Quella malattia chiamata solitudine. Effetti psicofisici di una condizione (in)umana

Conoscete la sindrome di Charles Bonnet?

No, nulla di psicologico, ma forse un poco rende l'idea.
Delineata già nel 1760, descriveva individui mentalmente lucidi che, affetti da cecità più o meno importante, avevano vivide allucinazioni (spesso di facce e "disegni", che diremmo oggi cartoni animati).
Ma, appunto assennati, sapevano che quel che scorgevano non era vero.
Cosa succedeva?
Quel che avviene ai detenuti isolati. O a chiunque si trovi in uno stato di deprivazione sensoriale.
Il cervello, "magazzino" di stimoli e affamato di essi, se non ne ha, per colmare l'assenza degli stessi, se li crea.
Ha bisogno di essere stimolato.
Il cervello.
Perché questo esempio?

 

Perché racconta tanta parte della nostra natura: se è spaventoso avere allucinazioni, è devastante l'effetto della solitudine, che non è isolamento sensoriale, ma può diventare una vera e propria patologia psicologica, che si riversa sull'emotività e sul corpo.

Vi siete mai sentiti soli?
Certo, naturale che sì.
Ma cosa succede quando questo essere soli si protrae, si fa condizione di vita non scelta, ma obbligata e subita?
Beh, non arriva certo solo una manciata di tedio.
Sembra azzardato dire che si muore di solitudine, e parrà un troppo poco scientifica la citazione del celebre medico Patch Adams, ma qui le lascio spazio: "Personalmente credo che la maggior parte delle depressioni abbiano le sue radici nella solitudine, ma la comunità medica preferisce parlare di depressione piuttosto che di solitudine (...) Perché se cominciassimo a parlare di solitudine, sapremmo che non ci sono farmaci (...) basta l'amore umano".
Lo dico serenamente: pur con grande ammirazione per il personaggio, non concordo, perché sappiamo bene che la depressione è una malattia grave e ben definita, che non si può racchiudere semplicemente nell'assenza di qualcuno accanto. La depressione porta alla solitudine, tra le mille altre cose.
Ma, a sua volta (ecco perché disturbare Adams), la solitudine conduce alla depressione.
Altra citazione profana, che viene proprio dall'attore che interpretò il noto medico, Robin Williams: "Pensavo che la cose peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è. Ho scoperto che la cosa peggiore è quella di essere con persone che ti fanno sentire solo".
Due realtà diverse, dunque, prima di tornare all'argomento, con altro sguardo.

In inglese esiste una differenziazione linguistica squisita: "loneliness" e "solitude".
Ascoltate la musicalità della parola "solitude", pare una nota di pianoforte; perché indica un isolamento volontario, come quello dello scrittore che si ritira per "creare".
"Loneliness" invece è il problema.
La solitudine imposta.
L'esser solo non voluto, dovuto a molteplici fattori.

 

Condizione di solito assai più diffusa nella popolazione anziana (con più problemi di salute e difficoltà motorie), affligge anche i disabili gravi e i loro caregivers, che di rado posson lasciare casa e vedono uno scadimento delle relazioni, che sbiadiscono nel tempo.
Anche il non aver a priori una rete famigliare, o averla ma percepita come non supportiva ripropone una situazione simile.
E, a essere onesti, sono mille i modi di sentirsi o essere soli (che son due aspetti diversi, affrontabili in maniera differente, ma che possono avere conseguenze simili).
Quando la solitudine perde la sua connotazione di occasionalità, ed è prigione senza sbarre, si fa malattia.

J. Holt-Lunstad, ricercatrice della Brigham Young University (Utah) ha studiato il fenomeno, accorgendosi di come l'essere soli (nel senso ampio e variegato del termine), aumenti il rischio di mortalità (in media del 30 per cento), esattamente come fanno il fumo, l'alcol e l'obesità (pubblicazione sulla rivista "Perspectives on Psychological Science").

