In terapia con Popper e Occam
Parlando in generale, l’efficacia della psicoterapia è ormai assodata. Chi decide di sottoporsi a una psicoterapia sta meglio dell’80% di coloro che a fronte di problemi decide di non cercare aiuto psicoterapeutico (Lambert e Vermeersch, 2002).
Tuttavia, è corretto affermare che ogni terapia sarebbe efficace allo stesso modo di un'altra?
E inoltre: date due terapie ugualmente efficaci, delle quali però una dura 10 anni e l’altra un anno soltanto, sarebbe corretto parlare di uguaglianza?
La storia della ricerca sull’efficacia della psicoterapia, come ogni filone di ricerca scientifica, è andata incontro a una serie di progressivi aggiustamenti del tiro.
Secondo i primi studi, tutti i differenti approcci alla psicoterapia sarebbero ugualmente efficaci. Il nomignolo “verdetto di Dodo” deriva dal buffo personaggio di Alice nel paese delle meraviglie: “Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati!”
Ma siamo sicuri che dicendo che hanno vinto tutti, tutti abbiano davvero vinto? Oppure, come ha fatto notare qualcuno, dire che hanno vinto tutti significherebbe in realtà che tutti hanno perso?
A pensarci un attimo vengono in mente immagini di tornate elettorali, dove allo spoglio delle schede è difficile che persino il politico con meno voti ammetta di aver perso. Almeno in Italia.
Detto in altro modo: se davvero tutti hanno vinto, allora vuol dire che come minimo non esiste una definizione condivisa della parola “vittoria”.
Come stanno, allora, le cose?
Anticipazione: il mio pensiero si riassume in quello di Dianne Chambless: “L’interesse per il benessere dei pazienti richiede che gli psicologi siano molto diffidenti nell’accettare il verdetto di Dodo”.
Occorre inoltre distinguere efficacia da efficienza. Due terapie sono ugualmente efficaci se entrambe sono in grado di ottenere il cambiamento richiesto. Ma delle due sarà più efficace quella che otterrà tale cambiamento con meno risorse, cioè in meno tempo.
Efficacia: uguaglianze o differenze?
Nel cosiddetto modello dei fattori aspecifici, Rosenzweig prima (1936) e Luborsky più tardi (1975) sostenevano l’esistenza di fattori comuni a tutte o quasi le forme di terapia e che renderebbero conto dell'efficacia. In altre parole, ciò che funzionerebbe delle varie psicoterapie non sarebbero le peculiarità vantate da ognuna, cioè le loro differenze, ma i tratti comuni, quello che in tutte le terapie si fa.
Tale conclusione lasciò altri studiosi con un senso di incompletezza e insoddisfazione. Come dire: qualunque musica è bella, dato che tutte sono composte da sette note.
Oppure, qualunque pianista o chirurgo è altrettanto bravo e capace di un altro. Sì, perché è chiaro che anche i fattori relativi al terapeuta contano. Persino a intuito è lecito aspettarsi che in ogni processo umano dove sia previsto un grado maggiore o minore di abilità le cose possano andare diversamente, a seconda di chi le conduce. Esistono, è vero, forme di terapia definite non direttive, dove si crede di poter escludere a priori ogni influenza del terapeuta, facendo di tutto per lasciare al paziente e per intero il compito di trovare il modo di cambiare. Resta da vedere con quale grado di successo e per quali disturbi. Ma anche qui, non tutti gli orientamenti terapeutici riconoscono l’esistenza di disturbi. Alcuni autori arrivano persino a sostenere la non esistenza delle psicopatologie.
Grencavage e Norcross (1990) analizzarono allora, successivamente, un gran numero di studi disponibili fino a quel momento (metanalisi), producendo una lista di quasi 90 fattori divisi in cinque classi. Da questo studio e da altri successivi (Wampold, 2001; Wampold e Budge, 2012; Laska e altri, 2014) vennero infine sintetizzati cinque fattori considerati necessari e sufficienti affinché una terapia potesse produrre cambiamento. Essi sono:
- un legame emotivamente solido fra paziente e terapeuta;
- un setting (ambiente, orari) riservato e adeguato;
- una spiegazione scientifica coerente sull’origine del disturbo;
- una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente;
- una serie di procedure, di istruzioni che portino il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo (prescrizioni, compiti comportamentali).
A differenza del modello dei fattori comuni di Rosenzweig e Luborsky accennato prima, che si limitava a elencare in modo descrittivo i punti in comune fra le varie forme di terapia, questa nuova prospettiva:
- prescrive, cioè richiede, che i cinque fattori identificati siano tutti presenti affinché possa aversi un cambiamento. Qualora una terapia manchi di uno o più di tali aspetti, la sua efficacia ne potrà essere minata o ridotta;
- la nuova prospettiva ha stabilito che una terapia in grado di agire su tutti e cinque questi fronti sarà più efficace di un semplice placebo, di un sostegno o di generici incoraggiamenti;
- essa tiene conto di tutti e tre i principali compartimenti che regolano l'esperienza umana: cognizioni, emozioni e comportamenti.
