Femminicidio patriarcato o cattiveria.

Femminicidio: patriarcato o "semplice" cattiveria?

a.devincentiis
Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta

I termini che aleggiano sui media nelle ultime settimane sono patriarcato e femminicidio e, spesso, nella non consapevolezza del vero significato dei termini.

Il concetto di patriarcato nella nostra società è solo un residuo all'interno di qualche famiglia con dinamiche piuttosto disfunzinali, mentre il termine femminicidio (che altro non è che un omicidio) non è previsto dalla nostra Costituzione che evita ogni discriminazione di genere. 

Femminicidi: il patriarcato è un capro espiatorio?

Tuttavia, sembra che in chi commetta un delitto verso una donna si voglia cercare un capro espiatorio all'esterno del soggetto stesso. Patriarcato, società maschilista, cattiva educazione e cose simili.

Ci siamo chiesti se chi commette il delitto non sia solo un assassino che ha deciso, di sua volontà, di commettere un atto criminale senza alcuna influenza sociale?

In questo video un mio approfondimento sull'argomento.

Data pubblicazione: 29 novembre 2023

23 commenti

#1
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Dr.ssa Anna Potenza

Mi sembra un ottimo articolo, che mette l'accento sull'incapacità di tollerare la frustrazione e sulla difficoltà/non volontà/disabitudine all'autocontrollo, spostandolo dal diffuso e fuorviante riferimento alla "mentalità patriarcale". Essendo molto anziana e venendo dal sud ho visto gli effetti della mentalità patriarcale, ed erano di segno opposto. Lasciamo da parte il "delitto d'onore", ipotizzabile nel matrimonio: nel fidanzamento era la donna che se veniva abbandonata dopo essere stata "disonorata" era tenuta per una sorta di regola sociale a riscattare il suo onore aggredendo il fedifrago armata di coltello, e talvolta coadiuvata dai parenti. Ma né ieri né oggi qualche prescrizione sociale recita che un uomo lasciato dalla fidanzata debba far valere una superiorità che è sempre meno percepita, anzi sempre più a rischio.

#2
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Dr.ssa Franca Scapellato

Sono d'accordo, il patriarcato è una spiegazione fuorviante. Aggiungerei che nelle statistiche dei femminicidi fanno numero (per esempio) le anziane malate uccise dal marito disperato, uccisioni che hanno una motivazione completamente diversa dalla rabbia narcisistica dell'uomo respinto, o le vittime donne di stragi familiari che sono suicidi allargati di depressi psicotici. Non c'è una spiegazione unica e per prevenire questi drammi non si può pensare a una soluzione che valga per tutto. Il "mai più" non è realistico, bisogna lavorare sul sempre meno: meno solitudine e più aiuto agli anziani soli, più informazioni alle donne anche straniere, più dialogo nelle famiglie, insomma le solite cose banali ma utili, piuttosto di proclami ideologici.

#3
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Dr.ssa Anna Potenza

Vero che il "femminicidio" si estende a categorie profondamente estranee e che molte indicazioni utili per ridurre il fenomeno sono "le solite cose banali ma utili". Tuttavia a me sembra che lo scritto di De Vincentiis metta l'accento su un fenomeno contemporaneo da affrontare con strumenti nuovi: l'incapacità di tollerare la frustrazione, cha nasce da nuovi comportamenti e credenze sociali e familiari, assieme all'incapacità di non dominare gli impulsi, se non addirittura alla scelta volontaria di questo atteggiamento. Nessuna domanda interna, nessuno scrupolo, né sulla liceità di uccidere né sulle conseguenze di quest'atto per la persona stessa che lo compie? Un disperato sentimento di insignificanza per la vita propria e altrui? Una lunga, pericolosa assuefazione all'indulgenza?

#4
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Dr.ssa Franca Scapellato

E' un mondo sempre più narcisistico, dove il fallimento non è tollerato e il senso di colpa personale non esiste, la colpa è proiettata altrove. Vale anche per le donne, che usano altri metodi, meno violenti fisicamente, ma ugualmente distruttivi: stalking, calunnie e così via.

