Musica e risposta neurale

elisabetta.scolamacchia
Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia Psicologo, Psicoterapeuta

 

Che la musica, ascoltata, prodotta o riprodotta, eseguita singolarmente o in gruppo, sia una delle risorse dai molteplici effetti benefici per l’individuo, è credenza generalmente accettata e condivisa. Una sorta di verità intuitiva, radicata ed universale.

Che la scienza, e specificamente, la neurobiologia se ne occupi e, attraverso rigorosi studi, ne dia conferma, è, per certi versi, rassicurante in quanto dà spessore e concretezza a quello che da secoli abbiamo sempre inconsapevolmente percepito.

La musica arricchisce, riempie, dà nutrimento e significato alle nostre esperienze di vita, ci accompagna e fa da sfondo o da amplificazione alle nostre emozioni e ai nostri sentimenti. Quasi tutti noi lo sappiamo, perché l’abbiamo verificato soggettivamente. Ora, tuttavia, veniamo a conoscenza di qualcosa di molto più specifico e, soprattutto, supportato da dati scientifici e da ricerche rigorose.

Uno studio recente, i cui risultati sono apparsi in un articolo del Journal of Neuroscience del 3 Settembre 2014 a cura di N. Kraus, J. Slater, E. C. Thompson, J. Hornickel, D. L. Strait, Trent Nicol e Travis White_Schwoch, afferma che un training musicale protratto per un periodo di tempo almeno biennale migliora la funzione del sistema nervoso, poiché focalizza l’attenzione su stimoli acustici significativi, e ha una ricaduta positiva sulle abilità sia cognitive, che linguistico-comunicative.

La scoperta ha avuto grande risonanza negli Stati Uniti al punto che gli educatori e gli esperti in campo pedagogico e didattico hanno iniziato a considerare l’inserimento di programmi di musica come disciplina co-curricolare al fine di potenziare la risposta neurale e l’apprendimento a livello cognitivo e comunicativo in bambini durante l’età dello sviluppo.

Un progetto sperimentale-pilota già effettuato è consistito nell’individuare bambini che provengono da condizioni economiche e sociali disagiate e con  notevoli difficoltà di apprendimento e nel fornire loro, gratuitamente, un training musicale continuo e sistematico per almeno due anni. Tale training ha previsto sia l’apprendimento di strumenti musicali, da suonare in band, sia di abilità vocali da esercitare in coro.

Test standardizzati sono stati somministrati prima dell’avvio del progetto, dopo il primo anno e al termine del secondo anno di addestramento e hanno evidenziato un netto potenziamento nella risposta neurale a stimoli uditivi oltre a un miglioramento nelle abilità cognitive, linguistiche e comunicative, con notevole vantaggio nel campo dei risultati scolastici. Quello che il progetto sperimentale ha messo in risalto è stato che risultati effettivamente positivi si sono avuti dopo almeno due anni di training continuo e sistematico, mentre un solo anno di addestramento si è rivelato insufficiente a fornire concreti risultati in merito.

L’associazione tra capacità musicali apprese e funzionamento cognitivo, d’altro canto, era già stata indicata in una precedente ricerca dell’Agosto 2011, della quale il British Journal of Psychology riporta i risultati. Tale studio aveva visto coinvolti bambini dai 9 ai 12 anni, metà dei quali addestrati alla musica e l’altra metà senza alcuna istruzione o training in tal senso, che erano stati sottoposti a test sul QI e su alcune funzioni esecutive.

Secondo lo studio, il gruppo musicale aveva riportato un più alto livello nei test del QI rispetto al gruppo di controllo, non addestrato musicalmente, anche se era stata evidenziata una trascurabile correlazione tra addestramento musicale e funzione esecutiva.

Possiamo, quindi, ipotizzare che vi siano altri circuiti coinvolti nell’apprendimento di abilità cognitive e nel potenziamento musicale?

E cosa succede a tali bambini diventati adulti, e finanche anziani, per quanto riguarda il loro funzionamento cognitivo e la rispettativa risposta neurale?

