Diritto a diagnosi
Vorrei sapere se il paziente psichiatrico ("leggero" xanax, depakin, e exefor, dosi minime) ha diritto ad avere il rilascio di una diagnosi dal proprio psichiatra curante. Io credo che si tratti di un normale diritto come per tutti gli ammalati. Grazie. Lo Psichiatra che si rifiuti in quale errore incorre? Professionale? Deontologico?
[#1]
Gentile utente,
non è del tutto chiaro quello che dice tra le parentesi. In merito alla diagnosi le posso dire che personalmente comunico sempre la diagnosi ai miei pazienti: altri colleghi si comportano in scienza e coscienza in modo differente.
Ha chiesto al suo curante la diagnosi precisa?
Che risposta ha ottenuto?
non è del tutto chiaro quello che dice tra le parentesi. In merito alla diagnosi le posso dire che personalmente comunico sempre la diagnosi ai miei pazienti: altri colleghi si comportano in scienza e coscienza in modo differente.
Ha chiesto al suo curante la diagnosi precisa?
Che risposta ha ottenuto?
Cordialmente
www.psichiatriasessuologia.com
[#2]
Gentile utente,
aggiungo anche un mio commento. Aspetto anch'io le Sue risposte alle domande che Le ha appena posto il mio collega.
Non posso risponderLe dal punto di vista legale (per gli aspetti legali bisogna scrivere alla sezione di "Medicina Legale e delle Assicurazioni" del nostro sito), ma in base alla mia esperienza clinica.
Il sapere la propria diagnosi è "un normale diritto come per tutti gli ammalati", come scrive Lei (sia per gli ammalati "gravi", sia per quelli "leggeri"). Possono esserci però le situazioni nei quali la dagnosi non può essere comunicata, perché non è ancora abbastanza chiara allo specialista stesso (talvolta anche nella luce del cambiamento del decorso della malattia o quando compaiono elementi nuovi). Oppure lo specialista può astenersi dall'esprimersi chiaramente se valuta che la diagnosi può essere fraintesa, malinterpretata dal paziente e dunque può avere un impatto negativo, antiterapeutico in un dato periodo, compromettere le condizioni psichiche della persona. In entrambi i casi si tratta degli ostacoli teoreticamente temporanei, limitati alla fase della valutazione o della rivalitazione oppure alla fase di assenza di compenso sufficiente della malattia. In questi casi comunque, secondo il mio modesto parere, non sempre si tratta di un errore.
Tuttavia, la presenza di una certa farmacoterapia implica anche la presenza della diagnosi della malattia per la quale tale terapia è stata prescritta. Non sarebbe possibile prescriverla senza almeno un'ipotesi diagnostica iniziale.
Se invece Lei parla del "rilascio" di un certificato, il discorso potrebbe essere diverso, perché, siccome si tratta di una documentazione importante, il medico può guardarsi bene dal fare una certificazione erronea.
Secondo le norme deontologiche, quanto io sappia, il medico non può rifiutarsi di rilasciare direttamente al paziente il certificato attestante il suo stato di salute, a meno che ce ne sia un giustificato motivo ad un tale rifiuto (*), e, rilasciandolo, il medico dovrebbe sempre limitarsi agli aspetti prettamente clinici e direttamente riscontrati.
Fra i motivi del rifiuto (*), potrebbero esserci anche alcune problematiche trattate non più dalla deontologia, ma dalle norme penali, come ad esempio la falsità della certificazione o il rilascio dei certificati in comodo (nei quali il medico potrebbe non volere incorrere). Inoltre, esistono vari tipi di certificati, a secondo dello scopo, fra questi esistono obbligatori e no. Bisogna appunto, anche capire se nell'attestare la Sua diagnosi il Suo specialista non veda una spinta da parte Sua di fare una certificazione di comodo.
Un altro motivo del rifiuto (*) potrebbe riguardare alcuni aspetti deontologiche: il rilascio di una certificazione con la diagnosi, la quale il paziente presenta ai terzi, potrebbe ledere la privacy del paziente stesso. Il paziente può decidere di sacrificare questi aspetti della Sua privacy, ma non sempre si rende conto delle conseguenze (e, in alcuni di questi casi, il medico potrebbe voler tutelare il paziente, non certificando). Il paziente è libero di comunicare ai terzi (a chi decide lui) la Sua diagnosi, ma un conto se lo decide il paziente stesso e un altro conto se lo fa il medico, il quale è tenuto al segreto professionale. Inoltre, non di rado i pazienti chiedono di certificare loro diagnosi, ma andando oltre a quello che è stato direttamente riscontrato, oppure, comunicare solo una parte, quella che serve allo scopo del paziente, e per il resto mantenere la privacy: questo però crea problemi dl punto di vista della verdicità o della obbiettività del certificato, ai quali dovrà rispondere il medico.