#5
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Dr.ssa Anna Potenza

Verissimo. Sarebbe bene fare di quest'articolo l'occasione di uno scambio tra professionisti e anche utenti per l'analisi del fenomeno e le eventuali proposte correttive, in ottica bio-psico-sociale.

#6
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Dr. Armando De Vincentiis

di sicuro le proposte che emergono sui media tra presentatori, vallette e attrici sul "denunciate" "denunciate" "denunciata" sembra l'incitazione ad una sorta di isteria di massa. Ovvio che si debbano denunciare le violenze ma quante di queste sono davvero comportamenti che sarebbero sfociati in atti più pericolosi? E quante di queste sono violenze reali o la conseguenza di liti che sfociano in sfregi del tipo "ora chiamo la polizia e ti faccio vedere"! E c'è esperienza del genere non solo ipotesi

#7
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Dr.ssa Fulvia Tramontano

mi aggiungo allo scambio di idee tra colleghi, in pena condivisione della analisi che emerge, aggiungo solo un riferimento mitologico, quindi indietro nella notte dei tempi, che può aggiungere anche una diversa luce alla riflessione: penso a Pentesilea, regina delle Amazzoni, dramma portato in scena da Heinrich von Kleist che ne raccolse la storia cruenta dal mito greco successivo ad Omero. Siamo tra Achille, le Erinni, guerre in cui si trucidava l'altro come in un cartoon, nel mito come nella triste realtà odierna. Un'eroina guerriera, un'amazzone, una regina che disegna ai nostri occhi un femminile combattivo che soccombe alla fine, nella cruenta guerra.
Violenza collettiva di particolare spettacolarità quindi si evoca in questo mito, in cui tutti i personaggi incontrano sia Eros che Thanathos. Occorre mente sana per cercare di coniugarli in modo fruttuoso. Mi viene in mente oggi Pentesilea e Achille per uscire dalle odierne riduttive interpretazioni mediatiche dei delitti che troppo facilmente spostano il centro dell'analisi su aspetti di patriarcato e sociali, come voi pure ben osservate. Il mito inscena un inconscio collettivo che, anche se sconosciuto, continua ad agire, in cui uccidere violentemente è parte della Storia, di cui siamo figli. Oggi è psicopatologia, sociopatia, Narcisismo Maligno, con tutti i tratti che avete già evidenziato che diventando pervasivi creano disturbi seri alla normalità del funzionamento psichico, sicuramente nella capacità di relazionarsi.
Concordo in pieno e con forza che il problema sia nella persona prima che nel sociale, nel crollo identitario di chi si è....
Resto convinta che solo con adeguati modelli di insegnamento etico fin dalla scuola primaria fino al quinquennio della maturità si potrebbe aiutare le persone (che magari vivono anche in contesti disfunzionali) a costruire valori e beni relazionali.

#9
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Dr.ssa Anna Potenza

L'articolo non nega che la cultura in senso lato intervenga a plasmare l'intolleranza alle frustrazioni e l'agire incontrollato delle proprie emozioni, mi sembra. Restituisce però alla responsabilità anche individuale la scelta del comportamento delittuoso.

#10
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Dr. Davide Giusino

Gentil* collegh*,

grazie per gli spunti di riflessione che offrite, non solo alla comunità professionale ma soprattutto alla sua utenza, su un sensibilissimo tema attuale. Sicuramente gli episodi di femminicidio segnalano alcune caratteristiche individuali del femminicida, come l'incapacità di gestire la frustrazione e una carenza di autoregolazione.

Mi sembra tuttavia che queste non possano essere concepite come qualità innate di origine biologica, ma siano piuttosto l'esito di lunghi processi di socializzazione, educazione e interazione con l'ambiente circostante (famiglia, scuola, lavoro...), che formano infine una mentalità individuale. Processi altresì squisitamente culturali, finalizzati alla riproduzione del sistema normativo vigente, alla replicazione dello status quo. Processi collettivi che, per propria natura, tendono a conservarsi e promuoversi.

