Disturbi di personalità e imputabilità del reo
Dalla sentenza n. 9163 dell'8 marzo 2005 anche alcuni disturbi di personalità "concorrono" a viziare la capacità di intendere e di volere dell'imputato, così pronunciandosi:
“Anche i “disturbi di personalità”, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli art. 88 e 89 c.p. (la cui chiarificazione si può trovare a questo link, nds) sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini dell’ imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo”.
Le neuroscienze forensi nei tribunali hanno apportato cambiamenti decisivi negli ultimi anni.
Riassumendo, i punti essenziali della sentenza sono:
1) la rilevanza dei disturbi di personalità ai fini dell’ imputabilità;
2) la sussistenza di un nesso eziologico con il fatto-reato.
Il DSM-IV suddivide i disturbi di personalità in tre specifici gruppi:
Gruppo A: include i disturbi di personalità Paranoide, Schizoide, Schizotipico;
Gruppo B: include i disturbi di personalità Antisociale, Borderline, Istrionico e Narcisistico;
Gruppo C: include i disturbi di personalità Evitante, Dipendente e Ossessivo-Compulsivo.
I disturbi del gruppo A, insieme al disturbo Borderline, sono considerati più rilevanti nel contesto psicologico giuridico e criminologico, in quanto, secondo la letteratura specializzata, nella fase disfunzionale possono avere alterata capacità di intendere e di volere, proprio per la natura stessa del quadro di funzionamento dell’ Io che, in fase di scompenso, tende ad avvicinarsi alle fasi psicotiche transitorie.
Fino al 2005 l’autore di un atto criminale poteva essere riconosciuto affetto da un vizio di mente solo nel caso di una diagnosi di psicosi (causa), come nel caso di una schizofrenia o di una paranoia (oppure di una psicosi organica), e quindi solo in questo caso si parlava di rilevanza ex art. 88 c.p., in quanto ritenuta la sola riconosciuta giuridicamente.
Primo punto essenziale della sentenza: la rilevanza dei disturbi di personalità.
La Cassazione, però, non si è limitata ad includere i disturbi di personalità nel giudizio dell’ imputabilità, ma ha inoltre esplicitato quali disturbi, se pur facenti parte della sfera psichica, non ricoprono alcun rilievo ai fini che qui interessano, e sono tutti quei “disturbi”, “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “deviazioni del carattere e del sentimento” che non risultano d’ intensità tale da inficiare la capacità di intendere e di volere e quindi tali da infierire sulla capacità di autodeterminazione del soggetto.
Secondo punto essenziale della sentenza: la sussistenza di un nesso eziologico con il fatto.
Il giudice, nell’accertare il fatto deve trovare la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale stesso. Risulta cioè necessario, perché si possa parlare di infermità di mente e di esclusione di capacità di intendere e di volere, che tra il disturbo mentale ed il fatto reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo. Infatti,la sola identificazione di una patologia anche se nosograficamente inquadrata (che rende quindi il soggetto agente incapace di intendere e di volere al momento del fatto) non è sufficiente per una valutazione completa sull’imputabilità.
Bibliografia:
Totaro, S. Imputabilità e Neuroscienze: spiegare di più per comprendere meglio. Tesi di master in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense discussa nel 2010 presso la Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova.