Alzheimer e musicoterapia: il potere delle note nel "lungo addio"
Solo chi ha sperimentato da vicino la crudeltà dell'Alzheimer (e delle altre demenze) sa quanto devastante essa sia - non invecchiamento, ma malattia (in aumento). "Il lungo addio", viene anche chiamato. E se cure non esistono, si cercano tutti i modi per rallentare o salvare quell'angolo dei nostri amati, "smarriti". Tra questi, nel suo piccolo, sottovalutato, la musica.
"Tu sei la musica, fino a che la musica dura" (T.S. Eliot).
Riconosciuta come arte terapeutica sin dall'antichità, nell'ultimo secolo la musicoterapia ha trovato spazio e definizione. Come racconta il compianto neurologo O. Sacks nel suo "Musicofilia", siamo creature musicali. La musica accompagna, rievoca, emoziona, atavica. Sin dalla prima crescita. E, quindi, anche nel processo malato e tristemente inverso... Forse che la musica "poggi" nel profondo, dove un barlume di quel che siamo resta? Un pionere della musicoterapia (e a lungo collaboratrice di Sacks) è Connie Tomaino, responsabile dell' "Institute for Music and Neurologic Function" di New York; ha lavorato con le più disparate condizioni neurologiche, soprattutto questo - il lungo addio. E si trovano in rete suoi video esplicativi, "Alive Inside", "Vivi dentro".
Nessuna panacea, ma una piccola candela...
Ovviamente, la musica non ferma e non fa regredire la malattia; semplicemente, il suo utilizzo attivo o no (produrre o ascoltare musica), in singolo o gruppo, sembra dare risultati - un attimo, una scintilla. Del resto, la stimolazione sensoriale ed emotiva non può far che bene: e cosa di più completo della musica? In uno dei suoi studi su quarantacinque pazienti nello stadio medio-grave della patologia, dopo quasi un anno di musicoterapia, la Tomaino aveva riscontrato un miglioramento netto nei risultati di test cognitivi somministrati prima e dopo. E si può questionare all'infinito sulle ricerche, ma molti hanno assistito al momentaneo miglioramento dei propri pazienti.
Quella musica dei venti anni.
La psicologa J. Cohen di Washington ha pubblicato su "Science" il valore della musicoterapia in questi pazienti: aiuta a socializzare, laddove è solo solitudine.
E se il dottor A. Kumar (Miami) ha riscontrato dopo un mese di note un incremento temporaneo della produzione di melatonina (e non solo), il neuroscienziato P. Janata dell'Università della California si è impegnato a cercare aree cerebrali "della musica"; e se pare che un'area (corteccia prefrontale mediale) sia implicata nei "film mentali" che nascono con l'ascolto, sembra che il nostro cervello sia "cablato" per l'esperienza musicale.
Ma non una musica qualunque: i risultati migliori si ottengono con canzoni che hanno segnato in positivo la persona, nelle tappe memorabili dell'esistenza (di solito, brani dell'adolescenza).
Senza illudere, magari...
Mi scuserete se racchiudo tanti concetti in poco spazio (il blog ha giustamente delle regole).
Ma il mio messaggio minuto è che - senza attendersi alcun miracolo - la musicoterapia può essere un coadiuvante nello stimolare fortemente le vittime di questo spietato addio.
Magari vicino a voi c'è un centro che se ne occupa (sono molti, spesso sconosciuti).
Sapendo che purtroppo chi amiamo non tornerà, ma che forse, per un istante, quella canzonetta antica può accendere una luce.
Proprio come sosteneva Eliot.
Essere vivi. Vivi dentro.