta". In quegli anni ha anche incontrato l'amore (lui pure studente fuorisede?) e a quel che pare si è potuta concedere di dilatare il triennio universitario in ben sei anni.
In pratica, ha sperimentato l'eden desiderato da ogni adolescente che abbia una famiglia benevola e dotata di ampi mezzi alle spalle.
Poi ha deciso di cambiare città (perché?), sempre a spese della famiglia d'origine, e ha portato con sé un fidanzato che lavorando da casa poteva esserle di compagnia, anche se il lavoro che fa, lei scrive, non gli permetterebbe di vivere da solo.
In pratica, una situazione protetta, per tutti e due, ma questa volta fuori tempo massimo per lei, che forse percepisce di starsi assumendo impegni non del tutto graditi... ma a quel che sembra, nel pieno gradimento di uno solo dei due: il suo ragazzo.
Per lei, al contrario, la nuova città, la casa, il vicino litigioso, e diciamo pure, coraggiosamente: la convivenza col suo ragazzo, sono diventati fonte d'angoscia. Forse non era pronta a questa condizione di coppia, tanto che adesso torna col desiderio non all'adolescenza (la casa dove ha vissuto come studentessa per sei anni) ma addirittura all'infanzia: il paese e la famiglia d'origine.
Ha ragione: non è cambiando casa che risolverà il problema. Direi che deve guardare con molto coraggio e molta fermezza dentro di sé.
Qualche colloquio con un* psicolog* l'aiuterebbe a sviscerare senza inutili sensi di colpa, paure e vergogne la realtà dei suoi desideri.
Tutte le volte che ci imponiamo rigidamente qualcosa, senza nemmeno esserne consapevoli, la nostra psiche e il nostro corpo reagiscono. Prova ne è la condizione fisica che lei descrive nella precedente lettera che ha inviato a questa piattaforma.
Buone cose.
forse per lei, come per tanti, la convivenza è un'arma a doppio taglio, che andrebbe gestita con cura.
La convivenza in certi casi è un'auspicabile prova generale del matrimonio, ma questo quando la coppia, adulta e matura, autosufficiente nei mezzi di sopravvivenza, intenzionata a restare insieme come un tempo si diceva "per tutta la vita", vuole sperimentare la propria capacità di accordo in una condizione diversa da quella del fidanzamento, nella gestione degli impegni comuni: conduzione della casa, pasti, bollette da pagare, etc.
In questo caso la convivenza permette di mettere alla prova la stabilità dei sentimenti, le abitudini, l'attitudine a scontrarsi e a mediare, insomma quasi tutte le doti che poi occorreranno per portare avanti un matrimonio, evitando le spese, economiche, giuridiche ed emotive del matrimonio vero a proprio e di un eventuale divorzio.
Ma una volta che è stata socialmente sdoganata quella convivenza che si realizzava tra adulti autosufficienti, ne sono cominciate di altro tipo:
- I due fidanzatini anche se hanno vent'anni non si lasciano mai, mentre dovrebbero costruirsi un futuro di studio e di lavoro, sperimentare amicizie, interessi e hobby; vivono a casa dei familiari talvolta alternandosi tra l'una e l'altra famiglia e dichiarano "già conviviamo", mentre della condizione adulta non conoscono nulla. Sono ancora del tutto legati alla famiglia d'origine, dilatano un'adolescenza che risulta iper-protetta e rimandano indefinitamente il momento del distacco dai genitori e l'assunzione di responsabilità.
- I due fidanzati vivono in una casa e in una città diversa da quella dei genitori, ma a spese di questi ultimi. Anche in questo caso dichiarano di convivere, ma non stanno assumendone le fondamentali responsabilità, stanno approfittando della situazione privilegiata dello studente fuorisede, che fa provare un'apparente autonomia, ma senza il peso del lavoro e la responsabilità del guadagno, e prevede il ritorno periodico "a casa", dove per "casa" s'intende ancora quella dei genitori.
- I due vanno a vivere nella casa di un genitore, spesso vicina a quella "di famiglia", sentendosi sempre ospiti, con obblighi di riconoscenza che a volte si spingono fino a lasciare ai genitori le proprie chiavi e a permetterne la presenza in casa ad arbitrio.
- I due vanno a vivere insieme perché si trovano nella stessa città per ragioni di lavoro. Questa può essere la condizione più ambigua: alla base c'è un rapporto appena iniziato, nessun impegno reciproco, solo un problema di opportunità economica che viene scambiato talvolta da uno solo dei due come la premessa di una relazione solida.
- Uno dei due accetta di andare a vivere nella casa da single dell'altro/a, già strutturata da anni, e a spese sue. A volte questa situazione, che ricalca quella arcaica delle mogli che non lavorano, riesce ad evolversi; a volte si irrigidisce nel sentirsi ospiti in una casa dove non si ha diritto di cambiare nulla. Ancora peggiore può essere la relazione quando ad avere mezzi insufficienti è l'uomo. Al contrario di quella che avrebbe potuto essere l'auspicata "parità", oggi più di ieri molte donne ritengono che il tenore di vita debba essere garantito dall'uomo, e lo considerano un partner "transitorio" se non ne è capace.
Venendo al caso che lei ci propone, gentile utente, lei ha vissuto sei anni bellissimi per esperienze di studio, di armonica convivenza con coetanei, di autonomia "protetta". In quegli anni ha anche incontrato l'amore (lui pure studente fuorisede?) e a quel che pare si è potuta concedere di dilatare il triennio universitario in ben sei anni.
In pratica, ha sperimentato l'eden desiderato da ogni adolescente che abbia una famiglia benevola e dotata di ampi mezzi alle spalle.
Poi ha deciso di cambiare città (perché?), sempre a spese della famiglia d'origine, e ha portato con sé un fidanzato che lavorando da casa poteva esserle di compagnia, anche se il lavoro che fa, lei scrive, non gli permetterebbe di vivere da solo.
In pratica, una situazione protetta, per tutti e due, ma questa volta fuori tempo massimo per lei, che forse percepisce di starsi assumendo impegni non del tutto graditi... ma a quel che sembra, nel pieno gradimento di uno solo dei due: il suo ragazzo.
Per lei, al contrario, la nuova città, la casa, il vicino litigioso, e diciamo pure, coraggiosamente: la convivenza col suo ragazzo, sono diventati fonte d'angoscia. Forse non era pronta a questa condizione di coppia, tanto che adesso torna col desiderio non all'adolescenza (la casa dove ha vissuto come studentessa per sei anni) ma addirittura all'infanzia: il paese e la famiglia d'origine.
Ha ragione: non è cambiando casa che risolverà il problema. Direi che deve guardare con molto coraggio e molta fermezza dentro di sé.
Qualche colloquio con un* psicolog* l'aiuterebbe a sviscerare senza inutili sensi di colpa, paure e vergogne la realtà dei suoi desideri.
Tutte le volte che ci imponiamo rigidamente qualcosa, senza nemmeno esserne consapevoli, la nostra psiche e il nostro corpo reagiscono. Prova ne è la condizione fisica che lei descrive nella precedente lettera che ha inviato a questa piattaforma.
Buone cose.
Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com
Questo consulto ha ricevuto 1 risposte e 502 visite dal 20/10/2024.
Per rispondere esegui il login oppure registrati al sito.
Per rispondere esegui il login oppure registrati al sito.