Depressione resistente

Gentili medici, sono una ragazza di 29 anni.
La mia storia inizia 10 anni fa, quando finii in ospedale per una crisi depressiva che, rispetto a quello che sto vivendo oggi, non era niente.
Lì incontrai uno psichiatra che, seppure antipatico, mi affascinava molto.
Decisi pertanto di iniziare una terapia con lui.
La diagnosi, mai esplicitata, era disturbo bipolare.
È proprio a partire da lì che inizio SERIAMENTE a star male: il nostro rapporto era per me una fonte di sofferenza, lui mi giudicava in modo estremamente rigido, e tutto ciò che facevo era visto come qualcosa di malato, pazzo o pericoloso.
Cominciai pertanto a non fare più niente nel timore di sbagliare, di fare qualcosa contro me stessa e la mia cura, percepivo di avere una malattia grave per la quale il mio modo di vivere doveva radicalmente cambiare.
Iniziai anche ad avere una forte paura del giudizio degli altri, di parlare, pensavo sempre riflettevo nel mondo ciò che nei colloqui succedeva con lo psichiatra - di dire la cosa sbagliata, di dire cose stupide e ignoranti e, piano piano, mi isolavo sempre di più.
La situazione è peggiorata quando mi ha indirizzata da uno psicoanalista: l’isolamento iniziale è diventato un isolamento estremo dai miei familiari e dai miei amici su suggerimento dello stesso analista, il quale diceva che mi facevano del male-.
Lentamente, smisi di vivere.
Sono andata avanti così per circa 5 anni, fra la vita e la non vita, sempre più sola; dopo la mia laurea le cose peggiorano drasticamente: mi svegliavo di notte e piangevo, avevo pensieri ossessivi aggressivi, non sopportavo la presenza di nessuno, e l’analista con il quale ebbi anche un rapporto extra-medicale, in quanto lavoravo per lui mi diceva di non parlarne a nessuno, che sono in analisi si poteva dire di star male.
Arrivai a pesare 37 kg, e l’analista negava l’evidenza io credo, nel timore potesse trattarsi di un suo sbaglio che effettivamente ci fu, avendomi chiesto di lavorare per lui-.
Dopo 7 anni di cure con loro mi sentivo sola, depressa, fisicamente provata, insomma, non ero mai stata così male in vita mia.
I famaci, tegretol da 400 mattina e sera, un quarto di sertralina e mezza mrtazapina la sera, erano acqua fresca.
Decisi di provare a sentire un altro psichiatra, uno che mi aveva seguito da adolescente.
Lui ha fatto una lista dei miei sintomi, mi ha detto che non soffrivo di depressione bipolare, ma tutt’altro.
Pertanto mi ha curato con degli antidepressivi.
Nessun effetto.
Poi mi ha detto che forse, visto che i farmaci non funzionavano, potevo avere una depressione mista, che andava curata con gli stabilizzatori dell’umore.
Nessun effetto.
L’ultima cura che facevo comprendeva l’abilify e l’elopram, prima di passare al Litio.
Tuttavia, anche quest’ultimo, non mi sta facendo nessun effetto.
La mia domanda è: ha senso continuare a cercare una terapia farmacologica, pur avendole provate praticamente tutte?
Ha senso chiedere il parere di un altro psichiatra?
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Dr. Francesco Saverio Ruggiero Psichiatra, Psicoterapeuta 42.6k 1k
Non sarebbero state provate tutte le terapie e se la diagnosi è di depressione resistente è corretto tentare strade che possano trattarla in modo efficace.


Dr. F. S. Ruggiero

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 45.4k 1k
Gentile utente,

Alla fine, la diagnosi parrebbe l'unica cosa confermata (mai esplicitata all'inizio Lei dice, ma con cure che invece erano chiaramente per quello...in questo senso ?), per il resto ci sono cose poco chiare.
Le schematizzo
a) psicanalisi per che cosa ? Parliamo della cura di un disturbo ufficiosamente bipolare.
b) isolamento dalla famiglia "consigliato", rapporto di lavoro sovrapposto a quello professionale, non è chiaro se per favore personale o anche come alternative al pagamento diretto, ma in ogni caso una situazione non salutare
c) non parlare con nessuno del proprio disagio...anzi, di solito un parere esterno è utile nel comprendere eventuali diversità di contesto, di modalità espressiva, per quantificare meglio la gravità etc. Un invito alla "segretezza" di qualcosa che poi dovrebbe anche essere relativamente manifesto

In tutto questo, c'è la peculiarità dello scegliere persone antipatiche, e accettare imposizioni in maniera apparentemente condivisa, laddove razionalmente si individua l'anomalia o la stranezza, come vi fosse una tendenza verso una relazione di subordinazione per creare un legame.

