Mancato riconoscimento dei familiari
Gentili dottori,
mia sorella (18 anni) da poco ha subito un ricovero per una psicosi acuta.
Dopo lo stato di 'sedazione' iniziale e di pensieri molto confusi, dopo una terapia che non ha attecchito (mia sorella era caduta in stato catatonico), attualmente le stanno fornendo una terapia che sembra funzionare, ovvero 2 pastiglie di Zyprexa da 10mg (una la mattina, una la sera) e 3 pastiglie di litio.
Vista la giovane età di mia sorella e visto che si tratta di un primo episodio psicotico, i dottori sono cauti nella diagnosi, e mi hanno detto che dopo un mese di osservazione stanno 'oscillando' anche loro tra una diagnosi di schizofrenia e una di disturbo schizoaffettivo (visto che sembra presentare disturbi dell'umore, controllati con il litio).
Ora, il problema è il seguente: è vero che mia sorella con i farmaci è migliorata, sia nell'attenzione che nello stare fisicamente in piedi e attiva, ma ora sta prendendo molto male il ricovero (in parte la capisco, visto che è ricoverata da un mese, non essendo mai entrata in ospedale prima, la situazione la spaventa, e meglio sta più vuole uscire) e dà totalmente a noi familiari la colpa di tutto, dicendo che 'non siamo noi' in quanto i 'veri noi' non l'avrebbero mai rinchiusa in un 'manicomio' (parole sue).
Ora, questo suo comportamento è molto oscillante, in quanto comunque ci chiama per nome, comunque dice che vuole tornare a casa con noi ma a volte è come se non si fidasse.
I medici che l'hanno in cura, dopo un mese di ricovero, hanno costatato il miglioramento (rispetto all'inizio in cui il suo stato era fortemente confusionale), e ci hanno comunicato che ora spetta a noi decidere quando dimetterla.
Le nostre paure sono le seguenti: da una parte pensiamo che sia meglio farla uscire, visto che lei ora che sta meglio sta tollerando davvero poco l'ospedale e lo stare lì, quindi magari forzarla a restare può essere controproducente anche nel convincersi effettivamente che non siamo noi la sua famiglia, dall'altro abbiamo paura che uscendo possa avere uno shock della realtà, non riconoscerci e non so, andare via di casa chissà dove o comunque decidere di interrompere in modo brusco i medicinali (ora si lamenta comunque dei medicinali, ma appena l'infermiere passa li prende tutti senza batter ciglio).
Questa accentuazione del mancato riconoscimento l'abbiamo notata negli ultimi giorni, c'era stato un netto miglioramento, aveva ricominciato a sorridere e capire l'ironia, ma la permanenza lì sembra la stia deteriorando.
Voi cosa ci consigliate di fare? I dottori che l'hanno in cura, conoscendola sanno che non è pericolosa, che comunque ha un legame molto stretto con noi (con me piange al telefono e mi dice che mi vuole tanto bene) e quindi hanno lasciato a noi la scelta,ma quando sta troppo tempo con noi ha questi momenti di 'paranoia'.
Gli psicofarmaci che assume possono effettivamente stabilizzarla in un senso 'positivo' nel caso di questi 'deliri'? quali sono più o meno le tempistiche?
Grazie mille
mia sorella (18 anni) da poco ha subito un ricovero per una psicosi acuta.
Dopo lo stato di 'sedazione' iniziale e di pensieri molto confusi, dopo una terapia che non ha attecchito (mia sorella era caduta in stato catatonico), attualmente le stanno fornendo una terapia che sembra funzionare, ovvero 2 pastiglie di Zyprexa da 10mg (una la mattina, una la sera) e 3 pastiglie di litio.
Vista la giovane età di mia sorella e visto che si tratta di un primo episodio psicotico, i dottori sono cauti nella diagnosi, e mi hanno detto che dopo un mese di osservazione stanno 'oscillando' anche loro tra una diagnosi di schizofrenia e una di disturbo schizoaffettivo (visto che sembra presentare disturbi dell'umore, controllati con il litio).
