Rapporto medico-paziente
Salve a tutti,
una situazione un po' particolare che sto vivendo mi spinge a fare una riflessione e porre una domanda. Mia moglie è seguita da una psichiatra del CIM della nostra città per dei problemi che -e qui arriva il punto che chiarirò- non mi è possibile spiegare bene. Devo inoltre chiedere scusa perchè un paio di settimane fa ho scritto un messaggio fingendo di essere io il "paziente", proprio perchè volevo cercare di capire qualcosa che sta accadendo a mia moglie. Sarà una cosa stupida, ma mi sentivo imbarazzato a parlare di mia moglie, mi sembrava quasi di non portarle rispetto chiedendo una cosa che riguardava lei.
Vengo al punto: mia moglie seguiva una terapia con Daparox, qualche goccia di haldol e stava abbastanza bene.
40 giorni fa la dottoressa le ha cambiato terapia perchè secondo lei a mia moglie serviva un'azione farmacologica diversa, prescrivendole Abilify. Da allora ha iniziato ad avere una fortissima nausea, che poi si è evoluta in vomito. La dottoressa dopo aver sostenuto a lungo che non poteva essere Abilify ha deciso di rinunciarci, passando (credo temporaneamente) a 10mg di Daparox e 15gocce di Haldol. Mia moglie però ha continuato a non riuscire a mangiare e sembra aver risolto parzialmente il problema col Levopraid, sempre prescritto dalla dottoressa. Ora, il vero punto è: la dottoressa non ha mai detto a mia moglie il perchè e il per come delle sue prescrizioni, cioè: non c'è una diagnosi (o idea di diagnosi) alla base. Forse lei lo fa pensando che mia moglie potrebbe ulteriormente spaventarsi, ma fatto sta che mia moglie mi chiede spesso "cos'avrò?", "saranno medicine giuste?" ed io -che tanto vorrei esserle di supporto- non so che cosa dire se non "fidiamoci di lei che è la specialista". Fatto sta che però sto andando in crisi pure io perchè non capisco cosa stia succedendo a mia moglie.
Secondo voi ci sono dei modi per migliorare non solo il rapporto medico-paziente, ma anche magari quello medico-familiari del paziente?
Cordiali saluti.
una situazione un po' particolare che sto vivendo mi spinge a fare una riflessione e porre una domanda. Mia moglie è seguita da una psichiatra del CIM della nostra città per dei problemi che -e qui arriva il punto che chiarirò- non mi è possibile spiegare bene. Devo inoltre chiedere scusa perchè un paio di settimane fa ho scritto un messaggio fingendo di essere io il "paziente", proprio perchè volevo cercare di capire qualcosa che sta accadendo a mia moglie. Sarà una cosa stupida, ma mi sentivo imbarazzato a parlare di mia moglie, mi sembrava quasi di non portarle rispetto chiedendo una cosa che riguardava lei.
Vengo al punto: mia moglie seguiva una terapia con Daparox, qualche goccia di haldol e stava abbastanza bene.
40 giorni fa la dottoressa le ha cambiato terapia perchè secondo lei a mia moglie serviva un'azione farmacologica diversa, prescrivendole Abilify. Da allora ha iniziato ad avere una fortissima nausea, che poi si è evoluta in vomito. La dottoressa dopo aver sostenuto a lungo che non poteva essere Abilify ha deciso di rinunciarci, passando (credo temporaneamente) a 10mg di Daparox e 15gocce di Haldol. Mia moglie però ha continuato a non riuscire a mangiare e sembra aver risolto parzialmente il problema col Levopraid, sempre prescritto dalla dottoressa. Ora, il vero punto è: la dottoressa non ha mai detto a mia moglie il perchè e il per come delle sue prescrizioni, cioè: non c'è una diagnosi (o idea di diagnosi) alla base. Forse lei lo fa pensando che mia moglie potrebbe ulteriormente spaventarsi, ma fatto sta che mia moglie mi chiede spesso "cos'avrò?", "saranno medicine giuste?" ed io -che tanto vorrei esserle di supporto- non so che cosa dire se non "fidiamoci di lei che è la specialista". Fatto sta che però sto andando in crisi pure io perchè non capisco cosa stia succedendo a mia moglie.
Secondo voi ci sono dei modi per migliorare non solo il rapporto medico-paziente, ma anche magari quello medico-familiari del paziente?
Cordiali saluti.
[#1]
Gentile utente
Sua moglie ha diritto di chiedere qualsiasi chiarimento di cui necessita sia per comprendere meglio la propria patologia sia per condividere le scelte terapeutiche che comportano la variazione del farmaco.
Una variazione fatta in questo modo non è chiara neanche a chi è del settore e pertanto un chiarimento sarebbe necessario.
Il rapporto medico-paziente dipende da entrambi quindi è difficile da stabilire come debba effettivamente essere, se caratterialmente non si è predisposti a dare spiegazioni.