Ripartendo da capo, per esempio: quali erano i comportamenti che erano considerati preoccupanti, rischiosi, da censurare, etc e che avrebbero caratterizzato appunto il suo profilo iniziale, quello della diagnosi di bipolarità non detta ?

Dr.Matteo Pacini
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Utente
Utente
Salve. Mai esplicitata in generale, nemmeno su mia richiesta, ma prendendo quei farmaci ho fatto due più due. Rispondendo alle sue domande: 1) sono stata indirizzata dallo psicoanalista perchè la terapia farmacologica non aveva effetti. 2)ho accettato il lavoro su grande insistenza dell'analista, percepivo uno stipendio e a parte pagavo le sedute. 3) secondo l'analista non dovevo mostrare i miei sintomi di sofferenza agli altri, in quanto, a suo dire, controproducente. in sintesi, non potevo parlare del mio malessere a nessuno, nemmeno allo psichiatra, tranne che a lui (l'analista)
I sintomi iniziali erano un grande senso di tristezza e atti autolesivi. I comportamenti per cui, invece, venivo criticata, erano cose futili. Ad esempio feci salire in casa mia un mio caro amico e, a detta dello psichiatra, era una situazione in cui mi ero esposta ad un grande rischio. In generale mi contestava ogni atteggiamento, sembrava sempre che agissi ferendo qualcuno, pertanto smisi di agire e di frequentare gli altri. Vorrei anche precisare che non ho alcun momento di euforia, vedo tutto costantemente nero, piatto e buio. Sebbene non frequenti più nè lo psichiatra nè l'analista, mi sento ancora fortemente condizionata da quello che mi hanno detto e, a loro modo, insegnato. Tutt'ora non riesco ad aprirmi con nessuno, per il timore di ferire gli altri, perché mi sembra fuori luogo, etc.
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 45.4k 1k
Uno strano percorso, specie poi il fatto che lo psichiatra la manda dall'analista, e lui dice di non riferire neanche allo psichiatra stesso. Ma, a parte questo, strano anche il resto. Passi per la diagnosi non esplicitata, ma non capisco il senso del decidere per l'analisi, un approccio specifico mirato a quale diagnosi ?
Inoltre, se bipolare quale, tipo I, II, altro ?
I comportamenti che descrive di per sé non richiamano niente di preciso, ma vi erano comportamenti autolesivi ? Quali ? suicidio tentato, tagli, altro ?
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Utente
Utente
Si, decisamente strano. Ci sono stati molti atteggiamenti scostanti da parte loro che io, cieca dai vari trasfert, non ho voluto vedere. Pensavo di essere guarita, invece mi stavo seriamente ammalando.
All'epoca, dieci anni fa, ho preso delle pillole dopo che mi sono lasciata col mio ragazzo, per cui mi hanno portata all'ospedale, e inoltre mi tagliavo. Ma veramente, in confronto all'isolamento e alla condizione di depressione che ho vissuto dopo, adesso mi sembra quasi un niente. Ad ogni modo: al momento non ho nessuna vita sociale, ho paura ad espormi, anche con i miei familiari. Non riesco ad uscire da questa condizione di auto isolamento, il morale è costantemente basso, non appena sento che sono serena, qualcosa di forte mi riporta giù nel baratro. Non vivo bene nemmeno un istante. Mi stanco subito di tutto, sento di non avere nessuna energia. Un tempo, invece, a parte qualche crisi, facevo e avevo una vita normale, con amici, attività, interessi... ora è come se si fosse appiattito tutto. È come se mi avessero privato della mia personalità...
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 45.4k 1k
Una storia di questo tipo ci sta con una diagnosi di tipo bipolare, minore magari in termini di fasi di eccitamento. Bisognerebbe capire se la personalità ha favorito queste interazioni, e per esempio perché, se non migliorava, i familiari non si siano interessati di parlare coi medici.
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