Uno studio recente, del 6 Novembre 2013, riportato dal Journal of Neuroscience, afferma che un moderato addestramento musicale dai 4 ai 14 anni è associato a una più rapida risposta neurale sia nell’aspetto uditivo che in quello cognitivo e linguistico, e continua a produrre i suoi benefici effetti anche in età adulta. Tale scoperta ha portato gli stessi ricercatori ad affermare che il declino nelle funzioni del sistema nervoso, specificamente in quello uditivo, e che consisterebbe in una risposta rallentata ad elementi verbali rapidamente mutevoli, non è inevitabile. Adulti, anche anziani, con alle spalle una vita di training musicale, non sembrano, in grande percentuale, manifestare ritardi in questa sfera, anche nel caso che abbiano interrotto per diversi anni la pratica musicale stessa.

In conclusione, anche l’APA (American Psychological Association) ha pubblicato un articolo di Amy Novotney, nel novembre 2013, che è intitolato “Music as medicine”, sulla correlazione tra musica, risposta immunitaria e riduzione dello stress prima di delicati interventi medico-chirurgici, e trattamento della sintomatologia del morbo di Parkinson, della fibromialgia e della depressione.

In particolare, il PhD e Professore di musica all’Università di Toronto Lee Bartel sta esplorando su una eventuale connessione tra le vibrazioni sonore, assorbite attraverso il corpo, e una riduzione dei sintomi del morbo di Parkinson, della fibromialgia e della depressione. Precedentemente, già nel 2009, ricercatori condotti da L. K. King del Sun Life Financial Movement Disorders Research and Rehabilitation Centre alla Wilfrid Laurier University a Waterloo, Ontario, avevano scoperto che l’uso a breve termine della terapia vibro-acustica con pazienti parkinsoniani aveva portato al miglioramento dei sintomi, inclusi minor rigidità e ridotti tremori.

Un altro PHD e psicologo all’Università Mc Gill a Montreal, Daniel J. Levitin, nell’Aprile del 2013, inoltre, in una meta-analisi di 400 studi, aveva trovato una correlazione tra la musica e il potenziamento del sistema immunitario e la riduzione dello stress prima di interventi medico-sanitari. Il ricercatore, coadiuvato dal PhD Mona Lisa Chanda, aveva scoperto che ascoltare e suonare aumentano la produzione di immunoglobuline anticorpali A e cellule Killer, quelle che attaccano i virus e potenziano l’efficacia del sistema immunitario. A queste positive risposte, sembrava aggiungersi anche la riduzione dei livelli di cortisolo, ormone dello stress.

Tutte le ricerche qui citate sembrano proprio andare nella direzione della ricaduta positiva della musica su sfere cognitive e comunicative diverse. Tuttavia, non troverei scientificamente corretta questa presentazione se non citassi anche uno studio che tende, forse, ad andare in un’altra direzione. Mi riferisco alla ricerca, del Novembre 2012, diffusa dall’APA in Psychology of Aesthetics, Creativity and the Arts, secondo la quale gli adolescenti coinvolti in attività artistiche, quali la musica, il teatro e la pittura, presenterebbero maggiori probabilità di risultare affetti da sintomi depressivi rispetto agli studenti che non sono coinvolti in tali programmi.  Il progetto di ricerca ha visto la partecipazione di 2.482 studenti dai 15 ai 16 anni di cui 1.238 erano ragazze, 27% neri, 19% Ispanici e 54% bianchi non-Ispanici.

La spiegazione che viene data dagli autori che hanno condotto la ricerca è che le persone attirate verso le arti potrebbero avere determinati tratti cognitivi, quale, per esempio, quello di essere in grado di assimilare un livello di informazione più elevato da parte del contesto circostante, caratteristica che li porterebbe a doversi confrontare con stimoli eccessivi e con un conseguente overload cognitivo ed emotivo difficile da gestire.