È vero che, nella pratica, ogni caso va idiograficamente esaminato per le sue specifiche peculiarità di caso singolo. D'altra parte, appiattire la definizione di femminicidio nella più generica categoria di "omicidio" significa negare l'evidenza epidemiologica del fenomeno, il fatto cioè che statisticamente molte più donne vengono uccise da uomini che non il contrario, e che questo denuncia un orientamento culturalmente determinato e condiviso, il quale si fonda sulle rappresentazioni sociali che esistono rispetto ai generi sessuali e ai ruoli tipici che tali rappresentazioni attribuiscono a ciascuno. Nel caso di specie, che alla donna viene attribuito un ruolo socialmente inferiore a quello dell'uomo.

In definitiva, il femminicida risulta incapace di tollerare la frustrazione
ma quale frustrazione? Secondo la mia prospettiva, la fristrazione di non riuscire a sottomettere una donna, come il suo ruolo sociale invece prescriverebbe. E questo viene vissuto come talmente estraneo agli equilibri di ciò che è concepito come "normale" da sfociare tragicamente in un assassinio.

Mettere in luce il contributo della cultura non significa "giustificare" o trovare un "caprio espiatorio", come l'articolo pretende. Significa piuttosto identificare una spiegazione comprensiva, un fattore esplicativo sovraordinato rispetto alle sole caratteristiche individuali.

Sottovalutare l'apporto della cultura e sminuire in particolare la diffusione della cultura patriarcale, come se fosse la patologia di qualche piccolo e isolato contesto familiare, significa invece depistare la realizzazione di soluzioni e strategie di intervento coerenti ed efficaci per il contrasto del fenomeno. Perché allora, ad esempio, qual è il ruolo della scuola? Quello di sviluppare la coscienza critica del rispetto per l'altro (l'assolutamente altro da sé, come la donna per un uomo) o quello di produrre una massa di capolavori di autocontrollo?

Mi spiace ipotizzare che una posizione come quella espressa dall'articolo in oggetto rifletta la miopia di una psicologia che "psicologizza", che patologizza gli individui a tutti i costi perché ritiene che l'unico modo di intervenire sia quello di "curare"; una psicologia che fatica ad emanciparsi dal modello medico ("la nosografia psichiatrica"...) e rifiuta di dialogare fruttuosamente con altre scienze umane come la sociologia e l'antropologia.

#11
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Utente 219XXX

"Mettere in luce il contributo della cultura non significa "giustificare" o trovare un "caprio espiatorio", come l'articolo pretende. Significa piuttosto identificare una spiegazione comprensiva, un fattore esplicativo sovraordinato rispetto alle sole caratteristiche individuali."

Pienamente d'accordo.

#12
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Dr.ssa Carla Maria Brunialti