Ora, il problema è il seguente: è vero che mia sorella con i farmaci è migliorata, sia nell'attenzione che nello stare fisicamente in piedi e attiva, ma ora sta prendendo molto male il ricovero (in parte la capisco, visto che è ricoverata da un mese, non essendo mai entrata in ospedale prima, la situazione la spaventa, e meglio sta più vuole uscire) e dà totalmente a noi familiari la colpa di tutto, dicendo che 'non siamo noi' in quanto i 'veri noi' non l'avrebbero mai rinchiusa in un 'manicomio' (parole sue).
Ora, questo suo comportamento è molto oscillante, in quanto comunque ci chiama per nome, comunque dice che vuole tornare a casa con noi ma a volte è come se non si fidasse.
I medici che l'hanno in cura, dopo un mese di ricovero, hanno costatato il miglioramento (rispetto all'inizio in cui il suo stato era fortemente confusionale), e ci hanno comunicato che ora spetta a noi decidere quando dimetterla.
Le nostre paure sono le seguenti: da una parte pensiamo che sia meglio farla uscire, visto che lei ora che sta meglio sta tollerando davvero poco l'ospedale e lo stare lì, quindi magari forzarla a restare può essere controproducente anche nel convincersi effettivamente che non siamo noi la sua famiglia, dall'altro abbiamo paura che uscendo possa avere uno shock della realtà, non riconoscerci e non so, andare via di casa chissà dove o comunque decidere di interrompere in modo brusco i medicinali (ora si lamenta comunque dei medicinali, ma appena l'infermiere passa li prende tutti senza batter ciglio).
Questa accentuazione del mancato riconoscimento l'abbiamo notata negli ultimi giorni, c'era stato un netto miglioramento, aveva ricominciato a sorridere e capire l'ironia, ma la permanenza lì sembra la stia deteriorando.
Voi cosa ci consigliate di fare? I dottori che l'hanno in cura, conoscendola sanno che non è pericolosa, che comunque ha un legame molto stretto con noi (con me piange al telefono e mi dice che mi vuole tanto bene) e quindi hanno lasciato a noi la scelta,ma quando sta troppo tempo con noi ha questi momenti di 'paranoia'.
Gli psicofarmaci che assume possono effettivamente stabilizzarla in un senso 'positivo' nel caso di questi 'deliri'? quali sono più o meno le tempistiche?
Grazie mille
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Quando starà bene vi riconoscerà benissimo, in effetti vi riconosce anche ora ma probabilmente (se non sta calcando un po' la mano per convincervi a portarla a casa) ha ancora una tendenza a certe interpretazioni di tipo psicotico, pur se attenuate rispetto a prima.
Non conoscendola non le so dire se è già in grado di tornare a casa e seguire la terapia con voi, da una parte l'ambiente psichiatrico ospedaliero è giocoforza un po' sgradevole, dall'altra una guarigione non ancora completa e stabile potrebbe comportare problemi (ricadute, abbandono delle cure, etc)
I medici sembra non si pronuncino ma forse ancora qualche giorno può essere una scelta prudente. Quando sarà passato un po' di tempo vi "perdonerà" volentieri, lo fate per la sua salute.
Cordialità
Non conoscendola non le so dire se è già in grado di tornare a casa e seguire la terapia con voi, da una parte l'ambiente psichiatrico ospedaliero è giocoforza un po' sgradevole, dall'altra una guarigione non ancora completa e stabile potrebbe comportare problemi (ricadute, abbandono delle cure, etc)
I medici sembra non si pronuncino ma forse ancora qualche giorno può essere una scelta prudente. Quando sarà passato un po' di tempo vi "perdonerà" volentieri, lo fate per la sua salute.
Cordialità
Mario Savino
medico
Specialista in Psichiatria
[#2]
Ex utente
Gentile Dottore,
Grazie mille per la sua risposta, le sue parole mi sono state davvero di conforto.
Anche i dottori che l'hanno in cura hanno detto che sembra che lei calchi un po' la mano su questo mancato riconoscimento, ad esempio davanti al dottore ha detto che siamo delle controfigure, dopo quando siamo rimasti solo noi ci ha chiesto scusa e detto che ci vuole tanto bene.
