Perdita del senso della vita
Egregi dottori,
Ho pensato a lungo se chiedere questo consulto.
Per i motivi che andrò ad esporre, non mi è facile aprirmi, in quanto il cuore stesso del mio problema è una perdita ormai assoluta della speranza.
Desidererei, però, chiedere un parere in merito alla diagnosi della mia condizione, in quanto non ho per fortuna ancora perso del tutto il desiderio di capire, e di smettere di soffrire, per quanto lo ritenga quasi impossibile.
Da che ho memoria, dopo un'infanzia normale, benchè solitaria (sono cresciuto con i nonni che si occupavano di me per buona parte della giornata, ed ho sempre avuto estrema reticenza a socializzare in qualsiasi contesto, ai limiti del disagio fisico quando costretto), ho iniziato ad accusare sintomi depressivi ai tempi delle medie, per poi precipitare in una condizione di peggioramento costante alle superiori.
Ho sempre provato una fortissima solitudine, una certezza di abbandono, un tormento al pensiero della morte e dell'addio dei miei cari che mi accompagnano tuttora, non aiutati dal mio essere confuso in merito alla mia sessualità (sono blandamente bisessuale, con forte componente omosessuale non del tutto accetta, e ho una bassissima autostima).
Durante le superiori iniziavo a seguire un percorso di psicoterapia che portava pochi frutti, ed entravo in terapia fino a stabilizzarmi ad oggi su Lorazepam (è l'unico farmaco ad alleviare momentaneamente lo stato di angoscia mortale che provo continuamente) ed Escitalopram con lieve beneficio (dopo due fallimenti terapeutici successivi con paroxetina e venlafaxina).
Ad oggi frequento l'università (V anno medicina), e ho ripreso psicoterapia presso la città dove studio (Padova), con relativo beneficio.
Alla base di un nuovo peggioramento, credo vi sia la presa di consapevolezza che entrambi i miei unici amici, qui a Padova, terminano ora gli studi e se ne andranno dalla città.
La consapevolezza della perdita di coloro che hanno rappresentato l'unico appiglio di stabilità in questi 5 anni mi ha svuotato di ogni spinta,
Ho sempre sospettato, scusandomi in anticipo per la presunzione di aver ipotizzato una diagnosi, di soffrire di un forte disturbo dipendente di personalità in comorbidità (causa?) con la depressione che mi è stata diagnosticata.
La lunghezza del messaggio non mi permette di allegare specifiche info, ma se necessario lo farò in ulteriore messaggio.
La psicoterapia, nonostante gli sforzi, si è arenata (il professionista è al corrente della situazione).
I farmaci non mi aiutano più.
Sento solo un progressivo "svuotamento", che è sempre stato presente, ma che un contesto positivo e la razionalità permettevano prima di tenere sedato.
Mi rendo conto di essere diventato cinico, acido e disperato, e di desiderare spesso e volentieri la morte (pur senza alcun impulso suicida.
E' solo un desiderio passivo).
Con il passare dei mesi, la situazione peggiora sempre più, nonostante ogni sforzo.
Sono disposto a rispondere a qualsiasi domanda.
Cosa dovrei fare?
Ho pensato a lungo se chiedere questo consulto.
Per i motivi che andrò ad esporre, non mi è facile aprirmi, in quanto il cuore stesso del mio problema è una perdita ormai assoluta della speranza.
Desidererei, però, chiedere un parere in merito alla diagnosi della mia condizione, in quanto non ho per fortuna ancora perso del tutto il desiderio di capire, e di smettere di soffrire, per quanto lo ritenga quasi impossibile.
Da che ho memoria, dopo un'infanzia normale, benchè solitaria (sono cresciuto con i nonni che si occupavano di me per buona parte della giornata, ed ho sempre avuto estrema reticenza a socializzare in qualsiasi contesto, ai limiti del disagio fisico quando costretto), ho iniziato ad accusare sintomi depressivi ai tempi delle medie, per poi precipitare in una condizione di peggioramento costante alle superiori.
Ho sempre provato una fortissima solitudine, una certezza di abbandono, un tormento al pensiero della morte e dell'addio dei miei cari che mi accompagnano tuttora, non aiutati dal mio essere confuso in merito alla mia sessualità (sono blandamente bisessuale, con forte componente omosessuale non del tutto accetta, e ho una bassissima autostima).
Durante le superiori iniziavo a seguire un percorso di psicoterapia che portava pochi frutti, ed entravo in terapia fino a stabilizzarmi ad oggi su Lorazepam (è l'unico farmaco ad alleviare momentaneamente lo stato di angoscia mortale che provo continuamente) ed Escitalopram con lieve beneficio (dopo due fallimenti terapeutici successivi con paroxetina e venlafaxina).