Condivido l'articolo del Collega De Vincentiis nella sua tesi che ogni atto aggressivo implica una decisone personale, un via libera (salvo rari casi di gravi patologie psichiche o psichiatriche) a certe istanze interiori.
Ritengo tuttavia che in tale analisi manchi l'attenzione allo scenario sul quale l'evento si staglia.
Mi spiego.
Quando una 'certa' manifestazione aggressiva prende di mira una 'certa' categoria,
quando statisticamente tale tipologia aggressiva sale di numero in maniera significativa,
quando riguarda attori maschi di ogni età, uomini e ragazzini,
quando l'emergenza colpisce l'Italia e non i Paesi vicini,
allora - credo - certe domande diventano ineludibili: ci sono elementi che facilitano, che legittimano, gli agiti di cui parliamo? E se sì quali?
La risposta è assai complessa, e ognuno colloca la responsabilità (mette una bandierina) su un certo "dove". Ad es. sul luogo che conosce meglio, e di cui dunque vede tutte le carenze: la società, la scuola.
E' assai strano (ma per noi Psicolog* la parola già dice molto) che ben pochi mettano la bandierina sulla grande responsabilità della famiglia. Forse perchè tutti hanno una famiglia, se non altro d'origine, e dunque si rifugge dal colpevolizzare il proprio contesto?
Per me che mi occupo proprio di questo, facendo formazione da qualche decennio a schiere di genitori, la fragilità dei genitori di oggi è palese. Travestito da superamento di tabù ed autoritarismo, il lasciar-fare ai propri figli è diffuso, v. strumenti elettronici. Parimenti l'ansia, lo star loro addosso, il terrore che (a 20-30 anni) vadano via di casa, che non siano felici, che il lavoro li stressi troppo, che la ragazza li lasci. Ed altrettanto preoccupante il timore che i genitori hanno del conflitto con i figli (che si scarica all'interno della coppia), di cui si è persa la valenza maturativa ed evolutiva confondendolo con l'autoritarismo. E dunque, dove devono apprenderla i ragazzi, la gestione emozionale del NO se in famiglia ciò non esiste? Proprio nel luogo dove il limite del NO si sposa con l'amore genitoriale rendendo accettabile quel limite sia pure inevitabilmente doloroso?
E'ovvio che in tale modo non può che perdersi (o non si costruisce) l'alleanza educativa con la scuola e con i docenti, che a loro modo incarnano la regola. Essi a loro volta si trincerano dietro un 'insegnamento difensivo' assai simile alla .. medicina difensiva. Chi gliela fa fare di imbarcarsi in classe in discorsi che magari confinano con l'etica - rispetto tra i generi, lealtà - quando il/un* qualsiasi genitore magari si scaglia contro, rivendicando a sè il diritto di parlare di ciò? E magari non facendolo affatto?
Si distrugge così (o non si viene proprio a creare) quella rete di sostegno educativo condiviso tra adulti, che sarebbe tanto preziosa per i ragazzi (e per le ragazze).
Ovviamente tutto questo discorso può essere banalizzato, dicendo che anche i genitori sono frutto della loro epoca, bla-bla. E di conseguenza dunque la responsabilità non è mai di nessuno, e che non si può cominciare da nessuna parte a modificare la situazione perchè è troppo complessa. Tant'è.
Carla Maria

#13
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Dr. Armando De Vincentiis

a me fa strano l'insistenza su una cultura patriarcale che nella nostra società esiste solo nella testa di qualcuno. come terapeuta di origini sistemico famigliare la realtà che ho spesso osservato è una cultura piuttosto matriarcale dove in coppia si sente spesso dire, ad un invito, una organizzazione ."parlatene con mia moglie" . Questo non per denigrare ma per evidenziare il ruolo primario che nella coppia si da alla propria donna ( e non è una cosa brutta :-) . "La frustrazione di non aver sottomesso la compagna secondo la "tradizione" patriarcale" mi sembra solo una forzatura interpretativa dettata, appunto dall'idea di una società patriarcale che nei fatti NON esiste.
un femminicidio è un omicidio e l'attribuzione di genere è la moda del momento. e Molti, anche purtroppo colleghi, stanno cadendo in questa trappola.

#15
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Utente 407XXX

1. Come mai negli anni '70 '80 '90 del '900 non esistevano i femminicidi!? O erano talmente rari che non se ne parlava?! Perché non è questione solo di mentalità patriarcale ma di educazione genitoriale! Di insegnamento del bene, dell'empatia, dell'altruismo verso il prossimo! Educazione a valori che oggi manca, che i genitori non sono in grado di dare ai figli come in passato! Oggi crescono straviziati, iperprotetti, ipercoccolati, senza mai ricevere no e rimbrotti! Inoltre c'entra la psiche, l'anima: ma come si può avere il coraggio di infierire con coltellate con efferatezza e crudeltà, come una belva feroce, su un essere umano se non si è cattivi dentro, portati al male, al crimine, o se non si è degli psicopatici pericolosi?!

#16
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Dr.ssa Anna Potenza

Gentile utente, lei dice molto bene.
Credo che un elemento di disaccordo tra gli addetti ai lavori nasca dal cattivo uso del termine "patriarcato", usato indebitamente dalla stampa per prima. Come lei rileva, il patriarcato avrebbe dovuto essere più vivo nei decenni precedenti ed immediatamente successivi al '68. Invece l'uccisione delle donne che non si piegano ai dettami della legge statale o religiosa appartiene ad altre culture e non ha carattere passionale: le lapidazioni e gli strangolamenti prescritti gelidamente dalle regole vengono eseguite dai familiari delle donne che hanno tradito le norme, mai dagli innamorati.
Perfino il famigerato "delitto d'onore", introdotto in Italia nel 1931 con la legge Reali, non vedeva l'innamorato come protagonista e non aveva minimamente caratteri passionali: basta leggere quel codice.
Voglio aggiungere che nella cultura nordica, quella tradizionalmente legata all'immagine delle donne autonome, ci sono femminicidi come da noi: il paese con maggior numero di questi omicidi è la Lettonia.