Comunque, sono abbastanza sicuro che il compito del rilascio dei certificati riguarda tradizionalmente il medico della mutua, ed il procedimento corretto (soprattutto se si tratta di una certificazione ad esempio ai fini assicurativi, legali, assistenziali) potrebbe essere di rivolgersi al medico della mutua, il quale può richiedere una rispettiva relazione allo specialista, e, se lo specialista lo rifiuta, dovrebbe spiegarne il motivo al medico della mutua. Se l'informazione, secondo il medico della mutua è importante, eventualmente si cerca un altro specialista.
aggiungo anche un mio commento. Aspetto anch'io le Sue risposte alle domande che Le ha appena posto il mio collega.
Non posso risponderLe dal punto di vista legale (per gli aspetti legali bisogna scrivere alla sezione di "Medicina Legale e delle Assicurazioni" del nostro sito), ma in base alla mia esperienza clinica.
Il sapere la propria diagnosi è "un normale diritto come per tutti gli ammalati", come scrive Lei (sia per gli ammalati "gravi", sia per quelli "leggeri"). Possono esserci però le situazioni nei quali la dagnosi non può essere comunicata, perché non è ancora abbastanza chiara allo specialista stesso (talvolta anche nella luce del cambiamento del decorso della malattia o quando compaiono elementi nuovi). Oppure lo specialista può astenersi dall'esprimersi chiaramente se valuta che la diagnosi può essere fraintesa, malinterpretata dal paziente e dunque può avere un impatto negativo, antiterapeutico in un dato periodo, compromettere le condizioni psichiche della persona. In entrambi i casi si tratta degli ostacoli teoreticamente temporanei, limitati alla fase della valutazione o della rivalitazione oppure alla fase di assenza di compenso sufficiente della malattia. In questi casi comunque, secondo il mio modesto parere, non sempre si tratta di un errore.
Tuttavia, la presenza di una certa farmacoterapia implica anche la presenza della diagnosi della malattia per la quale tale terapia è stata prescritta. Non sarebbe possibile prescriverla senza almeno un'ipotesi diagnostica iniziale.
Se invece Lei parla del "rilascio" di un certificato, il discorso potrebbe essere diverso, perché, siccome si tratta di una documentazione importante, il medico può guardarsi bene dal fare una certificazione erronea.
Secondo le norme deontologiche, quanto io sappia, il medico non può rifiutarsi di rilasciare direttamente al paziente il certificato attestante il suo stato di salute, a meno che ce ne sia un giustificato motivo ad un tale rifiuto (*), e, rilasciandolo, il medico dovrebbe sempre limitarsi agli aspetti prettamente clinici e direttamente riscontrati.
Fra i motivi del rifiuto (*), potrebbero esserci anche alcune problematiche trattate non più dalla deontologia, ma dalle norme penali, come ad esempio la falsità della certificazione o il rilascio dei certificati in comodo (nei quali il medico potrebbe non volere incorrere). Inoltre, esistono vari tipi di certificati, a secondo dello scopo, fra questi esistono obbligatori e no. Bisogna appunto, anche capire se nell'attestare la Sua diagnosi il Suo specialista non veda una spinta da parte Sua di fare una certificazione di comodo.
Un altro motivo del rifiuto (*) potrebbe riguardare alcuni aspetti deontologiche: il rilascio di una certificazione con la diagnosi, la quale il paziente presenta ai terzi, potrebbe ledere la privacy del paziente stesso. Il paziente può decidere di sacrificare questi aspetti della Sua privacy, ma non sempre si rende conto delle conseguenze (e, in alcuni di questi casi, il medico potrebbe voler tutelare il paziente, non certificando). Il paziente è libero di comunicare ai terzi (a chi decide lui) la Sua diagnosi, ma un conto se lo decide il paziente stesso e un altro conto se lo fa il medico, il quale è tenuto al segreto professionale. Inoltre, non di rado i pazienti chiedono di certificare loro diagnosi, ma andando oltre a quello che è stato direttamente riscontrato, oppure, comunicare solo una parte, quella che serve allo scopo del paziente, e per il resto mantenere la privacy: questo però crea problemi dl punto di vista della verdicità o della obbiettività del certificato, ai quali dovrà rispondere il medico.