La difficoltà sta nel fatto che non sempre è cosciente del problema che ha avuto, a volte sembra non ricordare il perchè l'abbiamo portata lì ed è molto impaurita dall'effetto che i medicinali stanno avendo su di lei.
Per questo nei momenti in cui ci sembra che non ci riconosca (benchè poi quando le dico ad esempio 'vabè allora me ne vado' mi chiede di restare) non sappiamo come controbattere, se contraddirla, cercare di farla ragionare o semplicemente cambiare discorso. Nei momenti di lucidità, è una persona molto intelligente, per fortuna visto l'intervento tempestivo non credo abbia perso capacità cognitive, se non una leggera perdita di concentrazione, che credo che sia data sia dai farmaci che sta assumendo che dal fatto che stia in un ambiente in ogni caso poco stimolante.
I dottori hanno detto che può uscire dopo un esame al pancreas (presenta dei valori sballati) che farà tra mercoledì e giovedì, quindi anche se con riluttanza, le ho fatto scrivere su un foglio un '- 3' per cercare di ancorarla un po' di più alla realtà, cominciare a farla abituare all'idea dell'uscita e soprattutto a riferimenti temporali che le sono del tutto mancati nell'ultimo periodo (è in ospedale da un mese ma ne parla come se fossero passati 5/6 mesi, data l'intensità del ricovero, lo stato confusionale e anche poverina dell'esperienza traumatica che ha vissuto).
Un ultimo consiglio che le chiedo è il come comportarci nel caso in cui, tornata a casa, non voglia assumere medicinali, se 'forzarla', ingannarla (sciogliendoli ad esempio in qualche cibo o acqua), iniziare subito con l'incoraggiamento del medico del CSM che la seguirà (anche se non la conosce ancora ,perchè dobbiamo ancora entrare in contatto con lui) o cercare da subito che sia lei ad autogestirsi (so che sembra un'assurdità all'inizio ma anche se sempre riluttante è una persona molto responsabile e nonostante qualche iniziale titubanza li ha sempre presi, forse perchè in fondo in fondo sa di stare almeno un po' meglio).
Quale potrebbe essere la modalità migliore?
I medici ci hanno detto di valutare il caso in base alla situazione, ma sto cercando di raccogliere più informazioni possibili per cercare di fare la scelta 'più' giusta (probabilmente quella giusta non esiste) e minimizzare i danni.
Grazie mille per la sua risposta, le sue parole mi sono state davvero di conforto.
Anche i dottori che l'hanno in cura hanno detto che sembra che lei calchi un po' la mano su questo mancato riconoscimento, ad esempio davanti al dottore ha detto che siamo delle controfigure, dopo quando siamo rimasti solo noi ci ha chiesto scusa e detto che ci vuole tanto bene.
La difficoltà sta nel fatto che non sempre è cosciente del problema che ha avuto, a volte sembra non ricordare il perchè l'abbiamo portata lì ed è molto impaurita dall'effetto che i medicinali stanno avendo su di lei.
Per questo nei momenti in cui ci sembra che non ci riconosca (benchè poi quando le dico ad esempio 'vabè allora me ne vado' mi chiede di restare) non sappiamo come controbattere, se contraddirla, cercare di farla ragionare o semplicemente cambiare discorso. Nei momenti di lucidità, è una persona molto intelligente, per fortuna visto l'intervento tempestivo non credo abbia perso capacità cognitive, se non una leggera perdita di concentrazione, che credo che sia data sia dai farmaci che sta assumendo che dal fatto che stia in un ambiente in ogni caso poco stimolante.
I dottori hanno detto che può uscire dopo un esame al pancreas (presenta dei valori sballati) che farà tra mercoledì e giovedì, quindi anche se con riluttanza, le ho fatto scrivere su un foglio un '- 3' per cercare di ancorarla un po' di più alla realtà, cominciare a farla abituare all'idea dell'uscita e soprattutto a riferimenti temporali che le sono del tutto mancati nell'ultimo periodo (è in ospedale da un mese ma ne parla come se fossero passati 5/6 mesi, data l'intensità del ricovero, lo stato confusionale e anche poverina dell'esperienza traumatica che ha vissuto).
