T'ammazzo d'amore: mamme che uccidono di (iper) cure
Si può morire di troppa cura e di eccessive attenzioni? I bambini possono subire danni enormi, spesso irreparabili, a causa delle eccessive cure parentali e in alcuni casi, purtroppo, ne muoiono.
Si è per lo più portati a immaginare la violenza e l’abuso come qualcosa di esplicito, brutale, cruento. Esistono tuttavia forme di un tipo di abuso più subdolo, che ho già avuto modo di chiamare “silente” (Raggi, 2014), dove le vittime non sono oggetto di percosse o stupri, eppure possono ugualmente subire conseguenze psicofisiche molto gravi, sino appunto a morire.
Quando le vittime dell’abuso silente sono minori, bambini, addirittura i propri figli, siamo allora al cospetto della perversione stessa dell’idea di “genitorialità”. Essere genitori, infatti, non significa soltanto generare biologicamente un bambino, ma riuscire a esercitare una funzione che abbia come scopo il “prendersi cura” (Erikson, 1982) dei figli.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 36503/2011), con la condanna di una madre e di un nonno emiliani per maltrattamento, ha stabilito che le cure parentali devono avere come risultato il benessere dei figli. Dunque non basta più l’intenzione amorevole, la buona fede, ma per la giustizia italiana è il unicamente risultato a stabilire se si è stati o meno dei buoni genitori. Iperaccudimento, iperprotezione e ipercura parentale, costituiscono dunque a tutti gli effetti un reato di maltrattamenti.
Un caso particolare di ipercura parentale, nelle sue forme più estreme, è la cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura” (leggi qui il Minforma del Dr. Francesco Saverio Ruggiero), descritta per la prima volta da Roy Meadow nel 1977 (Meadow, 1997), per la quale una madre simulando cura e attenzione per il figlio, ne è invece principale artefice delle cause di malessere.
Lacey Spears è, a questo proposito, la donna statunitense che poche ore fa (marzo 2015) è stata riconosciuta colpevole della morte, avvenuta due anni fa, del proprio figlioletto di soli cinque anni. Questa madre, divenuta famosa sui social network per la dedizione con cui si prendeva “cura” del figlio ammalato, stava in realtà lentamente avvelenando il proprio bambino con dosi di comune sale da cucina introdotte attraverso un comune sondino naso-gastrico. Leggi di questo caso sul sito del quotidiano "La Stampa", nell'articolo del 3 marzo 2015: "Madre uccide figlio per raccontarlo sul suo Blog".
Si tratta di condizioni cliniche difficilmente riscontrabili dall’esterno, è infatti noto che tale sindrome si diagnostica per lo più dopo che il delitto è stato commesso (Merzagora, 2002). Queste mamme sono in grado di camuffare molto abilmente le proprie reali intenzioni, risultando al contrario estremamente amorevoli e premurose agli occhi del personale medico e infermieristico, il quale nella maggior parte dei casi, a delitto avvenuto, resta sconcertato per la scoperta “incredibile”.
In ottica psicoanalitica, si tratta di situazioni ove il genitore scinde da sé le angosce ipocondriache e le proietta sul figlio, facendolo diventare il ricettacolo di tutti i possibili mali e delle patologie più incredibili.
Nel mese di agosto del 2014 divenne tristemente famosa un’altra madre, stavolta a Torino, un’infermiera poi arrestata per il tentato omicidio del figlio di quattro anni: lo faceva ricoverare e poi gli iniettava progressive dosi di insulina non facilmente rinvenibili, che però stavano per causare la morte del bambino.
Lo stesso Jung riteneva che dietro l’aspetto accudente e benevolo della “mamma” buona, si nascondesse anche una “Madre Terribile”, un archetipo del materno sempre in bilico tra l'amore e l'odio, onnipotente e ostile come Medea, immagine mitica dell’ambivalenza materna.
Dopotutto è noto alla psicologia che nella specie umana l’amore materno sia più una conquista culturale, che un dato di fatto. La madre è, invece, molto ambivalente nei propri sentimenti verso il bambino, che è sì amato, ma al contempo anche odiato: per il tempo sottratto, per la gioventù smarrita, per i sacrifici e le privazioni che egli richiede alla madre.
Essere consapevoli dei propri sentimenti, avere un partner che ti supporta, una famiglia che ti sostiene e lasciarsi aiutare da un esperto, possono essere elementi decisivi nel sostegno della propria maternità.
Bibliografia
- Bowlby J. (1988), Una base sicura, Milano, Cortina, 1989.
- Erikson E.H. (1982), I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma, Armando, 1984
- Jung C.G (1934/1954), Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 2007
- Meadow R. (1997), ABC of Child Abuse, Dunfermline, BMJ
- Merzagora B. I. (2002), “Madri che uccidono”, Atti VII Cong. Naz. SOPSI, Roma
- Raggi A., (2014), "Il Mito dell'Anoressia. Archetipi e luoghi comuni delle patologie del nuovo millennio", Milano, Franco Angeli