Comunque, sono abbastanza sicuro che il compito del rilascio dei certificati riguarda tradizionalmente il medico della mutua, ed il procedimento corretto (soprattutto se si tratta di una certificazione ad esempio ai fini assicurativi, legali, assistenziali) potrebbe essere di rivolgersi al medico della mutua, il quale può richiedere una rispettiva relazione allo specialista, e, se lo specialista lo rifiuta, dovrebbe spiegarne il motivo al medico della mutua. Se l'informazione, secondo il medico della mutua è importante, eventualmente si cerca un altro specialista.
Dr. Alex Aleksey Gukov
[#3]
Utente
No, no.... Grazie per le approfondite rsiposte,di cui farò in ogni caso tesoro.
Ma, nel mio caso, si è trattato semplicemente di un capriccio isterico del medico, una giovane donna, la quale mi aveva già promesso il certificato sulla diagnosi. L'unica cosa di cui si discuteva era le modalità, date le distanze: si era scelto il fax per una certa data, ora data stabilire sul momento. La persona che doveva riceverlo è rimasta 2 giorni incollata sulla sedia (sul posto di lavoro, cercando di allontanrsi il meno possibile), mentre la dottoressa non rispondeva nè a sms, nè a squilli, ma, ogni tanto, la si trovava col cellulare occupato. Infine, non potendosi protrarre all'infinito questa situazione, le ho mandato un sms in cui le dicevo della condizione di empasse in cui ci trovavamo io e mia moglie, e che mi sentivo un po' deluso: al che, mi è pervenuto un messaggio sarcastico che diceva:" E che? Vorrebbe che io uscissi apposta di casa per il suo fax? Glielo manderò con posta ordinaria, e, per tutto il resto, si rivolga ad altro collega!". Incidentalmente, le assicuro che la dottoressa non si trovava affatto a casa, ma sul luogo di lavoro, da dove, appunto, è solita mandare i fax. Le assicuro anche che, in tuttala vicenda, mi sono rivolto a lei in toni sempre dimessi ed educati. Grazie.
Ma, nel mio caso, si è trattato semplicemente di un capriccio isterico del medico, una giovane donna, la quale mi aveva già promesso il certificato sulla diagnosi. L'unica cosa di cui si discuteva era le modalità, date le distanze: si era scelto il fax per una certa data, ora data stabilire sul momento. La persona che doveva riceverlo è rimasta 2 giorni incollata sulla sedia (sul posto di lavoro, cercando di allontanrsi il meno possibile), mentre la dottoressa non rispondeva nè a sms, nè a squilli, ma, ogni tanto, la si trovava col cellulare occupato. Infine, non potendosi protrarre all'infinito questa situazione, le ho mandato un sms in cui le dicevo della condizione di empasse in cui ci trovavamo io e mia moglie, e che mi sentivo un po' deluso: al che, mi è pervenuto un messaggio sarcastico che diceva:" E che? Vorrebbe che io uscissi apposta di casa per il suo fax? Glielo manderò con posta ordinaria, e, per tutto il resto, si rivolga ad altro collega!". Incidentalmente, le assicuro che la dottoressa non si trovava affatto a casa, ma sul luogo di lavoro, da dove, appunto, è solita mandare i fax. Le assicuro anche che, in tuttala vicenda, mi sono rivolto a lei in toni sempre dimessi ed educati. Grazie.
[#4]
Utente
Mi spiace che dopo una "corrente di pensiero"... deponente in misura prevalente per la soluzione affermativa (io, invero, la definirei un obbligo giuridico-sinallagmatico/deontologico e diritto del malato, più che materia di libera disquisizione, al di là delle eccezioni più gravi), le risposte al quesito si siano immediatamente bloccate dopo che ho descritto del comportamento della Vs. Collega.
Persistendo a tutt'oggi l'inadempimento della Psichiatra, alla quale ammetto di aver comunque inviato na dura lettera, chiedo quale sia l'Ordine Medico competente al quale io possa rivolgermi a tutela delle mie ragioni. Grazie.
