Come si decide la frequenza delle sedute?
Sono un po' confuso.
Alcuni anni fa ho provato a intraprendere una terapia.
L'analista mi chiedeva di andare 3 volte a settimana, che a me sembravano troppe sia dal punto di vista economico che dell'impegno mentale.
Quindi ho abbandonato il tentativo.
Ho ripreso circa un anno fa con un altro psicologo, che mi ha proposto di fare una seduta a settimana.
In un momento di difficoltà ho chiesto di aumentare a 2 e lo psicologo ha detto che si poteva fare, siamo andati avanti così per un mesetto finché non mi sono stabilizzato, poi siamo tornati a una.
Da circa 2 mesi lo psicologo mi a proposto di fare 2 sedute al mese.
Non ero molto dell'idea ma ho accettato.
Però non mi trovo bene, mi sembra che tutto si disperde e poi lo vivo come se io fossi un peso di cui sui vuole liberare.
gliene ho paralto ma dice che per i miei problemi una volta a settimana è troppo, e che se non mi va bene sono libero di abbandonare la terapia.
Ho chiesto maggiori spiegazioni ma non me ne ha volute dare, è stato elusivo.
Quindi mi chiedo:cosa determina la frquenza dellesedute?
perché non si riesce a trovare un compromesso mai?
uno ne vuole fare 3a settimana, l'altro 2 al mese, e io mi sneto di non contare niente.
è normale?
In quali casi è megluio fare più sedute o meno sedute?
Alcuni anni fa ho provato a intraprendere una terapia.
L'analista mi chiedeva di andare 3 volte a settimana, che a me sembravano troppe sia dal punto di vista economico che dell'impegno mentale.
Quindi ho abbandonato il tentativo.
Ho ripreso circa un anno fa con un altro psicologo, che mi ha proposto di fare una seduta a settimana.
In un momento di difficoltà ho chiesto di aumentare a 2 e lo psicologo ha detto che si poteva fare, siamo andati avanti così per un mesetto finché non mi sono stabilizzato, poi siamo tornati a una.
Da circa 2 mesi lo psicologo mi a proposto di fare 2 sedute al mese.
Non ero molto dell'idea ma ho accettato.
Però non mi trovo bene, mi sembra che tutto si disperde e poi lo vivo come se io fossi un peso di cui sui vuole liberare.
gliene ho paralto ma dice che per i miei problemi una volta a settimana è troppo, e che se non mi va bene sono libero di abbandonare la terapia.
Ho chiesto maggiori spiegazioni ma non me ne ha volute dare, è stato elusivo.
Quindi mi chiedo:cosa determina la frquenza dellesedute?
perché non si riesce a trovare un compromesso mai?
uno ne vuole fare 3a settimana, l'altro 2 al mese, e io mi sneto di non contare niente.
è normale?
In quali casi è megluio fare più sedute o meno sedute?
[#1]
Gentile utente,
la sua domanda, con le implicazioni emotive che comporta, ha come destinatario specifico il suo terapeuta.
Le parole: "Ho chiesto maggiori spiegazioni ma non me ne ha volute dare, è stato elusivo" sono estranee alla prassi terapeutica, ma forse nascono da un fraintendimento. Porti la lettera che ci ha scritto al suo curante; questo potrà aiutare a comprendervi.
Desidero comunque rispondere alla domanda sul numero di sedute settimanali necessarie per una terapia, destinando l'informazione anche a tutti gli altri che ci leggono.
La psicoterapia, ossia la cura attraverso la psiche (e non la cura DELLA psiche, come molti erroneamente interpretano questa parola) ha molti strumenti e molte metodologie, basate su differenti concezioni del funzionamento mentale che si formarono all'origine della psicologia scientifica, nell'Ottocento. Queste concezioni oggi sono propense a considerarsi strumenti tutti validi, ma rivolti a disturbi differenti e in grado di agire con modalità differenti - quindi anche con tempi differenti.