Dovrebbe essere intuitivo - e difatti altre ricerche stanno fornendo conferme in tal senso - che tutti e cinque i fattori, sebbene indispensabili, devono essere modulati e adattati a seconda del paziente e soprattutto della sua patologia.
Ad esempio le procedure, ossia le tecniche e prescrizioni comportamentali impartite dal terapeuta, il quinto fattore fra quelli elencati sopra, saranno diverse a seconda della patologia trattata. È abbastanza chiaro che chi soffre di attacchi di panico dovrà ricevere un trattamento differente da chi soffre a causa della fine di un legame affettivo. Un’altra prova, pertanto, che parlare meramente di “fattori comuni” è come minimo impreciso.
Ma anche la relazione terapeutica non deve per forza essere la stessa, da disturbo a disturbo:
“Nel trattamento dei disturbi d’ansia, i trattamenti specifici (quindi procedure, protocolli e prescrizioni, n.d.r.) sembrano contribuire in misura maggiore al cambiamento rispetto alla relazione terapeutica. Nei casi invece di depressione, la relazione appare il fattore più importante (Krupnick e altri, 1996).”
E anche:
“La relazione terapeutica agisce probabilmente in senso più positivo su alcune malattie e in alcune terapie piuttosto che su altre (Beckner e altri, 2007).”
Perciò il terapeuta efficace deve essere in grado di adattare la terapia al paziente, secondo necessità. Alcuni autori parlano di tailoring, di vestito su misura. Il contrario sarebbe la rigidità, l’ortodossa adesione a schemi fissi e immutabili, per amor di teoria.
In sintesi: non sono tanto i fattori comuni a (quasi) tutte le forme di terapia che le renderebbero ugualmente efficaci, ma in un certo senso il contrario: per poter essere efficace una terapia deve tener conto e attribuire la giusta importanza a determinati fattori, necessari e sufficienti.
Non sempre ciò accade, purtroppo. Ascoltiamo a volte commenti come i seguenti, da utenti e pazienti: “Il mio terapeuta non mi diceva mai cosa fare; sosteneva che dovevo trovare da solo il modo.” Oppure: “Non ricevevo alcuna spiegazione. Anzi, il terapeuta non diceva praticamente nulla, ero solo io a dover parlare. E anche quando non parlavo, lui stava zitto lo stesso.” E anche: “Mah, non so neanche se si potesse chiamare terapia. La psicologa si limitava a darmi incoraggiamenti generici e calore umano, senza dirmi chiaramente cosa fare o non fare.” Ma anche: “Il mio terapeuta mi diceva solo cosa fare o non fare, però mi è sembrato mancasse di empatia, di capacità relazionale.”
Possiamo sapere solo se un’affermazione è falsa, non se è vera
Da quando la psicologia ha iniziato a essere studiata con gli strumenti propri della scienza, si può dire che essa non abbia più tanto bisogno di confrontarsi con la filosofia. Eccetto per alcuni giganti che vanno sotto il nome di Popper, Occam, Nietzsche e pochi altri.
L’importanza per la scienza e per la psicologia in particolare del lavoro del grande filosofo austro-britannico si può riassumere in quanto segue: non possiamo sapere con certezza definitiva se una certa affermazione è vera. Però possiamo sapere con certezza assoluta quando essa è falsa.
Esempio classico: se dico “i cigni sono solo bianchi”, a rigor di logica non ho modo di essere sicuro se tale frase sia sempre vera, perché anche se fino a oggi ho visto un milione di cigni bianchi e mai nessuno nero, può bastare la vista di un solo esemplare nero per invalidare l’affermazione.
In altre parole: non solo una rondine non fa primavera, ma nemmeno cento o mille. Ma se il calendario segna 1° gennaio, saprò con certezza che non è primavera.
A distinguere la scienza dalla metafisica, prosegue pertanto Popper, dovrebbe essere tale criterio di falsificabilità.
Se di una certa affermazione può essere dimostrato che è falsa, allora essa può essere definita scientifica, altrimenti no. Viene ribaltata così la concezione neopositivista secondo cui la scienza era sovrapponibile alla filosofia riguardo ai fini, all’obiettivo di ricerca di ciò che è vero, della verità. Da Popper in poi la scienza non funziona più in questo modo, ma in quello opposto: cerca di concentrarsi su come non stanno le cose, per approssimarsi a ciò che è vero per esclusione.
Popper portava l’esempio del marxismo e della psicoanalisi come non scienze, dato che in quest’ultima, soprattutto nelle formulazioni freudiane ortodosse dell’epoca, non c’era modo di verificarne (anzi, di falsificarne) né controllarne gli assunti. L’esistenza di un complesso di Edipo o la validità dell’interpretazione dei sogni, difatti, non sono mai state dimostrate.
Altro esempio, in psicoterapia: “Per guarire dagli attacchi di panico è necessario capirne prima le cause”.
Si tratta di un assunto che in molti danno per scontato. Utenti, pazienti e alcuni terapeuti ultra-ortodossi.
