Forest therapy.

Il potere terapeutico del contatto con la natura: un ritorno alle origini

Siamo così terribilmente connessi, un’aria tutta densa di interazioni. E poi siamo terribilmente sconnessi – da noi stessi, da quella dimensione naturale così insita in noi eppure perduta, dove ci sono suoni all’unisono con le nostre radici e silenzi in cui ristorarsi e ripulirsi dal chiasso, fuori e dentro.

Ricollegarsi all'ambiente

Non è un argomento originale questo, per fortuna: infatti vi è sempre maggiore interesse per il tema dell’ambiente – in questo caso, il focus è sul ricollegarci ad esso, il prendere coscienza che siamo parte di quel paesaggio e di quegli elementi e quindi non siamo disgiunti, ne abbiamo bisogno, un bisogno reciproco, che si fa terapia.

Già nel 1984 il biologo E. O. Wilson aveva proposto la sua “ipotesi della biofilia” [1], che descrive la nostra tendenza innata ad affiliarci con ciò che è naturale e vivo, come una potente spinta biologica.

E attualmente c’è una sorta di “rivoluzione” in corso, che vede l’emergere di discipline come l’ “ecopsicologia” [2], che promuove anche percorsi di crescita e conoscenza sul rapporto biunivoco uomo-ambiente, mentre si diffonde ovunque l’attenzione sul mondo vegetale (basti pensare ai meravigliosi libri di Stefano Mancuso sulla complessità degli alberi), e sulla tutela ambientale; di conseguenza emerge, quasi come fenomeno spontaneo, la riflessione per l’aspetto supportivo e terapeutico che questa interconnesione può avere.

Noi tutti ricerchiamo, nei momenti in cui abbiamo bisogno di rasserenarci, chiarirci, pensare, realtà quali parchi, boschi, spiagge o montagne – richiami remoti.

Avendo un’ottica improntata al paradigma della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) [3] e studiando neuropsicologia, non posso che parlare di effetti “psicofisici”, di questa comunicazione umano-natura – ogni scissione dicotomica diviene necessaria per comodità, ma appare forzatura limitante.

Se si vuole portare un esempio di questa rinnovata sensibilità, mi viene in mente di come si parli sempre più di “Forest Bathing” e “Forest Therapy” [4], che provengono dal Giappone; il nome originale di questa pratica è “Shinrin-yoku”, che significa appunto “bagno nella foresta”, un calarsi multisensoriale nelle aree boschive, per trarne beneficio e, di conseguenza, instaurare un nesso reciproco, in cui anche noi quindi, legandoci a questo habitat, ci prendiamo cura di lui.

Contatto con la natura: bagno nella foresta

È difficile essere brevi, quando ci sarebbe tanto da raccontare. Perché è una storia appunto antica, quanto la nostra – un ritorno. Ma si è qui per concentrarsi sugli effetti terapeutici dello stare con la natura – ed è importante sottolineare che per farlo, anche dove ci sono problematiche motorie o eccessiva urbanizzazione, può anche bastare, per quanto non sia spazio incontaminato, il piccolo giardino dietro casa, l’intenzione, e l’attenzione al momento.

Per approfondire:Troppa urbanizzazione aumenta ansia e depressione

Effetti terapeutici del contatto con la natura

Siamo tutti appunto consapevoli dell’effetto rilassante che, come detto, ricerchiamo attivamente quando ci si prende spazio per una sosta.

È un effetto a cascata che attraversa tutti i nostri sensi – anche le luminosità e i suoni, sono importanti, in questa nostra esperienza, questa quiete abitata esclusivamente da musiche che le nostre stesse cellule riconoscono, al punto che esistono, tra le così dette “parole intraducibili” (quelle parole così connesse alla propria cultura da non essere trasposti in altra lingua) numerosi termini che tratteggiano queste sensazioni.

E considerando quanto sia fondamentale il linguaggio, alcuni meritano proprio di essere citati: nella lingua giapponese troviamo il vocabolo “Komorebi”, che denota la luce del sole che filtra tra i rami, qualcosa di sfuggente e delicato come molte delle nostre stesse emozioni; di simile concetto è “Psythurism”, che indica invece il fruscio che si genera nel passaggio del vento tra le foglie degli alberi.