In Italia una lunghissima resistenza alla psicologia scientifica e alla sua pratica terapeutica ha determinato un ritardo di decenni rispetto agli altri Paesi occidentali, e quando finalmente è stata regolamentata, solo nel 1989 con la legge 56/89, detta "legge Ossicini" dal nome del suo estensore, interessi di parte, resistenze, capziose interpretazioni dei vari articoli hanno generato delle colpevoli confusioni, nocive non solo ai professionisti stessi, ma soprattutto agli utenti.
Chi vuole avere una visione di tutto questo può leggere su Amazon la mia tesi di laurea del 2022 dal titolo "La legge Ossicini".
In essa, oltre ad analizzare la legge, cito una serie di fonti, alcune indispensabili per capire come si è arrivati alla confusione attuale - e quindi alla domanda di lei utente che ci scrive e alle infinite domande di tanti altri, che in Italia sono destinate a trovare ambigue risposte.
Tra i testi fondamentali c'è "Psicologi e psicoterapia, oltre la siepe", di Pietro Stampa, Renzo Carli e altri autori che collaborarono con Ossicini e dichiararono subito la loro perplessità vedendo come la legge da essi promossa veniva applicata.
Questo testo è oggi gratuitamente disponibile in rete, e soprattutto gli psicologi dovrebbero leggerlo e meditarlo, per poter fondare correttamente le proprie affermazioni sulla professione che praticano.
Venendo alla sua domanda, una vecchia prassi prevedeva che la psicoanalisi, ossia il metodo di cura fondato da Freud intorno ai primi anni del Novecento, si esercitasse impegnando il paziente in colloqui di tre e anche quattro sedute ogni settimana per un numero di anni imprecisato. Questa prassi, nelle forme più ortodosse, prescrive la neutralità assoluta del curante, che siede invisibile alle spalle del paziente, mentre quest'ultimo, nei giorni, mesi ed anni, ripercorre la sua vita e racconta anche i suoi sogni, in vista di una catarsi che lo liberi e si spera lo guarisca.
Questa concezione si è poi articolata in molte ramificazioni. In alcuni settori moderni la guarigione del paziente non si auspica nemmeno più, ritenendo che la conoscenza di sé sia meta sufficiente.
Alla psicoanalisi, con minor fortuna di pubblico, si affiancarono subito anche concezioni e metodi diversi, alcuni scaturiti dalla visione della Gestalt, altri derivati da una visione di origine medica, confluita nella psichiatria.
Verso la metà del Novecento sorsero metodi che puntavano diritto al sintomo e alla sua genesi nelle idee e nei comportamenti del paziente.
Lei che ci scrive avrà forse sentito parlare di metodo cognitivo-comportamentale.
Affinandosi le strategie, i nomi di questi nuovi metodi si sono moltiplicati e apparentemente sono cambiati anche gli strumenti e i "bersagli" dell'azione terapeutica.
Personalmente raccomando sempre agli utenti di farsi dire sia l'orientamento del proprio curante, sia gli strumenti che adotta di volta in volta a loro vantaggio, strumenti che possono essere tratti anche da concezioni differenti.
In questo oggi consiste l'abilità di un terapeuta: nell'individuare i bisogni del paziente e nell'applicare a ciascuno di essi, anche in tempi successivi, il metodo idoneo.
Le nuove terapie "non analitiche" non mirano all'inconscio -anche se poi indirettamente lo attivano- e non richiedono il sacrificio dell'intera esistenza, e del patrimonio, del paziente. In genere una volta alla settimana è sufficiente per avviare il processo di individuazione del disturbo e di superamento dello stesso.
In momenti cruciali -lutti, crisi, altro- la frequenza può essere maggiore.