Un ultimo consiglio che le chiedo è il come comportarci nel caso in cui, tornata a casa, non voglia assumere medicinali, se 'forzarla', ingannarla (sciogliendoli ad esempio in qualche cibo o acqua), iniziare subito con l'incoraggiamento del medico del CSM che la seguirà (anche se non la conosce ancora ,perchè dobbiamo ancora entrare in contatto con lui) o cercare da subito che sia lei ad autogestirsi (so che sembra un'assurdità all'inizio ma anche se sempre riluttante è una persona molto responsabile e nonostante qualche iniziale titubanza li ha sempre presi, forse perchè in fondo in fondo sa di stare almeno un po' meglio).
Quale potrebbe essere la modalità migliore?
I medici ci hanno detto di valutare il caso in base alla situazione, ma sto cercando di raccogliere più informazioni possibili per cercare di fare la scelta 'più' giusta (probabilmente quella giusta non esiste) e minimizzare i danni.
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Deve curarsi ed è meglio, soprattutto all'inizio, che sia una terza persona a somministrarle la cura. Purtroppo spesso ci si sente guariti, a volte si pensa di non avere nessuna malattia e la riduzione o sospensione delle cure favorisce le ricadute. Questi disturbi diventano più gravi e più frequenti se si presentano delle ricadute, bisogna tutelare il suo benessere futuro e la cura va mantenuta a tutti i costi, mi raccomando
Se poi, fra un po' di tempo, il Medico curante specialista che la segue riterrà che possa essersi trattato di un episodio "singolo" allora guiderà la Pz. nella riduzione del farmaco ed, eventualmente, la sospensione. Ricordate sempre però che il nemico è il disturbo, non la cura
Un caro saluto
Se poi, fra un po' di tempo, il Medico curante specialista che la segue riterrà che possa essersi trattato di un episodio "singolo" allora guiderà la Pz. nella riduzione del farmaco ed, eventualmente, la sospensione. Ricordate sempre però che il nemico è il disturbo, non la cura
Un caro saluto
[#4]
Ex utente
Gentile Dottore,
Grazie ancora per la risposta e per la disponibilità.
Sicuramente monitoreremo la corretta assunzione dei farmaci, ci teniamo molto a lei e vorremmo fare in modo che soffra il meno possibile. Anche se ci può apparire un po' distaccata e fredda, soprattutto quando ci respinge, sappiamo benissimo che purtroppo in questa situazione è lei quella che sta soffrendo più di tutti.
Un'ultima (spero) domanda: secondo la sua esperienza, nel proseguo della cura, quale impatto può avere una psicoterapia, oltre alla cura farmacologica?
Ovviamente ci rivolgeremo al medico del CSM e chiederemo anche informazioni a lui/lei, ma ci chiedevamo se è il caso di intraprendere quasi subito una psicoterapia, o se per i primi tempi è il caso solo di una cura farmacologica e riposo.
Caratterialmente mia sorella tende a tenersi dentro tutte le emozioni e questo, insieme all'aumento di stress dell'ultimo periodo,potrebbe aver aperto il 'vaso di pandora' che si portava dentro da anni, sempre che ci sia stata effettivamente una componente ambientale in questa situazione.
Imparare a gestire le sue emozioni magari potrebbe darle un aiuto anche in caso si dovessero ripresentare situazioni del genere.
Mi scuso ancora per il disturbo, ma essendo la prima volta che ci troviamo davanti ad una situazione del genere, siamo abbastanza spaventati e non sappiamo davvero come comportarci per poterle arrecare il minor danno possibile, oltre a quello che già sta subendo.
Grazie ancora per la risposta e per la disponibilità.
Sicuramente monitoreremo la corretta assunzione dei farmaci, ci teniamo molto a lei e vorremmo fare in modo che soffra il meno possibile. Anche se ci può apparire un po' distaccata e fredda, soprattutto quando ci respinge, sappiamo benissimo che purtroppo in questa situazione è lei quella che sta soffrendo più di tutti.