Ad oggi frequento l'università (V anno medicina), e ho ripreso psicoterapia presso la città dove studio (Padova), con relativo beneficio.
Alla base di un nuovo peggioramento, credo vi sia la presa di consapevolezza che entrambi i miei unici amici, qui a Padova, terminano ora gli studi e se ne andranno dalla città.
La consapevolezza della perdita di coloro che hanno rappresentato l'unico appiglio di stabilità in questi 5 anni mi ha svuotato di ogni spinta,
Ho sempre sospettato, scusandomi in anticipo per la presunzione di aver ipotizzato una diagnosi, di soffrire di un forte disturbo dipendente di personalità in comorbidità (causa?) con la depressione che mi è stata diagnosticata.
La lunghezza del messaggio non mi permette di allegare specifiche info, ma se necessario lo farò in ulteriore messaggio.
La psicoterapia, nonostante gli sforzi, si è arenata (il professionista è al corrente della situazione).
I farmaci non mi aiutano più.
Sento solo un progressivo "svuotamento", che è sempre stato presente, ma che un contesto positivo e la razionalità permettevano prima di tenere sedato.
Mi rendo conto di essere diventato cinico, acido e disperato, e di desiderare spesso e volentieri la morte (pur senza alcun impulso suicida.
E' solo un desiderio passivo).
Con il passare dei mesi, la situazione peggiora sempre più, nonostante ogni sforzo.
Sono disposto a rispondere a qualsiasi domanda.
Cosa dovrei fare?
[#1]
I trattamenti devono avere in relazione L diagnosi che non può ipotizzare lei sulla base di ciò che racconta.
Le terapie richiedono controlli periodici e vanno cambiate se non danno effetti per le quali sono state prescritte.
Lo psicoterapeuta le può chiarire diversi aspetti anche rispetto a questo attuale blocco.
Le terapie richiedono controlli periodici e vanno cambiate se non danno effetti per le quali sono state prescritte.
Lo psicoterapeuta le può chiarire diversi aspetti anche rispetto a questo attuale blocco.
https://wa.me/3908251881139
https://www.instagram.com/psychiatrist72/
[#2]
Utente
gentile dottor Ruggiero.
Nel ringraziarla per la sua risposta, le fornisco qualche informazione in merito ai punti che ha sottolineato.
Come scrivevo nel messaggio precedente, sono in cura presso uno psichiatra alla mia città di residenza e presso uno psicoterapeuta nella mia città universitaria, entrambi tenuti al corrente della mia situazione.
La mia diagnosi attuale, formulata dallo psichiatra nel 2018 e mai aggiornata, è quella di depressione maggiore, che di visita in visita viene ridefinita come "scompensata, in compenso parziale, in scompenso". Per tale diagnosi ricevevo il trattamento ansiolitico (sempre rimasto lorazepam) e antidepressivo (in ordine paroxetina, venlafaxina ed infine entact, con il quale sono attualmente in terapia per averne avuto lieve beneficio, dopo assenza totale di risposta ai precedenti). La dose attualmente assunta è di 10 mg la mattina, con intenzione del medico di abbassarla e rimuoverla quanto prima.
Dal punto di vista della psicoterapia, il terapeuta (un funzionalista moderno) non è mai stato molto chiaro in merito alla sua idea diagnostica. Sicuramente individua in me una bassissima autostima e un forte problema relazionale, ma per il resto alterna sedute puramente "discorsive" ad altre in cui mi vengono sottoposte pratiche di cui non capisco totalmente il senso, che mi provocano serio imbarazzo e dalle quali non ottengo alcun giovamento nonostante il professionista le ritenga la parte principale della seduta (ad esempio, esercizi di respirazione, meditazione guidata, "camminate" in giro per lo studio ad occhi chiusi o camminando all'indietro...). Ho comunque trovato beneficio dalla terapia per quanto riguarda gli aspetti di sfogo ed autoanalisi, ma ora l'impressione è di essere completamente bloccato nei progressi da mesi (il terapeuta ne è informato, ma continua a sostenere che sia "questione di tempo").
In linea di massima, provo un forte disagio perchè ho l'impressione di non riuscire a comunicare adeguatamente il mio malessere alle figure professionali che mi seguono, dalle quali ricevo sì rassicurazioni, ma anche l'impressione di "sminuire" il problema, come se venisse da loro ancora analizzato con i parametri di una confusione adolescienziale che, francamente, non sento affatto mia. Da qui anche il contunuo desiderio del medico di ridurre la terapia, che non mi permetto di contestare in quanto decisione di professionista, ma che sinceramente trovo quasi "offensiva", come se mi si stesse dicendo di non avere nulla, che è tutto un capriccio della mia testa, quando invece io mi sento peggio, e non meglio.