In seguito si può anche passare a due volte al mese, se il paziente è in grado di procedere da sé, oppure se è opportuno che prenda in pugno la propria cura. Alcuni pazienti, infatti, pagato l'obolo morale dell'incontro col terapeuta, non si impegnano in quello che è il cuore della terapia: il processo di cambiamento.
Ci possono essere casi in cui la "guarigione" non è prevista: penso alle terapie di sostegno nelle malattie croniche o terminali.
A volte il paziente è affetto da trauma complesso, ma senza addentrarci in questo campo, dirò che se il terapeuta non si sente di affrontare il problema ha l'obbligo, a norma di Codice Deontologico, di inviare ad altri con specifica competenza.
Tutto questo, assieme ad altre ragioni: economiche, di lavoro, di rischio di dipendenza dalla terapia etc., dev'essere accuratamente valutato con il proprio curante.
Se si ha l'impressione di essere respinti, chi meglio di lui può e deve accogliere questo timore e farne strumento essenziale di conoscenza e di cura?
Le faccio tanti auguri e spero di esserle stata un poco utile.
la sua domanda, con le implicazioni emotive che comporta, ha come destinatario specifico il suo terapeuta.
Le parole: "Ho chiesto maggiori spiegazioni ma non me ne ha volute dare, è stato elusivo" sono estranee alla prassi terapeutica, ma forse nascono da un fraintendimento. Porti la lettera che ci ha scritto al suo curante; questo potrà aiutare a comprendervi.
Desidero comunque rispondere alla domanda sul numero di sedute settimanali necessarie per una terapia, destinando l'informazione anche a tutti gli altri che ci leggono.
La psicoterapia, ossia la cura attraverso la psiche (e non la cura DELLA psiche, come molti erroneamente interpretano questa parola) ha molti strumenti e molte metodologie, basate su differenti concezioni del funzionamento mentale che si formarono all'origine della psicologia scientifica, nell'Ottocento. Queste concezioni oggi sono propense a considerarsi strumenti tutti validi, ma rivolti a disturbi differenti e in grado di agire con modalità differenti - quindi anche con tempi differenti.
In Italia una lunghissima resistenza alla psicologia scientifica e alla sua pratica terapeutica ha determinato un ritardo di decenni rispetto agli altri Paesi occidentali, e quando finalmente è stata regolamentata, solo nel 1989 con la legge 56/89, detta "legge Ossicini" dal nome del suo estensore, interessi di parte, resistenze, capziose interpretazioni dei vari articoli hanno generato delle colpevoli confusioni, nocive non solo ai professionisti stessi, ma soprattutto agli utenti.
Chi vuole avere una visione di tutto questo può leggere su Amazon la mia tesi di laurea del 2022 dal titolo "La legge Ossicini".
In essa, oltre ad analizzare la legge, cito una serie di fonti, alcune indispensabili per capire come si è arrivati alla confusione attuale - e quindi alla domanda di lei utente che ci scrive e alle infinite domande di tanti altri, che in Italia sono destinate a trovare ambigue risposte.
Tra i testi fondamentali c'è "Psicologi e psicoterapia, oltre la siepe", di Pietro Stampa, Renzo Carli e altri autori che collaborarono con Ossicini e dichiararono subito la loro perplessità vedendo come la legge da essi promossa veniva applicata.
Questo testo è oggi gratuitamente disponibile in rete, e soprattutto gli psicologi dovrebbero leggerlo e meditarlo, per poter fondare correttamente le proprie affermazioni sulla professione che praticano.
Venendo alla sua domanda, una vecchia prassi prevedeva che la psicoanalisi, ossia il metodo di cura fondato da Freud intorno ai primi anni del Novecento, si esercitasse impegnando il paziente in colloqui di tre e anche quattro sedute ogni settimana per un numero di anni imprecisato. Questa prassi, nelle forme più ortodosse, prescrive la neutralità assoluta del curante, che siede invisibile alle spalle del paziente, mentre quest'ultimo, nei giorni, mesi ed anni, ripercorre la sua vita e racconta anche i suoi sogni, in vista di una catarsi che lo liberi e si spera lo guarisca.