Ebbene, se un terapeuta riesce ad aiutare i propri pazienti che soffrono di attacchi di panico soltanto “scoprendone” prima le “cause”, bene. Ma lo stesso terapeuta dovrebbe astenersi dal sostenere che scoprire le “cause” sia un prerequisito assolutamente necessario, quando è noto che esistono forme di terapia in grado di liberare dagli attacchi di panico, nella maggior parte dei casi, senza alcun tipo di ricerca di “cause”. Da un punto di vista logico, avverte Popper, basta un solo terapeuta, anzi un solo caso di attacchi di panico risolto senza tale ricerca, per invalidare totalmente la proposizione che per guarire dagli attacchi di panico sarebbe necessario capirne prima le "cause".
Ciò che si può spiegare con meno, è superfluo spiegarlo con più
Non solo, lo stesso terapeuta che va alla ricerca delle “cause”, non essendo tale fase indispensabile, probabilmente impiegherà più tempo di quello che non le cerca. Lavorerà, cioè, in modo meno efficiente.
Per comprendere meglio quest’altra sostanziale differenza fra i vari modi di fare terapia, può essere di ausilio il cosiddetto rasoio di Occam, dal nome del monaco e filosofo Guglielmo da Occam, vissuto fra il 1200 e il 1300.
Evitiamo la moltiplicazione di concetti inutili diceva il religioso, riferendosi a tutte le bizzarre astrazioni ideate dalla scolastica medievale. Economia vuole che ciò che si può fare o spiegare con meno, sia inutile farlo o spiegarlo con più. Perché impiegare anni per uscire da una fobia, se la stessa cosa si può ottenere in 10 sedute o meno?
Anche questo punto, pertanto, differenzia in modo sostanziale i diversi approcci alla psicoterapia. Alcuni si basano su teorie pesanti, che tentano di spiegare tutto e in alcuni casi, purtroppo, finisce che l’amore per la spiegazione prevale su quello per l’efficacia. Alcune terapie diventano un mero rimuginare senza fine sui concetti, alla ricerca di spiegazioni e di perché, anche se il problema nel frattempo è sempre lì, al suo posto.
Viceversa, in altre terapie prima si cerca di capire lo stretto necessario sul funzionamento del problema, poi si interviene su di esso e infine, se è ancora richiesto, si cercano le spiegazioni e interpretazioni del caso. Che quasi sempre saranno delle narrazioni a posteriori, ossia spiegazioni di comodo. Del resto l’essere umano è bravissimo a valutare le cose in retrospettiva...
In sintesi: lavorare in modo efficiente significa avere un occhio di riguardo per l’aspetto economico. Significa avere amore per l’essenziale, per il minimalismo, per i soli aspetti davvero importanti lasciando perdere il resto. Vale in terapia come ovunque.
Conclusione
La conclusione è scontata: la prossima volta che sentirete dire o leggerete che per ottenere il tale risultato, in terapia, sia assolutamente indispensabile un certo qualcosa, chiedete prove. E soprattutto, controprove e controesempi.
E ricordate che dove è utile il rasoio, può essere ancora più utile la motosega.
Bibliografia:
- Beckner V., Vella L., Howard I., Mohr D. C., 2007. Alliance in two telephone-administered treatments: relationship with depression and health outcomes. Journal of Consulting and Clinical Psychology. 2007 Jun;75(3):508-12.
- Greencavage, L. M., Norcross, J.C., 1990. Where are the commonalities among therapeutic common factors? Professional Psychology: Research and Practice. 21 (5), 372-378.
- Krupnick, J. L. et al, 1996. The role of the therapeutic alliance in psychotherapy and pharmacotherapy outcome: findings in the National Institute of Mental Health Treatment of Depression Collaborative Research Program. University of Pittsburgh, Pittsburgh, Pennsylvania, United States. Journal of Consulting and Clinical Psychology. 07/1996; 64(3):532-9.
- Lambert M. J., Vermeersch D. A., 2002. Effectiveness of Psychotherapy. In Elsevier Encyclopedia of Psychotherapy, 709-714, Elsevier Science, USA.
- Laska, K. M., Gurman, A. S., Wampold, B. E., 2014. Expanding the lens of evidence-based practice in psychotherapy: A common factors perspective. Psychotherapy, 51, 467–481.
- Luborsky, L., Singer, B., Luborsky, L., 1975. Is it true that ‘Everyone has won and all must have prizes?’, Archives of General Psychiatry, 32, 995–1008.
- Offredi, A., 2015. Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici. State of Mind online.
- Rosenzweig, S., 1936. Some implicit common factors in diverse methods of psychotherapy. American Journal of Orthopsychiatry, 6 (3), 412–415.
- Wampold, B.E., 2001. The Great Psychotherapy Debate: Models, Methods, and Findings. Lawrence Erlbaum Associates Inc., Mahwah: NJ.
- Wampold, B. E., Budge, S. L., 2012. The 2011 Leona Tyler Award address: The relationship–and its relationship to the common and specific factors of psychotherapy. The Counseling Psychologist, 40, 601–623.