Psicologicamente e biologicamente parlando, l'essere umano è una creatura sociale.
Ha bisogno di contatto: nel remoto passato si è reso gruppo per difendersi reciprocamente dalle insidie naturali. Oggi, evoluto, ha bisogno di contatto, scambio, interazione affettiva e cognitiva.
La psiche della persona sola è portata a esperire depressione (con tutti gli effetti domino correlati, che vanno dalla qualità del sonno, all'alimentazione, alle capacità cognitive); se poi la persona già soffre di stati depressivi, essi possono venire accentuati, arrivando, per esempio, a idee suicidarie e sentimenti di totale disperazione. Si può iniziare ad avvertire ansia, perché chi si sente solo, senza supporto, avverte maggiormente il pericolo, è in uno stato di "attivazione" maggiore, percependo di non poter contare sull'altro.
Questo si riversa sul sistema nervoso autonomo, ed è così che una realtà ormai tristemente diffusa (anche in una folla), ha conseguenze sull'organismo, per quel celebre "errore di Cartesio", che ci ricorda che mente e corpo non si possono scindere.
Lo stress aumenta, con conseguenze sugli ormoni ad esso correlati (es. cortisolo), alterazione del sistema immunoendocrinologico (importante per evitare malattie, infiammazioni e infezioni), cardiovascolare (con aumento della pressione sanguigna) e... aumento del rischio di demenza, laddove il cervello che magari invecchia non riceve più abbastanza input.

E si aprirebbe qui l'ampio mondo della PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia).

Non avere nessuno, può anche portare a una maggiore sedentarietà e reclusione in casa.
E se la tecnologia che ci rende connessi può essere in questo senso un grandissimo dono, soprattutto per i giovani disabili che cercano di riempire questo stato d'animo, può per contro in altri creare una sorta di isolamento legato a una vita in virtuale.
Ricordo che la BBC, in un suo reportage in materia, definì la solitudine "Il killer nascosto" (31/01/2011).

 

Ovviamente, come già accennato, anche qui esistono categorie a rischio: diversa la solitudine di chi, con il giusto supporto, può rientrare nel mondo e sentirsi parte di esso, e chi (disabile, caregiver, malato fisico o psichico, anziano per ripetere esempi) ne è "tagliato fuori" a priori.
Diverso l'essere e il "sentirsi" soli.
Ma, se posso esprimere un parere, credo che questa mesta esperienza sia assai più diffusa di quel che sembra, e colga singoli spesso insospettabili: loquaci persone in carriera che però magari la sera tornano in una casa vuota; adolescenti che faticano a interagire o vengono isolati; chi affronta momenti ardui in generale, dovendo per lo più contare su se stessi; chi non è realizzato, o si avverte "diverso" per molteplici ragioni.
Forse voi, che siete qui e state leggendo.
A diversi livelli, sostengo che la solitudine sia un fenomeno ampio.
Ovviamente, non in tutti è patologica (lo è essenzialmente nelle prime "categorie" citate).
Quando colpisce l'essere umano, questi prova uno sconforto, una paura, un senso di abbandono e disperazione difficili da raccontare, anche a uno psicologo.
E se la chimica può aiutare, ricreare nei limiti del possibile un "mondo sociale" è altrettanto necessario.
Per alcuni, purtroppo, ciò può passare solo e principalmente attraverso il web, o attraverso sostegni psicologici o rifacendosi a servizi (sì, esistono), che offrono compagnia (talvolta li si trova nel volontariato).
Può parere triste, ma pragmaticamente è un fare quel che si può con quel che si ha, e non è detto che nel reciproco scambio non ci si arricchisca vicendevolmente.
Chi ha più possibilità dovrebbe provare ogni mezzo per iniziare interazioni, e, come chi si sente soggettivamente solo, magari considerare un aiuto professionale se è "bloccato".