Questa concezione si è poi articolata in molte ramificazioni. In alcuni settori moderni la guarigione del paziente non si auspica nemmeno più, ritenendo che la conoscenza di sé sia meta sufficiente.
Alla psicoanalisi, con minor fortuna di pubblico, si affiancarono subito anche concezioni e metodi diversi, alcuni scaturiti dalla visione della Gestalt, altri derivati da una visione di origine medica, confluita nella psichiatria.
Verso la metà del Novecento sorsero metodi che puntavano diritto al sintomo e alla sua genesi nelle idee e nei comportamenti del paziente.
Lei che ci scrive avrà forse sentito parlare di metodo cognitivo-comportamentale.
Affinandosi le strategie, i nomi di questi nuovi metodi si sono moltiplicati e apparentemente sono cambiati anche gli strumenti e i "bersagli" dell'azione terapeutica.
Personalmente raccomando sempre agli utenti di farsi dire sia l'orientamento del proprio curante, sia gli strumenti che adotta di volta in volta a loro vantaggio, strumenti che possono essere tratti anche da concezioni differenti.
In questo oggi consiste l'abilità di un terapeuta: nell'individuare i bisogni del paziente e nell'applicare a ciascuno di essi, anche in tempi successivi, il metodo idoneo.
Le nuove terapie "non analitiche" non mirano all'inconscio -anche se poi indirettamente lo attivano- e non richiedono il sacrificio dell'intera esistenza, e del patrimonio, del paziente. In genere una volta alla settimana è sufficiente per avviare il processo di individuazione del disturbo e di superamento dello stesso.
In momenti cruciali -lutti, crisi, altro- la frequenza può essere maggiore.
In seguito si può anche passare a due volte al mese, se il paziente è in grado di procedere da sé, oppure se è opportuno che prenda in pugno la propria cura. Alcuni pazienti, infatti, pagato l'obolo morale dell'incontro col terapeuta, non si impegnano in quello che è il cuore della terapia: il processo di cambiamento.
Ci possono essere casi in cui la "guarigione" non è prevista: penso alle terapie di sostegno nelle malattie croniche o terminali.
A volte il paziente è affetto da trauma complesso, ma senza addentrarci in questo campo, dirò che se il terapeuta non si sente di affrontare il problema ha l'obbligo, a norma di Codice Deontologico, di inviare ad altri con specifica competenza.
Tutto questo, assieme ad altre ragioni: economiche, di lavoro, di rischio di dipendenza dalla terapia etc., dev'essere accuratamente valutato con il proprio curante.
Se si ha l'impressione di essere respinti, chi meglio di lui può e deve accogliere questo timore e farne strumento essenziale di conoscenza e di cura?
Le faccio tanti auguri e spero di esserle stata un poco utile.
Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com
[#2]
Utente
Grazie mille per la risposta, rapida, e precisa.Ovviamente ,ho provato già a porre allo paicologo i miei quesiti.Ha solo detto che una volta a settimana è troppo perchè è troppo faticoso peer me affrontare i miei problemi.Non capisco però perchè deve decidere lui cosa è troppo faticoso per me o no. Io penso invece,dopo aver provato sia 4 sia 2 al mese, che, con 2sedute al mese quello che affronto in terapia non ha più un senso,gli incontri mi sembrano slegati tra loro.A questo non risponde, dice solo che lui sa cosa è giusto.Ma se è solo che lui sa cosa è giusto,e quello che penso io nono conta, cosa ci vado a fare?Allora se mi dice che è giusto che mi butto dalla finestrra,allora io mi devo buttare dalla finestra? Lui ha orientamento psicodinamico e sistemico.A questo punto però ho un' altra domanda,se può rispondermi: cosa significa non impegnarsi nel processo di cambiamento?e cosa centra con il numero di sedute?che se uno non si impegna si fanno meno sedute? Perchè? Come aiuta lavorare meno a impegnarsi di piu?