Un'ultima (spero) domanda: secondo la sua esperienza, nel proseguo della cura, quale impatto può avere una psicoterapia, oltre alla cura farmacologica?
Ovviamente ci rivolgeremo al medico del CSM e chiederemo anche informazioni a lui/lei, ma ci chiedevamo se è il caso di intraprendere quasi subito una psicoterapia, o se per i primi tempi è il caso solo di una cura farmacologica e riposo.
Caratterialmente mia sorella tende a tenersi dentro tutte le emozioni e questo, insieme all'aumento di stress dell'ultimo periodo,potrebbe aver aperto il 'vaso di pandora' che si portava dentro da anni, sempre che ci sia stata effettivamente una componente ambientale in questa situazione.
Imparare a gestire le sue emozioni magari potrebbe darle un aiuto anche in caso si dovessero ripresentare situazioni del genere.
Mi scuso ancora per il disturbo, ma essendo la prima volta che ci troviamo davanti ad una situazione del genere, siamo abbastanza spaventati e non sappiamo davvero come comportarci per poterle arrecare il minor danno possibile, oltre a quello che già sta subendo.
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La componente ambientale è senz'altro importante, lo è per tutti i disturbi, anche per l'ipertensione, la gastrite, le malattie dermatologiche e così via, figuriamoci per la depressione e i disturbi mentali in genere. La psicoterapia è utilissima a patto che l'operatore sia esperto di psicosi e disturbi bipolari.
Mi spiego: la psicoterapia in questi casi è utile come supporto, conoscenza di se ed altro ma anche per aiutare la "coscienza di malattia" (cioè insegnare al Paziente che soffre di un disturbo e deve liberarsene e che quello che è successo non è semplicemente il frutto di stanchezza, stress e così via). Lo psicoterapeuta deve anche motivare il Paziente a seguire scrupolosamente la terapia ed a riconoscere gli eventuali segni precoci di un peggioramento.
Purtroppo una minoranza di psicoterapeuti è ancora convinta che questi disturbi non vadano curati con farmaci (tutti sbagliamo, anche noi che seguiamo le indicazioni internazionali sulla cura di questi disturbi). Lo fanno in buona fede ma abbandonare la cura troppo presto è solitamente deleterio, quindi - come per la scelta dello Psichiatra - attenzione anche nella scelta dello Psicoterapeuta.
Utile contattare, ritengo, la società italiana di terapia cognitivo-comportamentale facendosi segnalare dei nominativi in zona.
Al di fuori della fase acuta ritengo senz'altro l'opera dello Psicoterapeuta più completa, utile ed importante di quella dello Psichiatra, purché sia una collaborazione e non una contrapposizione.
Con viva cordialità
Mi spiego: la psicoterapia in questi casi è utile come supporto, conoscenza di se ed altro ma anche per aiutare la "coscienza di malattia" (cioè insegnare al Paziente che soffre di un disturbo e deve liberarsene e che quello che è successo non è semplicemente il frutto di stanchezza, stress e così via). Lo psicoterapeuta deve anche motivare il Paziente a seguire scrupolosamente la terapia ed a riconoscere gli eventuali segni precoci di un peggioramento.
Purtroppo una minoranza di psicoterapeuti è ancora convinta che questi disturbi non vadano curati con farmaci (tutti sbagliamo, anche noi che seguiamo le indicazioni internazionali sulla cura di questi disturbi). Lo fanno in buona fede ma abbandonare la cura troppo presto è solitamente deleterio, quindi - come per la scelta dello Psichiatra - attenzione anche nella scelta dello Psicoterapeuta.
Utile contattare, ritengo, la società italiana di terapia cognitivo-comportamentale facendosi segnalare dei nominativi in zona.
Al di fuori della fase acuta ritengo senz'altro l'opera dello Psicoterapeuta più completa, utile ed importante di quella dello Psichiatra, purché sia una collaborazione e non una contrapposizione.
Con viva cordialità
Questo consulto ha ricevuto 5 risposte e 2.7k visite dal 05/05/2014.
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