Sua moglie ha diritto di chiedere qualsiasi chiarimento di cui necessita sia per comprendere meglio la propria patologia sia per condividere le scelte terapeutiche che comportano la variazione del farmaco.
Una variazione fatta in questo modo non è chiara neanche a chi è del settore e pertanto un chiarimento sarebbe necessario.
Il rapporto medico-paziente dipende da entrambi quindi è difficile da stabilire come debba effettivamente essere, se caratterialmente non si è predisposti a dare spiegazioni.
https://wa.me/3908251881139
https://www.instagram.com/psychiatrist72/
[#2]
Gentile utente,
aggiungo anche un mio commento. Mi scuso a priori del "trattato". Non parlerò della leceità di sapere la diagnosi ed i criteri della cura, ma del rapporto parenti-medico. Penso che la buona collaborazione deve avere alla base la suddivisione del lavoro e la distinzione dei ruoli, come nell'economia, se mi posso permettere tale allegoria.
In tale ottica, fare le cose e vivere la situazione al posto della paziente non è la soluzione, ed anzi, più volte è un problema nella relazione fra il medico ed i parenti (i quali, se solamente ripetono ed insistono sui problemi, anche se hanno ragione sui fatti, in tal modo, senza volere, li amplificano). E può diventare anche un problema nella relazione con l'ammallata stessa, la quale potrebbe sentirsi come se fosse incapace di dire e di chiedere le cose da sola. Condivido quello che scrive il collega, Dr Ruggiero che Sua moglie ha il diritto di chiedere qualsiasi chiarimento di cui necessita anche per partecipare alle scelte terapeutiche. Aggiungerei che, appunto, è il ruolo della Sua moglie a partecipare a tali scelte, il ruolo, che, per quanto Lei possa volere in realtà tutelare, deve essere attento a non prendere (con alcuni parenti capita ...).
Il contributo di un parente dell'ammalato può essere invece costruttivo, se il parente sa le cose delle quali forse l'ammalata stessa non si rende conto. Ora, non parlando del caso della Sua moglie, ma in generale, mi riferisco sia ai comportamenti, reazioni, idee che possiamo avvertire come "strani" o "nuovi", sia mi riferisco all'andamento della relazione affettiva che c'è con la persona ammallata, sia al suo livello di iniziativa (o, viciversa di inerzia), sia allo stato d'animo (che la persona stessa può sapere avvertire più profondamente, ma non è sempre in grado di esprimerlo, mentre la persona accanto lo può avvertire di riflesso). Queste osservazioni sono preziose per il monitoraggio e per la comprensione della malattia, ma il parente non può e non deve interpretarle da solo; ne può invece parlare con lo specialista, rispettando la privacy delll'ammallata, cioè durante la visita in presenza e con il consenso della moglie; e, se ci sono le cose che si teme di dire o si ritiene poco opportune di dire in presenza della moglie, bisogna chiedere allo specialista se si può dirle privatamente. Lo specialista in tale situazione deciderà come è meglio.
Non bisogna fare queste cose in modo assiduo, perché troppo non vuol dire meglio. Importante invece distinguere fra il proprio ruolo e quello dell'ammallata.
Penso che Lei conosca la Sua moglie da più tempo e non solo nel contesto della malattia, a differenza di quello che può conoscere lo specialista, Lei può essere utile anche per integrare le conoscenze dello specialista sulla storia della paziente. E, se ci sono stati i motivi di rivolgersi e di essere seguita da uno specialista, probabilmente Lei saprà almeno alcuni di questi motivi (senza necessariamente darne dei nomi "tecnici"). Spesso sia gli ammallati che loro parenti, pur sapendo di più della vita della persona, per vari motivi non dicono tutto, ma aspettono che il medico sappia quello che deve sapere. Però, senza la collaborazione, il medico spesso non lo sa.
E' chiaro che la diagnosi debba essere formulata. La Sua moglie chiede che cosa ha, e ne ha i motivi di voler saperlo ed il diritto, ma la comunicazione deve essere fatta in modo da avere un valore pratico. Questo valore pratico è diverso per lo psichiatra, per la Sua moglie e per Lei. Mi spiego meglio. Allo psichiatra serve per trovare la cura, alla Sua moglie per trarre più beneficio dalla cura e per avere un'idea non catastrofica ma realistica della propria condizione, mentre a Lei può servire per sapere come meglio stare accanto alla Sua moglie, come reagire alle eventuali manifestazioni della malattia e del benessere e agli effetti di cura. Ciascuno di voi avete ruoli diversi. E ciò può motivare l'utilità reciproca.
Poi, ovviamente, non tutto dipende da Lei.
aggiungo anche un mio commento. Mi scuso a priori del "trattato". Non parlerò della leceità di sapere la diagnosi ed i criteri della cura, ma del rapporto parenti-medico. Penso che la buona collaborazione deve avere alla base la suddivisione del lavoro e la distinzione dei ruoli, come nell'economia, se mi posso permettere tale allegoria.