[#3]
Gentile utente,
non entro nel merito delle frasi del curante da lei riferite perché è facile non comprendersi in due, e figuriamoci in tre, se il terzo interlocutore non conosce nemmeno la seconda campana.
Ribadisco che la domanda: "Ma se è solo che lui sa cosa è giusto, e quello che penso io non conta, cosa ci vado a fare?" va rivolta al curante.
Noi non sappiamo qual è lo specifico problema da lei portato in terapia, e perché tutte e due le volte ha scelto un curante di orientamento psicodinamico. Sappiamo però che una risposta l'ha avuta: "una volta a settimana è troppo perchè è troppo faticoso peer me affrontare i miei problemi".
Lei sa, e noi no, se in terapia le accade di piangere, gridare, rievocare ricordi troppo dolorosi, rimpiangere o maledire il passato o il presente, insomma se manifesta una sofferenza che il suo curante ritiene non opportuno infliggerle con frequenza settimanale.
Sempre lei e il suo curante sapete se gli effetti della seduta accrescono la sua consapevolezza e producono un cambiamento visibile all'incontro successivo, anche se a lei sembra che questi incontri siano "slegati tra loro".
Cerco invece di rispondere alla sua domanda finale: "Cosa significa non impegnarsi nel processo di cambiamento?"
Significa non tener conto degli spunti, indicazioni, esercizi proposti dallo psicologo in vista del superamento del disagio per il quale il paziente si è recato da lui.
Chi si rivolge a un* psicolog* avverte un pungolo più o meno doloroso che può essere una crisi occasionale (un licenziamento, l'abbandono del partner, un trauma, un lutto) oppure un disagio sistematico, nelle relazioni, in ciò che desidera e non realizza, nella mancata accettazione di sé stesso e dei propri limiti; anche il desiderio di scoprire nuove potenzialità, di liberarsi dalla paura o dalla vergogna, dall'ansia, dalla depressione, dalle fobie, e tante altre cose che hanno portato un individuo ad una specie di paralisi del suo bisogno di essere, per quanto possibile, felice.
L* psicolog* esplora assieme alla persona quali sono i suoi reali desideri (non tutti li conoscono davvero); quanto sono realistici; quali sono le strade per realizzarli; infine, fondamentalmente, quali sono gli ostacoli che a questi desideri si oppongono e come superarli.
Se si va dallo psicologo si è già consapevoli che il luogo del disagio è dentro di noi; lo psicologo mette a punto la conoscenza di quelle nostre esperienze, idee, comportamenti, che hanno creato e mantengono questo disagio. Ma al momento di smontare questo meccanismo cementato dall'abitudine si incontrano fiere resistenze, dette anche "meccanismi di difesa", più o meno coscienti da parte del paziente.
Un esempio? Una volta appurato che vivere ancora con la mamma a quarant'anni vuol dire non assumersi mai responsabilità adulte, il paziente obietta che la mamma è malata e non può lasciarla sola (ma quando aveva vent'anni perché non è andato via?); e se lo psicologo lo invita a cercare altre soluzioni, ha tutto un repertorio di scuse che negano ogni possibilità di cambiamento, fino a farsi venire le crisi di panico e ad opporre la frase-principe di ogni resistenza: "Io sono fatto così, e il carattere non si cambia!".
Falsità macroscopica che copre la volontà di non cambiare mai, come quella di chi va in terapia per scoprire perché le donne non lo amano, e quando si sente dire che si presenta mal vestito, non lavato e pure scorbutico, obietta che lui vuol essere amato così com'è, e rifiuta una sua versione diversa, fresca di doccia e capace di gentilezza.
Gli esempi del non impegno nel processo di cambiamento potrebbero moltiplicarsi, ma mi fermo qui.