In tedesco, c’è il poetico “Waldeinsamkeit”, che racconta di una solitudine pacifica e positiva che si prova quando si è soli, persi proprio in un bosco, a contatto con esso, senza paura alcuna, quasi avvolti in un’esperienza mistica [5]. Già, sono un divagare, queste righe, ma del resto non è il vagare il moto naturale del viandante che si muove lungo questi sentieri?

Dunque, dicevamo, ci si tranquillizza, quando si è avvolti da questi scenari – che significa un acquietarsi globale che avviene anche per risposte biologiche in cui il nostro sistema nervoso autonomo, stupenda e complessa orchestra in perpetuo dialogo con interno ed esterno, esce da quello stato di ipereccitazione e vigilanza in cui spesso, nella frenesia odierna, si trova.

Vi è invero, in una semplice passeggiata o nello stare in un bosco, un maggiore attivarsi del sistema nervoso parasimpatico, che porta quindi a rilassatezza, con effetti quali il rallentare del battito cardiaco, soprattutto quando si è realmente nel setting naturale (dato che si sono visti effetti positivi, ma non altrettanto intensi, persino nell’esposizione virtuale alla natura o nel visualizzare immagini della stessa) [6]; altri studi sottolineano come una camminata in questi contesti modifichi anche la pressione arteriosa, con risultati significativi persino in soggetti ipertesi di mezza età [7]; inoltre viene riportato un benessere psicologico maggiore, caratterizzato da emozioni positive e migliore performance cognitive, ed un attenuarsi di sensazioni di rabbia e agitazione [8], spesso con un riverberarsi nel tempo di questi risultati.

Altri studi confermano che il girovagare nella foresta provocherebbe (il condizionale è d’obbligo per via di risultati contrastanti) un abbassamento del cortisolo salivare [9]; si riscontra un abbassamento dei livelli urinari delle catecolamine, adrenalina e noradrenalina [10], ormoni rilasciati in condizioni di stress (che influenzano, per esempio, il battito cardiaco, la pressione sanguigna, e anche l’insulina).

Se è indubbio che essi sono essenziali per l’instaurarsi della necessaria reazione “fight or fly”, “combatti o fuggi”, meccanismo rapido e breve necessario alla sopravvivenza, è anche vero che oggi questo meccanismo si trova eccessivamente attivato, anche per tempi prolungati, non consentendo di arginare o mettere a tacere ansia e nervosismo.

Anche a livello immunitario la natura pare proprio aiutarci: l’essere esposti a numerose sostanze aiuta la capacità immunitaria a regolarsi, un’immunomodulazione attraverso l’esposizione alla biodiversità, in un contesto di aria più sana e in cui vi è la presenza dei terpeni, molecole che hanno effetti appunto immunomodulatori e antinfiammatori [11]; a proposito, proprio sulla “Forest Therapy”, spesso si sottolinea come alcuni alberi (quali il faggio e il leccio) producano monoterpeni [12], che hanno proprietà calmanti sull’ansia.

La componente psicologica, infatti, benefica particolarmente di questa esposizione, che si è visto poter essere utile come coadiuvante alle terapie standard in alcune forme di ansia e depressione (soprattutto in caso di “disturbo affettivo stagionale”) [13] – considerando anche l’utilità dell’esposizione alla luce solare (al di là del suo ruolo essenziale nella produzione della vitamina D).

Quello che è visto da molti come un piacevole passatempo, è in grado di diminuire il senso di ostilità e agitazione, il rimuginare ossessivo, per concedere spazio alla tregua; una ricerca italiana del 2020 ha sottolineato il potenziale positivo dell’esposizione alla natura per i bambini con deficit da attenzione e iperattività (ambito ancora da approfondire) [14].