Persistendo a tutt'oggi l'inadempimento della Psichiatra, alla quale ammetto di aver comunque inviato na dura lettera, chiedo quale sia l'Ordine Medico competente al quale io possa rivolgermi a tutela delle mie ragioni. Grazie.
[#5]
Gentile utente,
pensavo, erroneamente, che le risposte precedenti sono state abbastanza esaustive, che anche la Sua replica precedente chiariva ulteriormente le cose, e che a Lei era già tutto chiaro, ma ora vedo che purtroppo non è così.
Potrei rescrivere la mia replica precedente, e aggiungere che nel Suo caso, come da Lei descritto nei maggiori dettagli, il rifiuto di certificare non c'è stato (se la dottoressa intende di inviare il documento per posta direttamente a Lei), e, secondo me, non c'è stata una violazione deontologica nel senso stretto, ma invece una problematica legata all'atteggiamento, alla relazione fra di voi (ai toni usati, al grado di considerazione al singolo caso, alla puntualità negli impegni presi, ecc.), anche l'assenza del sufficiente rapporto di fiducia.
In tali condizioni, la cosa più corretta sarebbe cercare un altro specialista, perché nelle condizioni di fiducia insufficiente non si può lavorare. E se questo certificato, che deve arrivare dalla dottoressa, tarda ad arrivare, l'Ordine dei Medici (quello al quale il medico è iscritto), quanto io sappia, può accogliere la lamentella, la segnalazione ecc., e può agire come riterrà opportuno e corretto nei confronti del medico, ma non provvede che un medico iscritto invia un dato certificato ad un dato paziente, non risolve il prolbema dal punto di vista pratico. Ne potrebbero occuparsi invece le altre figure, alle quali bisognerebbe delegare i rapporti con la dottoressa: il medico di base, come ho scritto prima, il medico legale, ed il nuovo specialista che potrà seguirLa.
Lei può comunque chiedere un consulto anche nella sezione della "Medicina Legale e delle Assicurazioni" del nostro sito. Comunque, in ogni modo, le risposte date via internet, anche da noi, specialisti, non sono da intendere come pareri utili per sostenere la questione dal punto di vista decisionale, normativa o legale. Per questo esistono i medici specializzati nella Medicina Legale, ad uno dei quale Lei può chiedere la visita.
un saluto
pensavo, erroneamente, che le risposte precedenti sono state abbastanza esaustive, che anche la Sua replica precedente chiariva ulteriormente le cose, e che a Lei era già tutto chiaro, ma ora vedo che purtroppo non è così.
Potrei rescrivere la mia replica precedente, e aggiungere che nel Suo caso, come da Lei descritto nei maggiori dettagli, il rifiuto di certificare non c'è stato (se la dottoressa intende di inviare il documento per posta direttamente a Lei), e, secondo me, non c'è stata una violazione deontologica nel senso stretto, ma invece una problematica legata all'atteggiamento, alla relazione fra di voi (ai toni usati, al grado di considerazione al singolo caso, alla puntualità negli impegni presi, ecc.), anche l'assenza del sufficiente rapporto di fiducia.
In tali condizioni, la cosa più corretta sarebbe cercare un altro specialista, perché nelle condizioni di fiducia insufficiente non si può lavorare. E se questo certificato, che deve arrivare dalla dottoressa, tarda ad arrivare, l'Ordine dei Medici (quello al quale il medico è iscritto), quanto io sappia, può accogliere la lamentella, la segnalazione ecc., e può agire come riterrà opportuno e corretto nei confronti del medico, ma non provvede che un medico iscritto invia un dato certificato ad un dato paziente, non risolve il prolbema dal punto di vista pratico. Ne potrebbero occuparsi invece le altre figure, alle quali bisognerebbe delegare i rapporti con la dottoressa: il medico di base, come ho scritto prima, il medico legale, ed il nuovo specialista che potrà seguirLa.
Lei può comunque chiedere un consulto anche nella sezione della "Medicina Legale e delle Assicurazioni" del nostro sito. Comunque, in ogni modo, le risposte date via internet, anche da noi, specialisti, non sono da intendere come pareri utili per sostenere la questione dal punto di vista decisionale, normativa o legale. Per questo esistono i medici specializzati nella Medicina Legale, ad uno dei quale Lei può chiedere la visita.
un saluto
Questo consulto ha ricevuto 5 risposte e 2.8k visite dal 04/11/2012.
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