Al paziente per lo più appare sufficiente, all'inizio, essere accolto nella sua sofferenza, compreso e compatito; ma quando il professionista inizia a fargli vedere che il compito per cui percepisce un onorario non si ferma qui, e che bisogna alzarsi dal divano delle lacrime e prendere in pugno la propria vita, il paziente sfugge in tutti i modi.
Nel caso un paziente prenda la terapia in questo modo, ossia come valvola di sfogo del proprio malessere senza altra azione che limitarsi ai lamenti una volta la settimana, può essere utile sottrargli quella che è diventata la "copertina di Linus" e spingerlo ad un più frequente cimento con la realtà.
Può determinare la minor frequenza delle sedute anche l'eccessiva acquiescenza del paziente alle indicazioni del terapeuta, il demandare a lui tutte le proprie decisioni, perché anche questo è un mantenere la non assunzione di responsabilità.
Lei chiede: "Come aiuta lavorare meno a impegnarsi di piu?", ma equivoca il significato del "lavoro", che non consiste nelle sedute, bensì nel movimento che gli incontri terapeutici imprimono ai suoi pensieri e alle sue azioni, e che va proseguito e ampliato fuori dal setting terapeutico.
In questo senso, se la seduta è solo uno sfogo, una serie di recriminazioni contro "i cattivi" (genitori, amanti, colleghi), oppure l'abbandono passivo al terapeuta, una seduta in meno serve ad incrementare l'impegno personale.
Altri motivi che spingono a diradare le sedute glieli ho indicati nella precedente risposta. Non sono tutti, perché ogni percorso viene ritagliato sulle esigenze di ciascun paziente e con lui concordato a suo vantaggio.
Altro non saprei aggiungere.
Buone cose.
non entro nel merito delle frasi del curante da lei riferite perché è facile non comprendersi in due, e figuriamoci in tre, se il terzo interlocutore non conosce nemmeno la seconda campana.
Ribadisco che la domanda: "Ma se è solo che lui sa cosa è giusto, e quello che penso io non conta, cosa ci vado a fare?" va rivolta al curante.
Noi non sappiamo qual è lo specifico problema da lei portato in terapia, e perché tutte e due le volte ha scelto un curante di orientamento psicodinamico. Sappiamo però che una risposta l'ha avuta: "una volta a settimana è troppo perchè è troppo faticoso peer me affrontare i miei problemi".
Lei sa, e noi no, se in terapia le accade di piangere, gridare, rievocare ricordi troppo dolorosi, rimpiangere o maledire il passato o il presente, insomma se manifesta una sofferenza che il suo curante ritiene non opportuno infliggerle con frequenza settimanale.
Sempre lei e il suo curante sapete se gli effetti della seduta accrescono la sua consapevolezza e producono un cambiamento visibile all'incontro successivo, anche se a lei sembra che questi incontri siano "slegati tra loro".
Cerco invece di rispondere alla sua domanda finale: "Cosa significa non impegnarsi nel processo di cambiamento?"
Significa non tener conto degli spunti, indicazioni, esercizi proposti dallo psicologo in vista del superamento del disagio per il quale il paziente si è recato da lui.
Chi si rivolge a un* psicolog* avverte un pungolo più o meno doloroso che può essere una crisi occasionale (un licenziamento, l'abbandono del partner, un trauma, un lutto) oppure un disagio sistematico, nelle relazioni, in ciò che desidera e non realizza, nella mancata accettazione di sé stesso e dei propri limiti; anche il desiderio di scoprire nuove potenzialità, di liberarsi dalla paura o dalla vergogna, dall'ansia, dalla depressione, dalle fobie, e tante altre cose che hanno portato un individuo ad una specie di paralisi del suo bisogno di essere, per quanto possibile, felice.