#17
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Dr. Armando De Vincentiis

"ma come si può avere il coraggio di infierire con coltellate con efferatezza e crudeltà, come una belva feroce, su un essere umano se non si è cattivi dentro, portati al male, al crimine, o se non si è degli psicopatici pericolosi?!" Ottima riflessione dalla quale partire. Anche la crudeltà del delitto è indizio di problematiche gravi legate alla personalità...altro che delitto culturale!

#18
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Dr. Sergio Formentelli

Volevo portare anche io delle riflessioni un pò fuori dal coro.

Ritengo la parola stessa "femminicidio" un assurdo linguistico, oltre ad avere dei tratti di incostituzionalità quando applicata come norma di legge, da approfondire da parte dei costituzionalisti.
Presupporrebe inoltre l'esistenza logica del suo contrario, il maschicidio.

Fra gli oltre 100 considerati femminicidi dalla stampa, solo una quarantina sono identificabili come delitti per motivi di genere contro la donna in quanto tale, e inoltre sembrano in diminuzione negli anni, stando ai numeri riferiti da alcuni questori alla stampa.
Mi sono messo a spulciare da quella lista di date e i nomi.
Il primo si trattava di un omicidio compiuto dalla figlia, poi nello stesso mese un delitto che sembrava una sorta di eutanasia verso una persona estremamente anziana e sofferente, e un altro di omicidio-suicidio di una coppia anziana.
Nulla a che vedere con la violenza di genere oggetto dei media di questi giorni e delle iniziative di legge ad essa collegate (o forse solo iniziative finalizzate alla raccolta di consensi elettorali).

Non sono andato oltre, mi è bastato per capire che i dati di fatto che i mass media propinano anche questa volta sono falsi, volutamente falsi, utili a dirigere le masse verso una opinione per ottenere uno scopo ben preciso.

Qualche giorno fa ho letto un commento interessante di una persona (non medico, non psicologo) che si sente offesa in quanto donna dal termine femminicidio, sentendosi trattata come un essere inferiore, specialmente dopo tante battaglie per l'uguaglianza uomo-donna.

Il termine omicidio è più che sufficiente; ogni omicidio ha caratteristiche diverse e motivazioni diverse.
La prevaricazione culturale e fisica dell'uomo sulla donna è una di queste motivazioni; la motivazione di genere, per esempio, ma che comprende anche la violenza della donna contro l'uomo che si esplica per lo più in forme diverse, non fisiche ma psicologiche, il cui numero è probabilmente sottostimato per ragioni però diverse dalla probabile sottostima della violenza uomo su donna, e probabilmente molto vicino nei numeri delle vittime morte.
Ma questo non fa notizia ed è inoltre di conseguenza molto difficile trovare dati verificabili da fonti attendibili.

La banalità del male di Hannah Arendt.
Forse un concetto ancora poco considerato quando addittiamo il "mostro" di turno.
Il mostro in pasto al pubblico è molto comodo e utile: serve anche a non farsi domande del tipo: "potrei io in certe condizioni fare..." e autoassolversi.

#19
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Dr.ssa Anna Potenza

Commento interessante, da meditare.
Alcune cose sulla genesi plurima degli omicidi che vanno tutti a finire sotto l'etichetta "femminicidio" le aveva anticipate la dott.ssa Scapellato.
Quanto ai rischi della divulgazione della stampa, con la possibile domanda: "potrei io in certe condizioni fare..." e dell'autoassolversi, noi psicologi vediamo di peggio: giovani che finiscono per ammirare il "coraggio" di chi uccide la persona che gli ha provocato una sofferenza, esperienza a cui oggi non si è più abituati, cui non si dà un nome e quindi non si sa gestire né accettare.