Tale spiegazione è solo un’ipotesi e, a mio parere, anche molto parziale. Primo, perché non spiega se è la maggiore consapevolezza di soffrire di stati depressivi che conduce a un tentativo auto-curativo ricercato nell’ambito artistico, o se sono le attività artistiche che amplificano la tendenza agli stati depressivi. Secondariamente, perché gli autori non differenziano tra depressione e tristezza, quasi che entrambi i concetti fossero sinonimi e, perciò, intercambiabili. In terzo luogo, il target di adolescenti tra i 15 e i 16 anni non può essere generalizzato a tutte le età dello sviluppo.

In conclusione, a fronte di così importanti ricerche, dai risultati non sempre convergenti, ritengo opportuno proporre alcune riflessioni che possano avere una loro “spendibilità” anche sul piano pratico.

Le considerazioni che traggono ispirazione da queste ricerche, di chiara impronta anglosassone, riguardano anche il sistema scolastico italiano, dal quale la musica sembra essere la grande esclusa. Nella scuola elementare e nella scuola media, essa è infatti affidata a pochi insegnanti che ne capiscono la reale efficacia nel potenziare la motivazione degli alunni, con tutto il suo correlato cognitivo, emotivo e comunicativo.

Docenti lodevoli quanto più che rari, i quali, altrettanto raramente, vedono riconosciuta la loro opera pedagogica e didattica; in molti casi, invece, possono essere addirittura tacciati di scarsa professionalità. Nelle scuole superiori e nelle Università italiane, poi, la musica semplicemente scompare e viene relegata nei Conservatori, nei quali, talvolta, si perde il senso e il ruolo che essa possiede a livello di crescita complessiva dell’individuo. L’attenzione sembra piuttosto spostarsi sull’acquisizione di nozioni teoriche e tecniche. Certo, la musica presuppone una struttura rigorosa ed un impegno costante, ma se solo a questi aspetti essa viene ricondotta, diventa essa stessa sterile riproduzione, per lo più eseguita individualmente.

Quello che, al contrario, gli studi su citati sembrano mettere in evidenza è l’acquisizione di competenze musicali in gruppo, sia esso strumentale o vocale, per un periodo di tempo piuttosto lungo (almeno due anni) e con incontri sistematici e regolari, insieme al senso di cooperazione versus competizione. Insomma, passione che diventa esperienza condivisa. Se si trattasse solo ed unicamente di produrre un risultato esteticamente ed artisticamente bello e in totale isolamento, non credo che gli effetti sarebbero quelli che le ricerche evidenziano. La musica può essere di certo curativa e spesso anche terapeutica ma i suoi effetti sono, a mio parere, potenziati almeno da tre variabili: la costruzione della motivazione, altrimenti detta passione o entusiasmo, l’incremento del senso di agency personale legata alla capacità di poter creare, la condivisione con il gruppo correlata al senso di appartenenza e alla relazione tra pari.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Music enrichment Programs improve the Neural Encoding of Speech in at-risk Children. N. Kraus, J. Slater, E. C. Thompson, J. Hornickel, D. L. Strait, T. Nicol, T. White-Scwoch. The Journal of Neuroscience, 3 Sept. 2014, 34 (36); 11913-11918; doi 10.1523/Jneurosci. 1881-14-2014.
  • Music as Medicine. APA.( American Psychological Association) A. Novotney, Nov. 2013, Vol. 44, No. 10.
  • Teens involved in Arts Activities report more depressive symptons than teens not involved in the Arts, research finds. APA, Psychology of Aesthetics, Creativity, and the Arts. November, 2012. From : Heightened Incidence of Depressive Symptons in Adolescents involved in the Arts, L. N. Young, MA; E. Winner, PHD, S. Cordes, PHD; Boston College; Psychology of Aesthetics, Creativity, and the Arts, vol. 7, No. 2.
  • Examining the Association between Music Lessons and Intelligence. E. Glenn Schellenberg. Articolo, 1 Fe. 2011. British Journal of Psychology, Vol. 102, issue 3, pp. 283-30
Data pubblicazione: 20 dicembre 2014 Ultimo aggiornamento: 08 gennaio 2015

Per aggiungere il tuo commento esegui il login

Non hai un account? Registrati ora gratuitamente!

Guarda anche musica