In tale ottica, fare le cose e vivere la situazione al posto della paziente non è la soluzione, ed anzi, più volte è un problema nella relazione fra il medico ed i parenti (i quali, se solamente ripetono ed insistono sui problemi, anche se hanno ragione sui fatti, in tal modo, senza volere, li amplificano). E può diventare anche un problema nella relazione con l'ammallata stessa, la quale potrebbe sentirsi come se fosse incapace di dire e di chiedere le cose da sola. Condivido quello che scrive il collega, Dr Ruggiero che Sua moglie ha il diritto di chiedere qualsiasi chiarimento di cui necessita anche per partecipare alle scelte terapeutiche. Aggiungerei che, appunto, è il ruolo della Sua moglie a partecipare a tali scelte, il ruolo, che, per quanto Lei possa volere in realtà tutelare, deve essere attento a non prendere (con alcuni parenti capita ...).
Il contributo di un parente dell'ammalato può essere invece costruttivo, se il parente sa le cose delle quali forse l'ammalata stessa non si rende conto. Ora, non parlando del caso della Sua moglie, ma in generale, mi riferisco sia ai comportamenti, reazioni, idee che possiamo avvertire come "strani" o "nuovi", sia mi riferisco all'andamento della relazione affettiva che c'è con la persona ammallata, sia al suo livello di iniziativa (o, viciversa di inerzia), sia allo stato d'animo (che la persona stessa può sapere avvertire più profondamente, ma non è sempre in grado di esprimerlo, mentre la persona accanto lo può avvertire di riflesso). Queste osservazioni sono preziose per il monitoraggio e per la comprensione della malattia, ma il parente non può e non deve interpretarle da solo; ne può invece parlare con lo specialista, rispettando la privacy delll'ammallata, cioè durante la visita in presenza e con il consenso della moglie; e, se ci sono le cose che si teme di dire o si ritiene poco opportune di dire in presenza della moglie, bisogna chiedere allo specialista se si può dirle privatamente. Lo specialista in tale situazione deciderà come è meglio.
Non bisogna fare queste cose in modo assiduo, perché troppo non vuol dire meglio. Importante invece distinguere fra il proprio ruolo e quello dell'ammallata.
Penso che Lei conosca la Sua moglie da più tempo e non solo nel contesto della malattia, a differenza di quello che può conoscere lo specialista, Lei può essere utile anche per integrare le conoscenze dello specialista sulla storia della paziente. E, se ci sono stati i motivi di rivolgersi e di essere seguita da uno specialista, probabilmente Lei saprà almeno alcuni di questi motivi (senza necessariamente darne dei nomi "tecnici"). Spesso sia gli ammallati che loro parenti, pur sapendo di più della vita della persona, per vari motivi non dicono tutto, ma aspettono che il medico sappia quello che deve sapere. Però, senza la collaborazione, il medico spesso non lo sa.
E' chiaro che la diagnosi debba essere formulata. La Sua moglie chiede che cosa ha, e ne ha i motivi di voler saperlo ed il diritto, ma la comunicazione deve essere fatta in modo da avere un valore pratico. Questo valore pratico è diverso per lo psichiatra, per la Sua moglie e per Lei. Mi spiego meglio. Allo psichiatra serve per trovare la cura, alla Sua moglie per trarre più beneficio dalla cura e per avere un'idea non catastrofica ma realistica della propria condizione, mentre a Lei può servire per sapere come meglio stare accanto alla Sua moglie, come reagire alle eventuali manifestazioni della malattia e del benessere e agli effetti di cura. Ciascuno di voi avete ruoli diversi. E ciò può motivare l'utilità reciproca.
Poi, ovviamente, non tutto dipende da Lei.
Dr. Alex Aleksey Gukov
[#3]
Utente
Gentili Dottori,
vi ringrazio molto per le risposte. In effetti la mia maggiore difficoltà sta nell'affrontare le numerose domande di mia moglie "starò meglio prima o poi?", "prenderò pastiglie per sempre?", "Tornerò ad avere appetito?" e simili. E' già una cosa difficile di per se stessa, ma senza conoscere bene il motivo per cui le viene data una terapia è ancora peggio.
Grazie per il tempo dedicatomi.
vi ringrazio molto per le risposte. In effetti la mia maggiore difficoltà sta nell'affrontare le numerose domande di mia moglie "starò meglio prima o poi?", "prenderò pastiglie per sempre?", "Tornerò ad avere appetito?" e simili. E' già una cosa difficile di per se stessa, ma senza conoscere bene il motivo per cui le viene data una terapia è ancora peggio.
Grazie per il tempo dedicatomi.
Questo consulto ha ricevuto 3 risposte e 2k visite dal 23/03/2012.
Per rispondere esegui il login oppure registrati al sito.
Per rispondere esegui il login oppure registrati al sito.