Perché la solitudine, spesso nascosta come una vergogna, dietro una maschera di sorriso, quando è tanta non è uno stato.
È una malattia.

E mi viene una citazione molto moderna, tratta da una canzone di James Blunt (non si può sempre citare Eliot), "Satellites": "Lei è un'altra vittima della vita (...) che cerca la luce o un amico che le tenga la mano - fa il meglio che può. Sembra che tutti quelli che conosciamo siano qui fuori aspettando accanto a un telefono, chiedendosi perché si sentono così soli in questa vita: siamo solo satelliti? (...) Non sapete che nulla è vero se non si può sentire il battito del cuore di un'altra persona? Non lasciate voi stessi nel buio".

E chi possono essere "i soli"?
Gli anziani, i disabili, i malati, i senzatetto, ma non solo: il vicino di casa, il collega, chi non può contare sulla famiglia o un partner, l'amico scordato, il parente, noi stessi.
Quindi, per favore, cercate aiuto, se lo siete.
Se invece potete godere della scelta, e avere "solitude" senza "loneliness", un consiglio banale: prendete quel telefono che molti tengono accanto aspettando.
E componete un numero.
Perché non siamo satelliti.
E di solitudine si può morire.
E di solitudine si puó guarire - magari con un aiuto.

"Non lasciate voi stessi nel buio".

 

http://time.com/3747784/loneliness-mortality/

http://blogs.einstein.yu.edu/how-loneliness-affects-the-mind-and-body/

http://www.bbc.com/future/story/20140514-how-extreme-isolation-warps-minds

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3890922/

Data pubblicazione: 12 maggio 2017

14 commenti

#1
Foto profilo Utente 449XXX
Utente 449XXX

Interessante. Sei un po' come la luce dello specchio, uno specchio che oltre a riflettere luce, ne emana.
Sintetizzando: ai soli perche' si facciano un po'... soli. In una e piu' relazioni con gli altri.
I miei omaggi.

#2

Ricambio i fin troppo gentili omaggi... E sì, un poco di Apollo, per essere anche "sole" di se stessi, quando si è "soli", non può che far bene. Grazie.

#3

Lucido e affettuoso questo articolo, di cui condivido lo spirito, spesso, purtroppo chi si sente solo ha tendenza ad aspettare , sempre, che gli altri lo vedano, facciano un sorriso, dicano una parola gentile, sono crediti antichi, sappiamo bene, la disponibilità degli altri è fondamentale, però, qualche dubbio, qualche timida apertura sarebbe una buona idea.
Complimenti, Alessia, più ti conosco , più mi piaci.. Magda

#4

Grazie Magda, e io son sempre lusingata dal tempo che dedichi alle mie parole.
Son d'accordo: ogni minima possibilità di interazione è da coltivare, per il suo potenziale, soprattutto dove vi è solitudine.
È un mondo paradossale: a parte i casi "gravi", siamo in una società che più ci dà mezzi di comunicare, più dà un senso di assenza...

Sempre cara davvero!
Buon lavoro di cuore!

#8

Grazie Valeria!
La "solitude" è una scelta, ma davvero vi è una profonda tristezza nella "solitudine con l'altro", come detto citando un attore.

Grazie mille per il bello spunto!
Un caro saluto e buon lavoro!

#9
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Utente 397XXX

La società occidentale spinge alla solitudine perchè esalta l'individualismo e non concepisce altro che il singolo. Il messaggio di fondo è: ognun per sè e (forse) Dio per tutti. Al massimo si sta in compagnia del cellulare e si interagisce sui social network. Questo è il modello di vita che ci vogliono prescrivere. Quando poi qualcuno vuole parlare, ovviamente non è quasi mai per ascoltare ma solo per dire o per imporre se stesso. Forse il modello di vita rurale e stanziale da questo punto di vista era più umano perchè ben difficilmente si rimaneva del tutto soli e la società era meno competitiva.