Per approfondire:Il legame tra esercizio fisico e benessere mentale

Assolutamente da non sottovalutare l’utilità che l’essere in ambienti naturali può avere sulla componente sociale, così importante per noi esseri umani, specialmente in questa epoca di diffusa solitudine: la maggiore informalità con cui ci si pone in un parco cittadino, la vicinanza, un incontrare che non viene vissuto come invasione, l’atmosfera stessa, consentono maggiori contatti e scambi, i sensi vengono stimolati, e la connessione medesima col naturale è in grado di attenuare il disagio dell’assenza di compagnia che si sperimenterebbe maggiormente tra le quattro mura domestiche.
Non a caso discipline ben note come lo Yoga o la Mindfulness prediligono lo stare nella natura.

Per cui, in molte forme diverse, l’ “Ecotherapy” [15], ossia il praticare attività all’aria aperta, sembra essere un aspetto assolutamente necessario al nostro stato di benessere globale – emergono terapie dai nomi inglesi, ben strutturate e guidate, per insegnarci qualcosa che è già in noi, solo un poco perso.

Interessante in questo senso il fenomeno della “Plant Blindness”, la “cecità alle piante”, concetto proposto da due botanici statunitensi, che sottolinea come si tenda a essere ciechi alla presenza stessa delle piante attorno a noi, sino a ignorarle – le ipotesi spaziano da spiegazioni biologiche a quelle più socioculturali, ma è indubbio che questa “disattenzione” possa portare a una grave incuria e alla perdita di qualcosa di estremamente prezioso.

Controindicazioni

E va evidenziato che anche in questo settore, come per tutte le attività terapeutiche, ci sono delle controindicazioni: in primis, bisogna considerare i soggetti severamente allergici, che possono non essere o sentirsi tranquilli dove si può scatenare una reazione fisica potenzialmente pericolosa; e poi c’è chi non si sente per nulla a proprio agio nell’ambiente naturale, vuoi per mancanza di un senso di sicurezza o per fobie specifiche (come l’aracnofobia, che farebbe stare costantemente allerta per il timore di incontrare ragni); esiste anche ci soffre di ’”hilofobia”, che è proprio una paura persistente dei boschi.

E per chi, purtroppo, come accennato, non ha la possibilità di spostarsi e raggiungere spazi idonei, il giardino (e il giardinaggio), come l’ortoterapia (organizzata ormai vastamente, sia per supporto che per svago) possono essere una modalità fattibile di “toccare” e instaurare un rapporto con la natura. Si può inoltre creare, all’interno della propria abitazione, un angolo di vegetazione ed oli essenziali che possano riproporre parzialmente, in microcosmo, la salubrità del bosco.

Conclusioni

Per cui possiamo notare come una pratica così semplice e istintiva come “quattro passi o una pausa nel verde” sia in grado di condurre a risultati non miracolosi ma significativi sugli aspetti psicologici e su parametri vitali che è importante monitorare per evitare, nel lungo termine, eventi profondamente avversi; in questo senso, vi è in queste iniziative un aspetto di prevenzione e supporto, il che non giunge nuovo: è ormai prassi comune consigliare di camminare, per la salute, e praticare un’attività fisica anche moderata… perché non considerare il contesto in cui lo si fa come variabile importante?

Si sta quindi assistendo a una rivisitazione profonda, che va ben al di là di momentanee “mode New Age”, del nostro vivere la natura, in uno scambio perpetuo, sia in assenza che in presenza di patologie, aprendo orizzonti di studi e possibilità; negli ambienti medici statunitensi sta aumentando l’abitudine di prescrivere il trascorrere “tempo nella natura” [16], proprio per gli effetti incoraggianti che si ottengono – sembra di ricordare quelle prescrizioni ottocentesche che magari erano figlie di pochi strumenti a disposizione, ma soprattutto di profonda saggezza.

E così, in una dimensione di Waldeinsamkeitm, tra Komorebi e Psythurism, ci prendiamo cura di noi, in uno scambio che è ancestrale danza.

Data pubblicazione: 04 agosto 2023

5 commenti

#1
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Dr.ssa Anna Potenza

Interessante, utile e in linea con l'approccio bio-psico-sociale della Psicologia della Salute.

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