L’empatia si può allenare?

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Dr.ssa Sabrina Camplone Psicoterapeuta, Psicologo

Attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale è possibile migliorare la capacità di entrare in empatia con l’altro. L’empatia è la capacità di intuire lo stato d’animo e i pensieri dell’altro, instaurando un legame interpersonale intenso e significativo, infatti si di essa si fondano tutti i comportamenti pro-sociali.

Tuttavia non tutti gli esseri umani hanno sviluppato questa capacità allo stesso modo.

Un’èquipe di neuroscienziati dell’istituto D’Or de Pesquisa e Ensino (IDOR) ha condotto una ricerca per dimostrare che è possibile allenare l’empatia nelle persone.

L’obiettivo della ricerca era scoprire se i partecipanti avessero una forma di controllo volontario sugli schemi di attivazione cerebrale connessi all’empatia e alle emozioni affiliative (ad esempio compassione e tenerezza).

In passato altri studi hanno documentato che ricevere un riscontro visivo delle attivazioni cerebrali rilevate attraverso Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), può aumentare la capacità di modulazione volontaria dell’attivazione cerebrale stessa associata alle emozioni di base positive e negative.

Tuttavia non c’erano ancora evidenze scientifiche relative alla possibilità di una persona di fare altrettanto anche con stati emotivi complessi come quelli che sottendono all’empatia.

Moll e colleghi dimostrano che la medesima tecnica si può utilizzare anche per facilitare l’induzione di stati mentali empatici.

Nella fase preparatoria si è chiesto a 25 soggetti, di pensare a 3 eventi autobiografici in cui avessero vissuto sentimenti di tenerezza, orgoglio e uno emotivamente neutro. Successivamente si è cercato di rievocare tali stati d’animo durante l’esperimento, attraverso la presentazione scritta di parole chiave prima delle scansioni con la risonanza magnetica funzionale.

I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: al gruppo sperimentale veniva inviato un riscontro in tempo reale della loro attività neurale durante i ricordi “empatici”, al gruppo di controllo invece non veniva fornito alcun riscontro ma venivano sottoposti alla visione di stimoli casuali.

I risultati confermano l’ipotesi di partenza: confrontando l’ultima sessione con la prima, il gruppo sperimentale aveva un maggior numero di prove correttamente classificate come caratterizzate da tenerezza, al contrario del gruppo di controllo. Il riscontro visivo delle proprie attivazioni cerebrali avrebbe dunque effetti significativi. 

 

Tale conclusione può rappresentare la premessa per sviluppare interventi finalizzati al potenziamento stati psicologici sani e funzionali e contrastare così comportamenti disfunzionali connessi ad una carenza di empatia, che sono spesso resistenti ad un approccio farmacologico.


BIBLIOGRAFIA: 

 

Data pubblicazione: 16 settembre 2015

2 commenti

#1
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Ex utente

Sì, ma che non siano interventi così solipsistici però! Anche i bambini autistici imparano bene che se uno piange a dirotto sta soffrendo, ma poi serve la pratica nella relazione, altrimenti come si fa ad imparare a collegare l'espressione, la postura, la reazione che uno ha sulla base di come "sente l'altro" con una rappresentazione di quello che l'altro sta pensando in relazione agli eventi o ai propri comportamenti? Se uno interpreta come sta l'altro in base a quello che fa soffrire e stare bene lui stesso è facilissimo fare del male e difficilissimo offrire riparazione ("Perchè chiedere scusa? Io non ho fatto niente!"). Io penso che sia la pratica di nascondere la sofferenza che ci rende sempre meno empatici, perchè la fa sembrare una cosa eccezionale, come se la felicità fosse la condizione naturale dell'uomo e la sofferenza una colpa da nascondere. Che ne dice?

#2
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Dr.ssa Sabrina Camplone

"Sì, ma che non siano interventi così solipsistici però!"

L'articolo riporta uno studio condotto nell'ambito della ricerca in psicologia dell'età evolutiva.
In psicoterapia e, in particolare nella EFT Terapia focalizzata sulle emozioni, uno degli obiettivi terapeutici è proprio quello di aiutare le persone a sviluppare una migliore consapevolezza delle proprie emozioni in modo da utilizzarle per sperimentare modalità relazionali nuove ed efficaci."

"Io penso che sia la pratica di nascondere la sofferenza che ci rende sempre meno empatici, perchè la fa sembrare una cosa eccezionale, come se la felicità fosse la condizione naturale dell'uomo e la sofferenza una colpa da nascondere. Che ne dice?"

La sofferenza non viene nascosta per caso ma a causa di un'emozione che nessuno vuole mostrare: la vergogna.

La stanza di psicoterapia diventa quindi "lo spazio protetto" da una relazione empatica e non giudicante nel quale esplorare il proprio vissuto emozionale specialmente se è doloroso e scomodo.

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