#10

Senza dubbio, i ritmi, la tecnologia, il modo di vivere e concepire ciò che ci sta attorno, e il modificarsi stesso del concetto di famiglia, hanno avuto tutti un ruolo nell'aumento di un senso di solitudine... Oggettiva o percepita.
Trovo l'individualismo una risorsa, nel momento in cui lo si concepisce come consapevolezza e realizzazione di se stessi, e non egocentrismo, indifferenza verso l'altro.
Purtroppo ogni grande progresso ha insito nel suo nucleo anche aspetti più ombrosi, che si riversano sul quotidiano.
Si è perso senza dubbio il "senso di comunità" del passato, nel bene e nel male.
Aprire gli orizzonti può mostrare un mondo vasto, nel quale si finisce spersi.
Sarebbe beello che la tecnologia fosse un ponte per tornare all'umano, e non un sostituto in toto - senza dimenticare che dà molto alla "socialità" di individui non privilegiati.
Forse sta accadendo tutto molto in fretta?

Grazie mille per il Suo prezioso commento.

#11
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Utente 397XXX

Dottoressa, quando dice che la tecnologia dà molto alla socialità di individui non privilegiati, a chi si riferisce esattamente? Ai portatori di handicap, agli anziani, ai malati gravi?

#12

Sì, esattamente.
La "vera" socialità è sempre quella della partecipazione e presenza. Ma anche il web, con chat, siti e gruppi di supporto può essere una fonte di scambio (che si vorrebbe poi tradurre nel reale) per coloro che hanno handicap, difficoltà motorie, malati gravi e chi si occupa di loro (gli anziani di rado sanno usare internet). È anche un modo, se usato correttamente, di conoscere, "incrociare", apprendere e scambiare, che non per forza deve restare nel web. Quindi credo sia un enorme potenziale ( tanto è che, per esempio, siamo qui a scambiare commenti in un sito dove utenti possono chiedere a medici e psicologi). Il problema sta quando l' "uso" diviene "abuso", e si dimentica lo stare con l'altro dei tempi dei nostri genitori e nonni, come dicevamo. Quando non ci si sentiva soli tra gli altri e in se stessi.

#13
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Utente 397XXX

Sì immaginavo. Io stesso che sono un timido cronico da quando ci sono i social network riesco ad essere un po' più... soscievole. Quello che mi spaventa sono soprattutto gli abusi di questa tecnologia... faccio un esempio banale. Mi capita di sentire ormai i miei genitori anziani lontani per lo più quasi solo tramite le chat di whatsup. Insomma ho quasi rinunciato a chiamarli, a sentire la loro voce e loro a sentire la mia. E quanti ragazzi ormai nativi digitali sembrano aver appreso solo la modalità elettronica di contatto. Ovviamente questi sono gli aspetti più deteriori della tecnologia, non nego che ci siano eneormi vantaggi. Però la solitudine di passare un'intera giornata davanti al pc senza vedersi è un dato di fatto e sono cose che si imparano da bambini ormai. Mi viene solo un'ultima considerazione: anche i cassieri dei supermercati stanno scomparendo, sositituiti dalle macchine: mi ricordo che un tempo tanti, soprattutto anziani, scambiavano due parole con la commessa o il commesso; ecco sta finendo anche quello.

#14

La timidezza in effetti (l'avevo chiamato una volta "Il giardino dei timidi") può "aiutarsi" tramite la tecnologia. Il pericolo si presenta quando, al posto di essere un mezzo per facilitare un avvicinarsi all'altro, che risulta "difficile", internet diviene uno schermo dietro cui rimanere.
Condivido le Sue affermazioni sulla perdita di contatto diretto umano anche nel quotidiano (la cassiera, appunto), e sul fatto che, con uso/abuso, sta crescendo una generazione "virtuale", dove un immenso potenziale si fa rischio.
Però molto può essere fatto dal singolo... Perché rinunciare a chiamare qualcuno di caro? :)

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