#20
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Dr. Davide Giusino

>>la realtà che ho spesso osservato è una cultura piuttosto matriarcale dove in coppia si sente spesso dire, ad un invito, una organizzazione ."parlatene con mia moglie"<<

Non le sembra questa una possibile forma patriarcale del dominio maschile esercitata attraverso la delega delle responsabilità alla figura femminile? Se anche non lo fosse, il matriarcato e il patriarcato sono comunque due facce della stessa medaglia: entrambe modalità di mantenimento di strutture gerarchiche nella società, basate sul potere della parte dominante e la subordinazione della parte dominata; quello che cambia è soltanto l'organo sessuale di cui è dotata la categoria dominante nell'uno e nell'altro scenario. Entrambe organizzazioni della società da mettere in discussione per raggiungere una vera parità solidale tra i sessi fondata sull'equità. Il matriarcato non è meglio del patriarcato e viceversa: entrambi danneggiano tanto le femmine quanto i maschi.

>>"ma come si può avere il coraggio di infierire con coltellate con efferatezza e crudeltà, come una belva feroce, su un essere umano se non si è cattivi dentro, portati al male, al crimine, o se non si è degli psicopatici pericolosi?!" Ottima riflessione dalla quale partire. Anche la crudeltà del delitto è indizio di problematiche gravi legate alla personalità...altro che delitto culturale!<<

Questa spiegazione individualistica è rassicurante perché semplifica la complessità del problema, rendendolo illusoriamente controllabile e gestibile. Ma nega la dimensione sociale, culturale, storica e politica del fenomeno; nega operativamente l'utilità e la sensatezza di tutte le lotte femministe condotte a favore dell'emancipazione femminile e della parità tra i sessi; nega che per contrastare i femminicidi non bastino soltanto gli psicologi clinici o gli psichiatri, ma che servano iniziative a tutti i livelli ecosistemici della vita umana.

Su questo tema, mi permetto di rinviare alla lettura delle opere dell'attivista femminista bell hooks, di cui la psicologia a mio avviso farebbe bene a contaminarsi per ampliare le proprie prospettive.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Bell_hooks

#21
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Dr. Davide Giusino

>>Come mai negli anni '70 '80 '90 del '900 non esistevano i femminicidi!?<<

Esistevano ma non se ne parlava. Perché la cultura è sempre silenziosa, implicita e data per scontata, quindi non esplicitamente dichiarata. La cultura è quell'insieme di valori e atteggiamenti in cui siamo talmente immersi da non accorgerci che c'è un altro mondo sopra la superficie. La cultura è impronunciabile perché non ne siamo consapevoli finché non la mettiamo in discussione, prendendone la distanza. Non la vediamo finché non ci allontaniamo.

Allora oggi come ieri esistono i femminicidi perché oggi è in corso un cambio di prospettiva culturale.

#22
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Dr. Davide Giusino

E la spiegazione individualistica è comoda perché rende "l'assassino cattivo e patologico" il capro espiatorio (non il patriarcato!) di una situazione di colpevolezza collettiva, sollevando ciascuno di noi da ogni responsabilità - che invece abbiamo nelle pratiche di interazione sociale che agiamo nella quotidianità.

#23
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Dr. Armando De Vincentiis

(...)Questa spiegazione individualistica è rassicurante perché semplifica la complessità del problema (..)
io credo sia proprio il contrario, la rieducazione culturale di un fenomeno (seppur inesistente come il patriarcato) ci fa illudere di prevenire gli omicidi (in qualsiasi modo li si voglia chiamare) . Non si vuole ammettere che certe azioni sono imprevedibili e, purtroppo, ineliminabili. Il tizio che non è in grado di gestire la sua rabbia o che ha deciso di vincere la sua frustrazione con un delitto non lo previeni combattendo contro i mulini a vento (ossia il patriarcato) non lo vogliamo accettare e quindi costruiamo mostri sociali che non esistono. l'invenzione del patriarcato è solo una difesa culturale che ci mette davanti al fatto che in certe situazioni (il crimine) non hai molte armi. Poi se vogliamo prenderci in giro facciamolo pure...

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