L* psicolog* esplora assieme alla persona quali sono i suoi reali desideri (non tutti li conoscono davvero); quanto sono realistici; quali sono le strade per realizzarli; infine, fondamentalmente, quali sono gli ostacoli che a questi desideri si oppongono e come superarli.
Se si va dallo psicologo si è già consapevoli che il luogo del disagio è dentro di noi; lo psicologo mette a punto la conoscenza di quelle nostre esperienze, idee, comportamenti, che hanno creato e mantengono questo disagio. Ma al momento di smontare questo meccanismo cementato dall'abitudine si incontrano fiere resistenze, dette anche "meccanismi di difesa", più o meno coscienti da parte del paziente.
Un esempio? Una volta appurato che vivere ancora con la mamma a quarant'anni vuol dire non assumersi mai responsabilità adulte, il paziente obietta che la mamma è malata e non può lasciarla sola (ma quando aveva vent'anni perché non è andato via?); e se lo psicologo lo invita a cercare altre soluzioni, ha tutto un repertorio di scuse che negano ogni possibilità di cambiamento, fino a farsi venire le crisi di panico e ad opporre la frase-principe di ogni resistenza: "Io sono fatto così, e il carattere non si cambia!".
Falsità macroscopica che copre la volontà di non cambiare mai, come quella di chi va in terapia per scoprire perché le donne non lo amano, e quando si sente dire che si presenta mal vestito, non lavato e pure scorbutico, obietta che lui vuol essere amato così com'è, e rifiuta una sua versione diversa, fresca di doccia e capace di gentilezza.
Gli esempi del non impegno nel processo di cambiamento potrebbero moltiplicarsi, ma mi fermo qui.
Al paziente per lo più appare sufficiente, all'inizio, essere accolto nella sua sofferenza, compreso e compatito; ma quando il professionista inizia a fargli vedere che il compito per cui percepisce un onorario non si ferma qui, e che bisogna alzarsi dal divano delle lacrime e prendere in pugno la propria vita, il paziente sfugge in tutti i modi.
Nel caso un paziente prenda la terapia in questo modo, ossia come valvola di sfogo del proprio malessere senza altra azione che limitarsi ai lamenti una volta la settimana, può essere utile sottrargli quella che è diventata la "copertina di Linus" e spingerlo ad un più frequente cimento con la realtà.
Può determinare la minor frequenza delle sedute anche l'eccessiva acquiescenza del paziente alle indicazioni del terapeuta, il demandare a lui tutte le proprie decisioni, perché anche questo è un mantenere la non assunzione di responsabilità.
Lei chiede: "Come aiuta lavorare meno a impegnarsi di piu?", ma equivoca il significato del "lavoro", che non consiste nelle sedute, bensì nel movimento che gli incontri terapeutici imprimono ai suoi pensieri e alle sue azioni, e che va proseguito e ampliato fuori dal setting terapeutico.
In questo senso, se la seduta è solo uno sfogo, una serie di recriminazioni contro "i cattivi" (genitori, amanti, colleghi), oppure l'abbandono passivo al terapeuta, una seduta in meno serve ad incrementare l'impegno personale.
Altri motivi che spingono a diradare le sedute glieli ho indicati nella precedente risposta. Non sono tutti, perché ogni percorso viene ritagliato sulle esigenze di ciascun paziente e con lui concordato a suo vantaggio.
Altro non saprei aggiungere.
Buone cose.
Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com
[#4]
Utente
Gentile dottoressa,ho scelto la psicodinamica perchè non credo molto negli approcci cognitivisti e comportamentisti, che a volte suonano come "se il paziente non guarisce dal cancro è perchè non vuole mutare le sue cellule cancerogene in cellule sane".Con tutto il rispetto,ovviamente, e la gratitudine per avermi comunque offerto una risposta chiara e esaustiva che mi offe un idea più chiara delle motivazioni che probabilmente muovono il mio psicologo.
Questo consulto ha ricevuto 5 risposte e 601 visite dal 18/09/2024.
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