Cybercondria: fidarsi o non fidarsi del Dr. Google?
Internet e i suoi derivati hanno sicuramente molti meriti: sono strumenti di informazione rapidi e potentissimi che hanno certamente ampliato le nostre conoscenze, reso il sapere accessibile e rapidamente fruibile da tutti, migliorato le possibilità di comunicazione. È l’uso che talora se ne fa ad essere scorretto, specie quando si sostituisce ad altri canali più attendibili di informazione.
Se oggi abbiamo un dubbio, il primo ad essere consultato è Google e questo vale anche quando il dubbio riguarda la nostra salute. Ma il dr. Google non è poi così affidabile, non dice sempre cose certe e scientificamente provate, delle volte si contraddice e non tiene conto delle differenze individuali perché generalizza.
Ricordiamoci, infatti, che su internet ognuno può dire la sua e che gli articoli più quotati non sono necessariamente più validi di quelli che, invece, si trovato in seconda, terza o quarta pagina di ricerca.
Che cosa significa?
Che usare Google per avere indicazioni sul proprio stato di salute conduce nella maggior parte dei casi a farsi un’idea sbagliata del problema e che non può sostituirsi al parere del proprio medico.
Cybercondria: autodiagnosi sul web che diventa ossessione
Quante persone giungono dal medico curante già provviste di autodiagnosi, costruite a partire dalle informazioni reperite in rete, dalla partecipazione ai forum, dalla condivisione di esperienze mediante chat? Oppure, quante persone, non convinte dalla diagnosi e dalla cura suggerite dagli operatori sanitari, si affidano ai lumi di Google per essere certe di non avere qualcosa di più grave? In questo enorme sforzo di trovare da soli una risposta, in primo piano non c’è tanto il desiderio di capire quello che sta realmente succedendo, quanto il bisogno di incasellare il proprio malessere, dargli un’etichetta, renderlo comprensibile, controllarlo. Il problema è che quando ci si rivolge al medico, la descrizione minuziosa del proprio quadro sintomatologico non è realistica, ma è presa in prestito o arricchita dalle conoscenze approssimative apprese mediante il web: i sintomi saranno, così esagerati o eliminati a sostegno dell’autodiagnosi fatta.
Non c’è nulla di male nell’usare Google per avere qualche nozione in più ma, ripeto, il problema è quando, oltre a divenire il mezzo esclusivo o preferenziale di informazione, si trasforma in una vera e propria ossessione. Si parla in questi casi di Cybercondria, termine che nasce dalla fusione delle parole “cyber” e “ipocondria” e che alcuni ricercatori della Microsoft, R. White e E. Horvitz, hanno definito come “l’infondata escalation di preoccupazioni riguardo una sintomatologia comune, basata sui risultati di ricerca e articoli trovati sul web.”
È possibile, dunque, parlare di malati immaginari dell’era moderna?
Forse, ma una malattia è comunque presente, anche se non si adatta ai termini di ricerca digitati su Google. Il vero problema di questi ipocondriaci virtuali è l’ansia e, suo fedele compagno, il controllo. Tipicamente, non è possibile trovare un sollievo o una rassicurazione neanche quando, finalmente, si riesce a dare al proprio sintomo una precisa etichettricerca diagnostica o, al contrario, quando le conoscenze disponibili permettono di escludere la presenza delle peggiori malattie. È un comportamento, questo, che non attenua l’ansia sottostante, ma la peggiora, alimentando la ricerca ossessivo-compulsiva e la preoccupazione per patologie inesistenti.
Una possibile spiegazione…
La cybercondria è legata ad un’inquietudine così profonda e difficile da gestire che la nostra mente (che mente) utilizza difensivamente delle strategie per tenerla fuori dalla coscienza o spostarla su qualcosa di più concreto e superficiale, come la preoccupazione per un malessere fisico. È meno dispendioso, in termini di energia psichica, convincersi che il proprio mal di testa sia legato ad un tumore al cervello che nessuno riesce a diagnosticare, quindi a qualcosa che non dipende da noi e dalla nostra volontà, piuttosto che pensare che tutto sia legato a noi e alla nostra ansia, alle abitudini disfunzionali di pensare, sentire, agire, di cui è possibile occuparsi mediante un lavoro su di sé attento e impegnato che, tuttavia, ha costi emotivi elevatissimi…