Le mie relazioni, che dovevano essere il focus della psicoterapia, si rivelano tutt'ora sicuramente valide nel significante, ma perennemente vissute con ansia, terrore di abbandono, angoscia costante. Un semplice bisticcio può precipitarmi in settimane di malessere piscologico e psicosomatico dal quale è difficile riemergere, e sempre e solo qualora sia l'altra persona a tendermi la mano. Mi sento in balia degli altri, sempre, come se la mia vita non contasse nulla. Ho perso ogni speranza di miglioramento, e ho sviluppato un forte e radicato cinismo verso la vita, che mi appare come una lunga, sarcastica sequenza di umiliazioni e sofferenza.
Quando provo ad alzare la voce, nel senso di esprimere con maggior forza il mio disagio con i professionisti che mi seguono, in famiglia, con gli amici, tranne rari casi l'impressione che ne ricevo è quella di un muro di incomunicabilità, da cui traggo ulteriori conferme del mio destino di solitudine.
Mi scuso per l'essermi dilungato e sperando di aver fornito ulteriori informazioni, ringrazio ancora per la risposta.
Nel ringraziarla per la sua risposta, le fornisco qualche informazione in merito ai punti che ha sottolineato.
Come scrivevo nel messaggio precedente, sono in cura presso uno psichiatra alla mia città di residenza e presso uno psicoterapeuta nella mia città universitaria, entrambi tenuti al corrente della mia situazione.
La mia diagnosi attuale, formulata dallo psichiatra nel 2018 e mai aggiornata, è quella di depressione maggiore, che di visita in visita viene ridefinita come "scompensata, in compenso parziale, in scompenso". Per tale diagnosi ricevevo il trattamento ansiolitico (sempre rimasto lorazepam) e antidepressivo (in ordine paroxetina, venlafaxina ed infine entact, con il quale sono attualmente in terapia per averne avuto lieve beneficio, dopo assenza totale di risposta ai precedenti). La dose attualmente assunta è di 10 mg la mattina, con intenzione del medico di abbassarla e rimuoverla quanto prima.
Dal punto di vista della psicoterapia, il terapeuta (un funzionalista moderno) non è mai stato molto chiaro in merito alla sua idea diagnostica. Sicuramente individua in me una bassissima autostima e un forte problema relazionale, ma per il resto alterna sedute puramente "discorsive" ad altre in cui mi vengono sottoposte pratiche di cui non capisco totalmente il senso, che mi provocano serio imbarazzo e dalle quali non ottengo alcun giovamento nonostante il professionista le ritenga la parte principale della seduta (ad esempio, esercizi di respirazione, meditazione guidata, "camminate" in giro per lo studio ad occhi chiusi o camminando all'indietro...). Ho comunque trovato beneficio dalla terapia per quanto riguarda gli aspetti di sfogo ed autoanalisi, ma ora l'impressione è di essere completamente bloccato nei progressi da mesi (il terapeuta ne è informato, ma continua a sostenere che sia "questione di tempo").
In linea di massima, provo un forte disagio perchè ho l'impressione di non riuscire a comunicare adeguatamente il mio malessere alle figure professionali che mi seguono, dalle quali ricevo sì rassicurazioni, ma anche l'impressione di "sminuire" il problema, come se venisse da loro ancora analizzato con i parametri di una confusione adolescienziale che, francamente, non sento affatto mia. Da qui anche il contunuo desiderio del medico di ridurre la terapia, che non mi permetto di contestare in quanto decisione di professionista, ma che sinceramente trovo quasi "offensiva", come se mi si stesse dicendo di non avere nulla, che è tutto un capriccio della mia testa, quando invece io mi sento peggio, e non meglio.
Le mie relazioni, che dovevano essere il focus della psicoterapia, si rivelano tutt'ora sicuramente valide nel significante, ma perennemente vissute con ansia, terrore di abbandono, angoscia costante. Un semplice bisticcio può precipitarmi in settimane di malessere piscologico e psicosomatico dal quale è difficile riemergere, e sempre e solo qualora sia l'altra persona a tendermi la mano. Mi sento in balia degli altri, sempre, come se la mia vita non contasse nulla. Ho perso ogni speranza di miglioramento, e ho sviluppato un forte e radicato cinismo verso la vita, che mi appare come una lunga, sarcastica sequenza di umiliazioni e sofferenza.
Quando provo ad alzare la voce, nel senso di esprimere con maggior forza il mio disagio con i professionisti che mi seguono, in famiglia, con gli amici, tranne rari casi l'impressione che ne ricevo è quella di un muro di incomunicabilità, da cui traggo ulteriori conferme del mio destino di solitudine.
Mi scuso per l'essermi dilungato e sperando di aver fornito ulteriori informazioni, ringrazio ancora per la risposta.
Questo consulto ha ricevuto 2 risposte e 1.3k visite dal 20/06/2023.
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